3 - Matto io, matto tu

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Leo sospirò chiudendo il fascicolo del bilancio aziendale e lo spostò in un angolo dell'elegante scrivania di mogano del suo ufficio, come se non volesse vederlo. Non erano dati incoraggianti, e aver perso le ultime commesse non aveva aiutato affatto.

Anni prima aveva voluto fare il salto di qualità, trasformando la piccola agenzia grafica in una di comunicazione pubblicitaria integrata. Aveva investito denaro, assunto personale e l'azienda era cresciuta in poco tempo, accaparrandosi clienti importanti sul mercato. Ma la concorrenza era diventata sempre più spietata nell'ultimo periodo, la crisi aveva modificato alcune scelte e così molti suoi clienti avevano preferito altre agenzie, che giocavano al ribasso accettando commesse con budget ridotti all'osso. Del resto, se la maggior parte dei suoi concorrenti avevano collaboratori pagati con partita iva, anche se svolgevano ruoli da dipendenti, segretarie comprese, era più semplice per loro riuscire ad avere ricavi anche con budget inferiori. Lui invece andava controcorrente, perché sapeva cosa significava sentirsi sfruttati. Lo aveva sperimentato sulla sua pelle di giovane grafico, costretto a lavorare anche quattordici ore al giorno senza alcuna garanzia di un guadagno, quando anche comprarsi una birra era un lusso, come lo era ammalarsi o avere un giorno di ferie. Leo non aveva mollato, aveva dato il meglio di sé e, grazie a un paio di lavori importanti, aveva finalmente ingranato e iniziato a vedere i soldi veri.

Poi ci fu l'incontro con Massimo, la malattia e infine la sua morte, che lo lasciò senza più un cuore, ma con un pianoforte, una casa e una piccola somma, perché l'uomo non aveva parenti e aveva lasciato tutto a lui. Leo non aveva mai avuto il coraggio di vendere il suo appartamento o quello strumento, ma il denaro lo aveva investito tutto nel lavoro, perché Massimo credeva in lui, nelle sue capacità e non voleva deluderlo.

Forse per quel motivo Leo continuava a lottare per mantenere viva quell'azienda, anche se, nell'ultimo periodo, con la compravendita immobiliare aveva guadagnato molto di più. Il suo ruolo comunque non era più quello di grafico, perché grazie alle sue doti comunicative e alle public relations, poteva svolgere il compito di account al meglio, facendo da tramite tra le esigenze dei clienti e quelle interne dell'agenzia. Ecco perché non capiva come mai non avessero centrato le ultime tre commesse.

Aprì di nuovo i fascicoli delle tre gare che avevano perso e riguardò con attenzione ogni dettaglio, compresi i modelli realizzati sia dalla sua agenzia che da quella che aveva poi vinto. Passandosi una mano nella corta barba, dovette ammettere che i disegni dei suoi concorrenti erano migliori. Eppure quel Marco era bravo, solo che i progetti presentati dalla sua azienda non sembravano realizzati dal ragazzo. Aggrottò le sopracciglia e controllò l'elenco di tutti i dipendenti e collaboratori che avevano partecipato alla creazione delle proposte pubblicitarie, e quando vide il nome di un altro grafico la sua mano calò improvvisa sulla scrivania. Prese quindi il telefono interno e chiamò Manrico, il suo art director, e Giulio, il copywriter, con cui aveva la più stretta collaborazione.

In neanche dieci minuti apparvero entrambi nel suo ufficio, il primo, basso e tarchiato, arrivò con il fiatone, perché a trentacinque anni, senza fare sport e fumando un pacchetto di sigarette al giorno, gli bastavano due passi più veloci per sentirsi come se avesse fatto una maratona di venti chilometri. Il secondo, magro e allampanato come un lampione, entrò con la sua solita flemma, tanto che anche una tartaruga avrebbe potuto batterlo in velocità.

«Chiudete la porta e sedetevi.»

I due si guardarono per un attimo, chiaramente non a loro agio, come se avessero già intuito che non sarebbe stata una chiacchierata piacevole. Anche se Leo non alzava mai la voce, e aveva un comportamento sempre corretto e onesto con collaboratori e dipendenti, la sua serietà e freddezza metteva in soggezione tutti.

«Tutto a posto, Leo?» Manrico fu il primo a parlare e, nonostante la sua voce fosse tranquilla, il modo in cui muoveva un piede dimostrava tutta la sua agitazione.

«Ragazzi, ho bisogno di capire una cosa» disse, con in mano i tre fascicoli che aveva esaminato «queste commesse erano molto importanti, e avremmo dovuto mettere in campo la nostra migliore squadra» prese quindi i tre disegni sventolandoli davanti ai loro occhi «mi spiegate, quindi, per quale motivo abbiamo usato un grafico diverso e non Marco, che è di gran lunga più bravo?»

«Ecco, Leo, hai ragione, Marco è più bravo, ma lo hai conosciuto ieri, no? È problematico lavorare con lui in questi casi» la voce di Manrico si fece più sottile e scambiò una fugace occhiata con Giulio al suo fianco «insomma, questi progetti andavano preparati in poco tempo e per farlo, lo sai, allestiamo una squadra che lavora sempre insieme qui in ufficio, perché le idee devono essere subito visualizzate e corrette, se serve. Ma con Marco questo è impossibile.»

«Per la sua malattia, intendi? L'agora... agorafobia? Ma allora è vero quello che mi ha detto? Non esce mai di casa?»

«Non del tutto. Cioè, sì è vero che non esce di casa, ma qualche volta, se costretto, lo fa. Solo che non riesce a stare tutto un giorno in un ufficio o in un luogo che non sia casa sua. Potrebbe venire qui solo se non ci fosse altro modo per far arrivare i suoi disegni, ad esempio, e comunque scapperebbe via subito.»

«E organizzare il lavoro della squadra a casa sua? Non ci avete pensato a questa cosa?»

«Certo che ci abbiamo pensato» questa volta fu Giulio a parlare «ma venti persone stipate dentro casa sua gli farebbero venire un attacco di panico al solo pensiero. Va in ansia se ti avvicini troppo a lui, perché non vuole essere toccato, figuriamoci lavorare fianco a fianco in quel piccolo ambiente. Era improponibile, Leo. Abbiamo dovuto fare una scelta forzata. Marco lo utilizziamo solo per i clienti storici, quelli che ci danno molto tempo per realizzare la campagna pubblicitaria, e non per la preparazione di una proposta per aggiudicarci una commessa. Rischieremmo di non presentarci proprio.»

Leo si accasciò contro lo schienale, tornando a passare una mano sulla barba e tra i capelli, mentre con l'altra tamburellava sul bracciolo della poltrona girevole.

«Ragazzi, io vi ho sempre lasciato carta bianca su queste decisioni, una volta stabilito il progetto di massima, ma avrei preferito essere informato di questo problema. Siamo in molti qui, non posso conoscere tutti di persona, e perdere tre commesse perché non abbiamo utilizzato il nostro miglior grafico, che pago profumatamente, mi innervosisce parecchio.»

«Leo, anche sapendolo, non sarebbe cambiato nulla. Marco ci permette di mantenere lo zoccolo duro dei nostri clienti storici, licenziarlo sarebbe una stupidaggine» le parole di Manrico gli fecero avere una reazione impulsiva e colpì con violenza la scrivania con il palmo della mano, facendoli sobbalzare entrambi.

«Ma ti pare che sono il tipo che licenzio un ragazzo, bravo tra l'altro, con i problemi che ha?» sbraitò infastidito, perché era contento se incuteva un po' di timore, ma passare per uno stronzo del genere, proprio non gli andava giù «sarebbe anche da stupidi, rischierei una causa dei sindacati in un attimo» aggiunse con un sospiro.

«E quindi, che alternative ci sono se non proseguire nello stesso modo?» gli domandò Giulio allargando le braccia come in un gesto rassegnato.

«Fra venti giorni abbiamo una nuova gara per agguantare un buon cliente e non possiamo permetterci il lusso di perdere anche questa» disse alzandosi per andare davanti alla finestra che affacciava su via Nomentana «lasciate fare a me, ho un'idea» aggiunse con un sorrisetto, che i due non riuscirono a vedere.


Quattro blu, quattro rosse, quattro verdi, quattro nere.

Marco contò per l'ultima volta le matite, in ordine e allineate al millimetro sul suo tavolo di lavoro, e sospirò rilassato. Le matite e i pastelli erano un vero problema, perché mentre disegnava era l'unico momento in cui si distraeva dalle sue ossessioni, e quando terminava spesso finiva per andare in panico, perché una matita si era accorciata troppo, un'altra era sparita chissà dove, forse finita nel cimitero delle penne e matite, come lo chiamava lui, dove sembravano finire tutte, quando scomparivano alla sua vista.

Per fortuna quella era una buona giornata e dalla mattina ogni cosa era filata liscia come l'olio. Non aveva avuto neanche un attacco, non aveva perso neanche una matita né un bicchiere, e il disegno dell'ultimo lavoro che gli avevano commissionato stava venendo bene.

Alzò lo sguardo sull'orologio a muro, felice di vedere che stavano per scoccare le sei del pomeriggio di una giornata che era volata senza intoppi. Una cosa più unica che rara, che per qualche istante lo fece illudere di poter avere una vita normale.

L'improvviso suono del campanello, alle sei in punto, lo fece sobbalzare dalla sorpresa e si girò verso la porta. Non aveva ordinato cibo a casa né altro e non doveva consegnare disegni. Per fortuna era un orario buono e, dopo la prima sorpresa, si alzò per andare ad aprire.

«Sono le sei in punto» la voce di Leo, intento a guardare il suo orologio da polso, lo lasciò senza parole per qualche istante.

«Non devo consegnare nulla.»

«Lo so, ma dobbiamo parlare di una cosa importante.»

«Ci sono le e-mail, i telefoni, volendo anche le chat e WhatsApp. Non so se sei a conoscenza della loro esistenza» gli rispose con un tono più sarcastico e duro di quello che avrebbe voluto, perché le visite a sorpresa proprio non lo mettevano di buon umore.

«Mi fai entrare o dobbiamo continuare a parlare sul pianerottolo? Non sono cose che volevo dire per telefono o altro» gli rispose l'uomo, che continuava a guardarlo dalla soglia con le mani ora infilate nelle tasche dei pantaloni, in una posa elegante, che metteva in risalto il torace.

Marco sospirò, e alzando gli occhi al cielo si fece da parte per farlo entrare richiudendo poi la porta.

«Cosa c'è di così importante da venire di nuovo a casa mia? Non ci siamo mai visti da quando lavoro per te, ora ci vediamo per due giorni di seguito?» gli chiese, continuando a dargli del tu come aveva l'abitudine di fare con tutti, vista la poca vita sociale che aveva.

«È evidente che c'è un motivo, altrimenti non mi scomodavo a venire fino a qui» gli rispose Leo, dandogli le spalle e avvicinandosi al tavolo da disegno, dove Marco lo osservò buttare un occhio sui suoi lavori in corso «sì, decisamente c'è un motivo» aggiunse l'uomo annuendo e tornando a voltarsi verso di lui «sta venendo bene, il cliente sarà contento.»

«Grazie» gli disse, incrociando le braccia e mordendosi appena un labbro perché, anche se sapeva d'essere bravo, non era abituato a ricevere complimenti. In genere nessuno gli diceva mai nulla.

«Allora, Marco. Vengo al sodo. Stiamo creando la squadra per la prossima gara a cui parteciperemo. Fra venti giorni deve essere tutto pronto e tu sei in squadra.»

Marco sobbalzò spalancando gli occhi, e le labbra si schiusero come se gli mancasse improvvisamente l'aria. «Questo è impossibile.»

«Per nulla. Ne abbiamo perse tre senza di te, non posso permettermi che accada ancora. Fai parte della squadra di lavoro, non si discute.»

«Ma sei fuori di testa?» la voce gli uscì squillante come neanche lui si aspettava e guardò Leo, che lo osservava inarcando un sopracciglio e socchiudendo appena gli occhi.

«Ti rivolgi sempre così ai tuoi datori di lavoro?»

«E tu ragioni prima di parlare? Io non posso lavorare in una squadra tutto il giorno! Lavoro solo in casa, come te lo devo dire?» gli urlò contro, vomitandogli addosso il suo nervosismo, perché era una delle tante cose che avrebbe voluto fare, ma che la sua dannata malattia gli impediva di realizzare.

«Infatti lavorerai in casa» sentì dire a Leo, che sembrava impermeabile a qualsiasi cosa gli si dicesse. Iniziava a odiare quell'atteggiamento imperturbabile e tranquillo, e a quelle parole Marco alzò gli occhi al cielo.

«Che stupidaggine. È impossibile lavorare in venti e più persone qui, non si riuscirebbe neanche a respirare» gli rispose scuotendo la testa, mentre stringeva ancora di più le braccia sul torace, come se si dovesse proteggere da qualcosa.

«Non ho detto che avresti lavorato a casa tua. Ho detto in casa» la voce di Leo era tranquilla e Marco avrebbe giurato in quel momento di vedere un lampo di divertimento nei suoi occhi «per essere precisi, lavorerai a casa mia. Ho un appartamento molto grande con diverse camere. Da domani ti trasferisci da me e per venti giorni lavorerai nella squadra a casa mia, che farà da comoda e spaziosa sede.»

Marco rimase così sorpreso che la bocca si spalancò e gli sembrò di boccheggiare come uno stupido pesce. «Io non mi trasferisco da nessuna parte» gli disse infine, iniziando a pensare che forse, tra loro due, il più matto non era lui.

«Tu lo farai. Prepara le tue cose. Domani mando una macchina a prelevarti alle dieci del mattino.»

«Io non lo farò, ho detto! Perché mai dovrei farlo?»

«Perché se non lo fai, ti licenzio, quindi non hai alternative.»

Marco spalancò di nuovo gli occhi e stavolta non riuscì neanche a rispondere. Quel maledetto uomo lo stava minacciando di licenziamento come se niente fosse. Continuò a fissarlo senza riuscire a dire nulla e quando lo vide muoversi dalla sua posizione, per superarlo e andare verso l'ingresso, non si voltò neanche a guardarlo. Era come impietrito, annichilito al pensiero di dover non solo uscire di casa, ma anche trasferirsi per venti giorni in un altro appartamento, dove tutto sarebbe stato fuori posto, dove nulla sarebbe stato solo suo.

«Alle dieci, puntuale» furono le parole che gli sentì ancora ripetere e, dopo che la porta fu aperta e richiusa, Marco si accartocciò su sé stesso, tremando come una foglia, sapendo che avrebbe dovuto trovare tutta la forza necessaria, perché non poteva permettersi di perdere il lavoro.

Lui doveva farlo, era obbligato a farlo.


NOTA AUTRICE

* Account, Art Director e Copywriter sono tre figure professionali importanti di un'agenzia di comunicazione integrata, che possiamo considerare al vertice di ogni progetto, pur con ruoli diversi.

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Questa storia è rimasta ferma al primo capitolo per un bel po' di tempo non solo perché dovevo terminare "L'Inferno dentro" e per la revisione sia di questo che de "La follia dell'angelo", ma anche perché ho dovuto far maturare per bene i personaggi dentro la mia mente e studiare.

L'agorafobia in parte la conosco direttamente, perché tempo fa conobbi una persona che ne era affetta, in parte invece la sto studiando, in modo da regalarvi, come sempre, una bella storia ma credibile e realistica.

Quindi non aspettatevi tutte rose e fiori in poco tempo (e quando mai) perché sarà un percorso difficile e lungo per entrambi i personaggi 😅😅😅

Tra parentesi come sempre i personaggi comunque se ne vanno per fatti loro e questi due, da quello che mi sembra di capire, se le vogliono menare di santa ragione 😂😂😂

Ma giuro che io non l'avevo pensata così all'inizio, e non sono neanche certa di quello che vi sto dicendo ora.

L'unica cosa che vi posso dire è che Leo e Marco mi stanno entrando sotto pelle e questa è sempre una buona cosa, come ho già detto a qualcuno.

Voi che ne pensate? Che immagine vi state facendo di loro due?

Al prossimo capitolo.

Eliana.

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