Prologo

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Nascosta nel suo angolo buio, la sigaretta stretta tra i denti, osservava i due uomini impegnati in una falsa e ossequiosa discussione. Quello basso, con il grembiule unto legato alla vita e i capelli ancora più unti incollati alla fronte, sembrava però sul punto di cedere: il nervosismo si era condensato in sudore e ora gli imperlava vistosamente la fronte.

«Weelbo, non prendertela, non è una questione personale.» Anche il suo interlocutore aveva notato l'ansia dell'oste.

«Non lo sarà per te, ma lo è per il tuo capo» protestò Weelbo.

«Senti, se è di un segno della mia buona fede che hai bisogno, eccoti accontentato» e si mise seduto a uno dei tavoli, tutti vuoti a quell'ora della notte.

Anche lei fece lo stesso: evidentemente era arrivata con un leggero anticipo.

«Vuoi mangiare? Adesso?» balbettò l'oste.

«Portami quello che hai, qualche avanzo. Ho cenato lungo la strada, ma il viaggio è stato lungo e sono abituato ad altro» rispose l'uomo, carezzandosi d'istinto il ventre teso.

Weelbo sparì in cucina e cominciò a far cozzare pentole e stoviglie, letteralmente: non aveva alcuna voglia di cucinare per quel bastardo e dato che aveva chiesto avanzi, avanzi avrebbe ricevuto. «Ho mezzo tacchino, può andare?» chiese raccogliendo in realtà le frattaglie rimaste nei piatti quella sera.

«È perfetto!»

«Te le scaldo» gridò prima di affacciarsi dalla cucina. «Però tu smettila con i giri di parole e vieni al sodo.»

«E va bene, Weelbo, sarò brutale: il capo vuole i suoi soldi.»

Ora l'oste aveva iniziato a gocciolare, e non per il calore proveniente dalle braci, ormai spente. «Li ho dati a quell'altro tizio, lo sfregiato.»

«Chi, Guance di seta? Non s'è più visto da quando è venuto qui a riscuotere.»

«Allora sarà scappato lui con i soldi» ribatté prontamente, mescolando frammenti di carne nel tentativo di far loro accumulare un briciolo di calore.

«Senti, Weelbo, io sono un tipo schietto, lo avrai capito, e prima voglio dirti la mia. Sai perché abbiamo scelto questo posto? Non certo per la pulizia del locale» e sottolineò le parole passando un dito sul tavolo e scalfendo lo strato di grasso e briciole che lo ricopriva. «Lo abbiamo scelto perché è un locale losco frequentato da gente losca, e non c'è modo migliore per nascondere del grano che infilarlo in un granaio. Però, vedi... che ci sia Weelbo il Monco o un altro dietro a quel bancone, per il mio capo è lo stesso. L'importante è che i soldi attraversino il confine. Tutti.»

Mentre l'uomo parlava, l'oste s'era dato un gran daffare per impiattare con dovizia la cena, cospargendo i resti del povero pennuto con una speciale salsa bruna dalla consistenza appiccicosa.

«Ecco a te» disse, con un grande e faticoso sorriso stampato sulla faccia.

L'uomo guardò l'oste dritto negli occhi: «Mi hai capito?»

«Certo! Però adesso mangia, che il fuoco era spento e mi son dovuto arrangiare con le braci, non l'ho scaldato granché.»

Quello abbassò lo sguardo sul piatto: «E questo sarebbe tacchino?» chiese dubbioso, infilandone comunque una generosa manciata in bocca. «Non fosse per la salsa, saprebbe di topo.»

«La faccio io, è una mia ricetta segreta» rispose Weelbo, asciugandosi il sudore dalla fronte, ora più distesa.

«Sai cosa penso?» continuò quello riempiendosi ancora la bocca. «Che avresti fatto bene a vendere questo posto e sparire, perché quando fai il doppio gioco con le persone sbagliate la partita può finire in un solo modo.»

«Che modo?» domandò Weelbo con una punta di sarcasmo.

Il suo ospite non sembrò apprezzare e, furtivo, si fece scivolare tra le mani una lama.

Anche per lei era giunta l'ora di rimettersi al lavoro: lasciò cadere la sigaretta, si alzò, prese la falce e tirò su il cappuccio.

Fu un attimo: l'uomo spinse il tavolo con prepotenza tirandosi in piedi, tese i muscoli e caricò il lancio del coltello che, con una precisione frutto di una pratica decennale, si sarebbe conficcato nella spalla dell'oste, poco sopra il cuore. Ma prima che il braccio potesse distendersi completamente, alcune arterie gli esplosero nel cervello.

Morte fece un passo fuori dall'ombra.

Lo spirito del sicario la salutò come facevano nove mortali su dieci: «Merda!»

«Un benvenuto a te, Gelso Scorra detto Lamasvelta» rispose Morte con una punta d'irritazione nella voce, assolutamente impercettibile a qualunque orecchio terreno. «Ora seguimi.»

«No, aspetta» protestò lo spirito, mentre osservava il suo corpo scalciare la vita con gli ultimi spasmi. «Cos'è successo?»

«Sei morto» rispose con estrema professionalità.

«Sì, ma come?»

«Un vasocostrittore ha aumentato la pressione nel tuo sistema arterioso, provocando il cedimento del già debole tessuto neurale...»

«Puoi spiegarlo anche in un modo comprensibile?» ribatté il sicario, che in quanto tale si trovava incredibilmente a suo agio con Morte.

«Sei stato avvelenato.»

«Vuoi dire che quel piccolo ratto...»

«Sì. E adesso, se non ti dispiace, andiamo, qui non c'è altro per te, mentre io ho molto lavoro che mi attende.»

Ma lo spirito sembrava incapace di distogliere lo sguardo dall'oste, che con estrema fatica stava spostando il cadavere sopra una tovaglia, che poi avrebbe utilizzato per trascinarlo fuori più facilmente.

«Per Babuz, quanto pesi!» imprecò Weelbo. «Mi sa che devo seguire il tuo consiglio e vendere tutto, che se il Banchiere la prossima volta ne manda uno ancora più grosso, non so proprio come lo sposterò.»

Arrivato sul retro lasciò il corpo nel patio e recuperò una grossa accetta.

«Ehi, aspetta, che vuoi fare?» protestò il sicario come se l'altro potesse udirlo.

«Fa a pezzi il tuo corpo per trasportarlo più facilmente al fiume, dove poi lo getterà» gli spiegò Morte con il consueto distacco.

«E come lo sai?»

«Gliel'ho già visto fare. Ora possiamo andare? O vuoi restare a goderti lo spettacolo?»

Gelso Lamasvelta lanciò un ultimo sguardo alle sue spoglie mortali, poi si voltò verso la luce, un attimo prima che l'oste gli staccasse un braccio con un colpo deciso.

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