5 - La paura negli occhi

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Che bel casino.

Leo chiuse con un sospiro l'ennesima pagina internet in cui veniva spiegata l'agorafobia e i sintomi principali associati a essa. Ne aveva lette diverse nell'ultima ora, dopo l'arrivo di Marco, e la situazione non era affatto semplice. Forse avrebbe dovuto fare quelle ricerche prima di farlo venire a casa sua. Sì, era proprio un bel casino quello in cui si era cacciato. Non sapeva nulla di attacchi di panico, non ne aveva mai sofferto e né aveva mai conosciuto qualcuno che ne soffrisse. Forse, nella sua ignoranza sulla malattia, aveva sottovalutato lo stato di salute mentale del ragazzo, e lo aveva capito nello stesso momento in cui lo aveva visto sul pianerottolo. Era il 16 febbraio, non faceva molto freddo, ma certo non tanto caldo da andare in giro in maglietta ed essere sudati come dopo aver corso per un'ora. Eppure Marco gli era apparso davanti con il viso arrossato, del tutto senza fiato e così accaldato che anche i capelli sembravano bagnati. Ma era stato soprattutto il suo sguardo a colpirlo. Era spaventato a morte, gli occhi sbarrati come se avesse incontrato un mostro o lo stesse rincorrendo uno spietato assassino.

Leo chiuse il laptop e lasciò lo studio diretto verso la cucina, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare di diverso. Magari, si disse, avrebbe potuto organizzare una videoconferenza, lasciando che Marco lavorasse da casa, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Sapeva bene come lavorava la sua squadra, era un continuo brainstorming dove le parole venivano trasformate in disegni, e subito controllate dagli altri per comprendere se stavano percorrendo la strada giusta. Guardare un disegno via webcam o anche scannerizzato e inviato via e-mail, non solo sarebbe stato meno immediato, ma non avrebbe reso al meglio. Un disegno visto dal vivo ha sempre un diverso effetto, e il cliente di quella commessa aveva richiesto progetti realizzati a mano e non computerizzati, per caratterizzare al meglio l'effetto vintage e classico del suo prodotto. Non aveva avuto scelta, insomma.

Eppure guardarlo arrivare in quello stato, vederlo rimanere seduto sul letto rannicchiato su sé stesso, lo aveva colpito in maniera particolare. Leo non si era mai preoccupato e occupato di nessuno, non dopo la morte di Massimo. D'altronde anche lui aveva sempre dovuto superare ogni ostacolo con le sue stesse forze, senza una famiglia che lo sostenesse, perché dichiararsi gay era ancora difficile nel 2019, figuriamoci quasi trent'anni prima nella provincia romana, dove lui era nato e cresciuto. Aveva lottato con i denti per realizzarsi e si era costruito una corazza per resistere alle tempeste della vita. Non aveva avuto il tempo di interessarsi a chi lo circondava, perché troppo impegnato a difendere sé stesso. Forse per quel motivo aveva sottovalutato il problema di Marco, perché fino a quando non aveva incrociato quegli occhi pieni di terrore e angoscia, non aveva compreso quanto il suo malessere fosse profondo e reale.

Arrivò in cucina e si passò una mano nella corta barba, in quel gesto oramai divenuto automatico quando era sovrappensiero, e con un sospiro iniziò a preparare il pranzo, tirando fuori dal frigorifero le uova e il guanciale per preparare una carbonara.

Magari un buon piatto di pasta gli farà bene.


Lo odio. È irritante e menefreghista e io lo odio.

Marco si era ripetuto quelle parole dal momento in cui Leo lo aveva lasciato. Quando non aveva più sentito i suoi passi, solo allora si era alzato dal letto iniziando a guardarsi intorno. La stanza per fortuna non aveva nulla che lo turbasse, tranne le grucce nell'armadio che erano dispari e, per evitare un nuovo attacco, ne aveva scaraventata una fuori con rabbia, facendola finire sotto il letto. Poi con estrema cura e diligenza, aveva tirato fuori tutti i suoi vestiti, sistemandoli con attenzione anche nei cassetti. Una volta terminato era già l'una, ma aveva bisogno di una doccia e di cambiarsi con qualcosa di pulito. Aveva quindi messo a posto tutti i suoi medicinali nel bagno e verificato che l'accappatoio e gli asciugamani presenti profumassero di pulito. Poi si era buttato nella doccia, rimanendo sotto l'acqua per quasi mezz'ora.

Era quasi l'una e mezza quando, asciutto e cambiato, era uscito dal bagno e il profumo che veniva dalla cucina aveva fatto brontolare il suo stomaco, vuoto dalla sera precedente, in maniera oscena. Attraversò quindi il corridoio e il salone che, quando era entrato di corsa, non aveva neanche guardato. L'appartamento era arredato con eleganza e l'enorme vetrata, che affacciava sul terrazzo e sul parco di Villa Ada, illuminava un bel tavolo in legno rettangolare, con molta probabilità lavorato a mano, così ampio da poter contenere anche più di venti persone, e un divano in pelle così lungo che in casa sua non sarebbe neanche entrato. Doveva essere piacevole e comodo, pensò, guardare un film proiettato sull'enorme televisore a muro, seduti sul divano con le gambe distese sul tavolino basso, attorno al quale c'erano anche due ampie poltrone, all'apparenza altrettanto comode.

Con le mani infilate nelle tasche dei jeans, continuò a camminare spostando lo sguardo verso la cucina a vista, dove Leo era intento a cucinare dandogli le spalle. Lo osservò con attenzione, come non aveva avuto modo di fare fino a ora. Sembrava a suo agio mentre sbatteva le uova in una zuppiera e mescolava il contenuto della padella, smuovendola con agili movimenti della mano. Dal profumo, Marco intuì che stava preparando una carbonara e ne fu felice, perché era uno dei suoi piatti preferiti e forse anche uno dei pochi che sapeva cucinare.

«È quasi pronto, siediti» la voce di Leo, che gli parlò senza voltarsi, lo fece sobbalzare per la sorpresa e spostò lo sguardo sulla tavola di fronte al ripiano della cucina, più piccola di quella del salone, apparecchiata per due. Per fortuna era tutto doppio e con un sospiro prese posto, continuando a guardarlo mentre mescolava pasta e sugo nella zuppiera, in modo da non far diventare frittata le uova, che dovevano rimanere cremose, né troppo crude e liquide, né troppo cotte e a grumi.

Ma in realtà la sua attenzione non rimase molto a lungo sulla pasta che veniva condita, quanto sulla schiena dell'uomo e soprattutto su come, sia la camicia di un bel verde acquamarina sia i jeans neri che aderivano al fisico, mettevano in risalto la muscolatura, le gambe massicce e i glutei, decisamente ben torniti. Senza neanche rendersene conto, Marco si morse un labbro e il cuore accelerò. Non era abituato a osservare da vicino un uomo e la sensazione era piacevole, troppo piacevole, tanto che, quando Leo si voltò, arrossì temendo di essere stato scoperto a guardarlo più del dovuto.

«Spero che la carbonara ti piaccia, non ho pensato di chiederti se hai problemi anche con il cibo.»

«Mi piace. Non ho problemi con il cibo, grazie. Basta che sia buono» gli rispose, tornando a essere irritato nei suoi confronti, perché definire in quel modo le sue ossessioni compulsive lo riteneva superficiale.

«Senti, abbiamo iniziato con il piede sbagliato, possiamo anche cercare di fare una tregua per una ventina di giorni» mentre parlava, Leo riempì i piatti di entrambi, sedendosi poi di fronte a lui «io non so nulla di te, né della tua malattia. Quindi, se devo sapere qualcosa per evitare di farti andare in tilt, dimmelo che facciamo prima.»

«Io non vado in tilt, non sono un flipper» gli rispose, guardandolo per qualche secondo prima di cominciare a infilzare i rigatoni con rabbia «si chiamano attacchi di panico» aggiunse, addentando il boccone e per un po' non disse nulla, assaporando il gusto di una perfetta carbonara che per un attimo gli fece dimenticare quello che voleva dire «comunque, a parte essere costretto a forza a uscire di casa e vivere in un posto non mio, quello che li provoca sono il campanello della porta che suona a orari diversi dalla mezz'ora e dall'ora, come già sai, oggetti lasciati in disordine e numericamente non pari, e anche il contatto fisico» sussurrò le ultime parole senza alzare lo sguardo dal piatto, perché odiava dover raccontare a qualcuno delle sue fobie e se ne vergognava. Soprattutto odiava quando vedeva la pietà negli sguardi degli altri e sentirsi dire quei "mi dispiace, immagino sia difficile", perché nessuno poteva davvero immaginare cosa significasse, nessuno poteva davvero capire quanto fosse terribile e solitaria una vita da recluso in casa, senza neanche il conforto di un abbraccio o una carezza.

«Tutto pari? Devo metterti un altro bicchiere, un piatto e una forchetta, allora?» la domanda di Leo gli fece alzare lo sguardo e rimase meravigliato dalla sua espressione, perché quell'uomo non gli stava mostrando né pietà né ipocrita comprensione, non gli stava mostrando proprio nulla, era lì con quel sopracciglio sollevato e lo sguardo distaccato come al solito, che gli chiedeva come voleva che fosse apparecchiato un tavolo, come se gli avesse chiesto quali colori preferiva o che tipo di musica ascoltava.

«No, è tutto già doppio. Apparecchio per due anche io» gli rispose dopo un po' riprendendo a mangiare.

«Ah, beh, almeno una cosa in comune l'abbiamo allora. Lo faccio anche io.»

«E perché mai lo fai?»

«Per essere stimolato a cucinare qualcosa di decente, piccoli trucchi di sopravvivenza quotidiana.»

«Tu sei strano.»

«Disse colui che vive come un eremita» gli sentì dire e a quelle parole Marco fu indeciso se mandarlo di nuovo a quel paese o infilzarlo con la forchetta «quella usala per finire di mangiare, vorrei evitare che mi macchiassi la camicia nuova.»

«Vaffanculo» gli rispose, e senza dire altro, tornò ad abbassare lo sguardo e a infilzare con rabbia i rigatoni, continuando a pensare che sì, lo odiava con tutto il cuore.

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