4 - La domanda senza risposta

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Lo so, non è stata colpa mia, e allora perché?

Era la domanda che non abbandonava mai la sua mente, in nessun momento della giornata o della notte. L'ultimo pensiero prima di addormentarsi, il primo quando si alzava.

Marco osservò la valigia e la borsa ancora aperte sul letto, riempite con ordine maniacale di coppie di indumenti, ripiegati e ordinati in base ai colori, mentre continuava a chiedersi per quale motivo non faceva grandi progressi nella terapia. Aveva imparato solo a utilizzare le tecniche di respirazione lenta per affrontare un attacco di panico, ma nella realtà non faceva molta pratica, perché evitava di fatto ogni situazione che potesse provocarne uno.

La psichiatra che l'aveva accompagnato nei primi anni di crisi, quando la famiglia affidataria iniziava a non sapere più come gestire quelle che credeva fossero solo ansie da stress post traumatico, si era ritirata dalla professione e aveva avuto anche la pessima idea di trasferirsi in un altro continente, per stare vicina ai suoi figli e nipoti, lasciandolo in balia di un collega con cui Marco proprio non riusciva a legare. Negli ultimi tempi aveva anche diminuito le sedute, convinto che non gli portassero alcun giovamento.

Non si fidava, non riusciva a fidarsi di quell'uomo che voleva spingerlo a fare esercizio fisico, magari anche all'aperto. Un pazzo che forse voleva solo vederlo morto per una crisi respiratoria. In realtà la sua parte razionale sapeva che lo psichiatra aveva ragione, che tutto era nella sua mente, che doveva affrontare le paure per imparare a superarle, ma la parte irrazionale era più forte e comunque il nodo principale rimaneva sempre irrisolto, la domanda che lo assillava restava senza risposta. Forse per quel motivo Marco non si fidava, perché l'uomo non lo aveva ancora aiutato a comprendere per quale motivo non riuscisse a guarire, nonostante avesse accettato di non essere il responsabile della morte dei genitori. Forse il suo io più profondo non lo aveva ancora metabolizzato. Forse, troppi forse che non facevano altro che confonderlo.

Marco scosse la testa, cercando di liberarla da ogni pensiero negativo. La sveglia sul comodino diceva che mancavano venti minuti alle dieci e doveva finire di controllare di non aver dimenticato nulla, soprattutto tra i farmaci. Sorrise con amarezza, pensando che all'inizio erano stati creati per la tubercolosi e la depressione e che, almeno quelle due malattie, lui non le aveva. Non essere depresso era un buon segno, glielo diceva sempre il suo psichiatra, ma di fatto non lo aiutava. Invece che deprimersi per quella pseudo vita che gli toccava, era incazzato, ma questo non lo aveva spinto a fare nulla che fosse al di fuori della sua tranquillizzante routine.

Marco sospirò e chiuse valigia e borsone, portando poi entrambi davanti alla porta d'ingresso. Era così poco abituato a viaggiare, che aveva dovuto spolverarli quando li aveva tirati giù dall'armadio. L'ultima volta che era andato da qualche parte era stato per il trasloco dalla casa famiglia a quell'appartamento, appena raggiunta la maggiore età. E non ne aveva sofferto molto, se non durante il viaggio, perché vivere in quella casa, dove ragazzi e ragazze continuavano a venire e andare via, invadendo di continuo i suoi spazi vitali, era una tortura. I genitori affidatari erano brave persone, ma con nessuno dei due era riuscito a creare un rapporto profondo. Da quando era andato via neanche li sentiva più. E questo non lo aveva aiutato per nulla, perché un agorafobico come lui può iniziare ad affrontare la sua paura di uscire di casa, ad esempio, se qualcuno di fiducia lo accompagna. Ma lui non aveva nessuno di cui si fidava per davvero. Solo il suo amico Federico, che però aveva più turbe di quante ne avesse lui stesso e non amava andare in giro ad accompagnarlo, per aiutarlo magari durante un attacco di panico, tranne che in casi di estrema importanza come quello che stava per affrontare.

Alle dieci in punto il campanello squillò e per un attimo Marco vide il buio dinanzi a sé invece che la porta. Poi iniziò a contare nella mente, regolando il respiro, e aprì salutando Federico, che per l'occasione si era anche ripulito e fatto una doccia.


«Ma sei sicuro sia una buona idea?»

Leo si morse un labbro, ascoltando la voce titubante di Manrico dall'altra parte del telefono, mentre sorseggiava una spremuta d'arancia. Quella mattina aveva corso lungo i viali di Villa Ada molto più di quello che di solito faceva e, prima di andare sotto la doccia, aveva sentito il bisogno di rinfrescare la gola e ristabilire l'equilibrio di zuccheri e sali minerali.

«L'unica cosa che so è che non ci sono alternative, quindi, Manrico, facciamo tutti in modo che funzioni» gli rispose, finendo la spremuta e posando il bicchiere sporco nel lavello «ora vado a lavarmi e cambiarmi, ci vediamo alle tre con tutti quanti» aggiunse, prima di chiudere la chiamata dopo averlo salutato.

Posò quindi il telefono sul tavolo situato di fronte alla cucina a vista, separata dal salone da una lunga penisola con attorno una serie di sgabelli. Guardò l'orologio a muro e calcolò che, a meno di imprevisti, Marco sarebbe arrivato tra massimo tre quarti d'ora. A dire il vero quel ragazzo poteva essere un'incredibile fonte di imprevisti, ma Leo aveva tutte le intenzioni di aggiudicarsi quella commessa e amava le sfide. Non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscito. Inoltre Marco in qualche modo lo intrigava e non era solo per quel visino adorabile. C'era qualcosa in quello sguardo che lo aveva colpito.

Leo scosse la testa cercando di liberare la mente da quei pensieri, perché l'obiettivo principale era quello di portare a termine il lavoro nel migliore dei modi, e non voleva farsi distrarre da altro. Senza considerare il fatto che avrebbe dovuto conviverci per ben venti giorni, e meno complicazioni si creavano meglio sarebbe stato per tutti.

Sospirò a quel pensiero mentre entrava nella camera da letto, diretto verso il suo bagno personale. Si tolse la maglia e i pantaloni della tuta, gettandoli nella cesta dei panni sporchi insieme ai boxer, e aperta l'acqua entrò nella grande doccia richiudendo la porta smerigliata.

Saranno venti giorni molto lunghi.


Inspira! Conta fino a dieci trattenendo il fiato e poi espira lentamente!

Marco teneva gli occhi chiusi da quando erano saliti in auto. Ci aveva messo ben un quarto d'ora per uscire di casa, come se i piedi avessero smesso di obbedire ai suoi ordini e a ogni passo potesse cadere in un abisso profondo e scuro. Stava sudando così tanto che aveva dovuto togliersi la giacca e anche la camicia, rimanendo in maniche corte mentre stringeva forte tra le mani una bottiglietta d'acqua, dalla quale continuava a bere a piccoli sorsi. Il cuore batteva forte, come se avesse corso per chilometri, e il mondo attorno scorreva veloce, troppo veloce. Aveva chiuso gli occhi, quando i palazzi gli erano sembrati così alti e lui si era sentito così piccolo da immaginare che potessero inghiottirlo o chiudersi sulla sua testa, intrappolando l'auto fino a schiacciarla. In quel momento aveva iniziato a contare, utilizzando le tecniche di respirazione che gli avevano insegnato, per regolare lo stato di iperventilazione in cui si trovava. Non ricordava un attacco del genere da mesi, ma era anche vero che aveva evitato qualsiasi situazione che potesse scatenarlo.

Federico, seduto al suo fianco sul sedile posteriore dell'auto che Leo aveva inviato, cercava di distrarlo con inutili chiacchiere, ma si sentiva che non era a suo agio e che non sapeva come comportarsi. Come al solito, doveva vedersela da solo e alla fine la sua voce era diventata solo un mormorio di sottofondo.

Stava per svenire, per morire. Non si sarebbe più svegliato, ne era certo.

«Siamo arrivati.»

Quelle parole magiche gli fecero riaprire gli occhi, e osservò per qualche secondo la palazzina elegante davanti alla quale si erano fermati. Solo tre piani con ampi balconi pieni di piante, che mantenevano la privacy degli appartamenti alla vista dei curiosi.

Con la giacca, la camicia e la bottiglietta d'acqua strette al petto, Marco scese dall'auto e corse fino al portone, che per fortuna era aperto, rifugiandosi nell'atrio raffinato dell'edificio, dove si fermò non sapendo dove andare.

«Dobbiamo salire al terzo piano» la voce affannata di Federico, che gli era corso dietro, lo fece deglutire e, con gli occhi ancora spalancati, prese le scale facendole a due a due, senza curarsi dell'amico che gli urlava di aspettarlo.

Quando arrivò al terzo e ultimo piano non aveva più fiato, ma non sapeva più se era per la salita veloce o per il panico e l'ansia che non gli permettevano di respirare bene. C'erano solo due porte sul pianerottolo, ma individuò subito quella giusta, perché Leo era sulla soglia dell'appartamento e lo stava guardando con un sopracciglio alzato.

«Dov'è la mia stanza?» gli domandò senza neanche salutarlo, mentre entrava di corsa, passandogli davanti nel piccolo atrio che affacciava nel salone.

«A destra della finestra, non la prima camera, né la seconda, ma la terza» gli rispose l'uomo dalla porta che ancora teneva spalancata e, senza aspettare altro, Marco attraversò il salone, superò le prime due stanze ed entrò nella terza.

Non guardò nulla, andò diretto verso il letto matrimoniale dove si sedette togliendosi le scarpe, e una volta raccolte le ginocchia al petto le abbracciò poggiandoci la testa, chiudendo gli occhi per concentrare la sua attenzione solo sul respiro.

Non seppe quanto tempo passò, entrò in una specie di trance cosciente in cui si accorse di Federico che lo salutava, della valigia e del borsone che venivano posati di fianco al letto, della porta d'ingresso che veniva richiusa, e quando il silenzio divenne rilassante, solo allora osò riaprire gli occhi. Aveva smesso di sudare, il cuore era tornato a battere con regolarità e respirava normalmente. Alzò la testa e vide Leo a pochi metri da lui che, mani in tasca, lo stava guardando con la stessa espressione di prima.

«Di fianco a questa stanza c'è il tuo bagno. Io ne ho uno privato a cui si accede solo dalla mia camera. All'una e mezza mangiamo, alle tre arriva la squadra di lavoro. Se hai bisogno di qualcosa, sono nello studio che è dall'altra parte del salone e della cucina.»

«L'unica cosa di cui avevo bisogno era non essere costretto a lasciare casa mia» gli rispose, trattenendo la rabbia che iniziava ad assalirlo.

«E l'unica cosa di cui ho bisogno io è vincere questa gara, quindi fattene una ragione.»

«Vaffanculo» gli sibilò tra i denti, trovando davvero irritante quel suo atteggiamento imperturbabile. In genere non si comportava in quel modo con le persone, le poche volte che veniva a contatto con qualcuno, ma Leo sembrava scatenare il peggio di lui e lo osservò, curioso di vedere come avrebbe reagito.

«Saranno venti giorni molto lunghi, decisamente» gli sentì dire e, ancora più arrabbiato di prima, Marco lo guardò uscire dalla stanza con la stessa fredda, tranquilla e irritante espressione del viso, che avrebbe volentieri preso a schiaffi, se avesse potuto farlo.

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