14 - Heart is a Traitor

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Era un nuvoloso e fresco pomeriggio di fine novembre. La luce del sole accarezzava a intermittenza la superficie accartocciata delle foglie sul prato; alcuni alberi sfoggiavano ancora quel che restava del loro vestiario dai toni caldi, altri tendevano i bracci nudi e storti al cielo nel tentativo di graffiare via la tela di nuvole che li separava dalla loro celeste metà. C'era chi faceva jogging lungo il reticolato di sentieri asfaltati, chi sostava su una panchina per riposare o scambiare quattro chiacchiere, anziane signore a spasso con il cagnolino, bambini che si divertivano a rincorrersi e lanciare briciole alle anatre sulle rive del Serpentine.

Hyde Park era uno dei polmoni di Londra, un mare verde in cui immergersi per concedersi una pausa dal rumoroso grigiore urbano.

Dan raggiunse la posizione inviatagli da Jem su WhatsApp. Dopo il crollo emotivo del giorno prima, il biondo lo aveva esortato - per non dire costretto - a staccare la spina per qualche ora e lasciarsi rigenerare dalla bellezza dei parchi londinesi. Dapprima riluttante, Jem aveva infine acconsentito a concedersi un po' di tregua.

Dan lo trovò ai piedi di una quercia secolare, libro sulle ginocchia e cuffie alle orecchie. Aveva un'espressione così assorta e, allo stesso tempo, serena che quasi gli spiaceva doverla spezzare con la sua presenza. Sistemò il borsone della palestra sulla spalla e lo raggiunse.

«Hey, man! How're you doin'?» lo salutò con la disinvoltura che lo caratterizzava. Jem sollevò gli occhi sul ragazzo in tenuta sportiva che gli stava di fronte: giacca rossa, pantalone nero, borsone in spalla, forma e sorriso smagliante; gli aveva detto che l'avrebbe raggiunto dopo la sua quotidiana sessione di allenamento.

Chiuse il libro e tolse gli auricolari.

«I'll survive» rispose mesto, stringendosi in una larga felpa nera raffigurante cinque figure incappucciate senza volto, né mani, di cui quella al centro "reggeva" un cuore coronato di spine; galleggiavano minacciose sopra a un mare illuminato dal chiaro di luna; nel cielo nero, foschi nuvoloni si trasformavano in teschi e volti straziati. In alto, la scritta rossa in maiuscolo "Testament", in basso "Souls of Black". «As long as I have books and music...»

«And good company!» aggiunse gioviale Dan, depositando il borsone sul prato e accomodandosi a fianco del moro. Da vicino, il suo volto appariva sciupato: l'espressione era rilassata, quasi apatica; tuttavia, le marcate ombre sotto agli occhi e le risposte stringate lasciavano intendere che la tempesta emotiva fosse lungi dall'essere passata.

«Cosa stavi ascoltando?» chiese Dan. Jem gli allungò un'auricolare, portò l'altra all'orecchio e fece ripartire la traccia da dove l'aveva interrotta.

If this is to end in fire

Then we should all burn together

Watch the flames climb high into the night

«I See Fire!» esclamò Dan alla prima nota, guadagnandosi un'occhiata d'apprezzamento.

«Ti piace Ed Sheeran?» s'informò Jem al termine della canzone.

«Conosco tutta la sua discografia.»

Jem sollevò le sopracciglia.

«Abbiamo qualcosa in comune, allora.»

«Strano ma vero» confermò Dan in risposta alla sua espressione incredula. «Scommetto che hai visto Lo Hobbit

«Ovvio.»

«Immaginavo» ridacchiò il biondo. «Sei mai stato a un suo concerto?»

«No.»

«Neanch'io, ma mi piacerebbe. Potrei informarmi per il prossimo tour, ora che ci penso. Sono secoli che non vado a un concerto!»

«Sarebbe bello» disse Jem con una nota nostalgica che non sfuggì a Dan.

«Non sono mai andato a un concerto,» dovette ammettere il moro «non di musica classica, intendo.»

«Nooo! I don't believe it!» gli occhi azzurri di Dan lo fissarono increduli. «Niente file chilometriche all'ingresso? Niente spintoni per accaparrarsi il posto migliore, né ore e ore sotto il sole e la pioggia a sgolarsi e a spellarsi le mani di applausi?»

«Ehm... no» constatò Jem con un filo d'imbarazzo. «Non c'è mai stata l'occasione e, comunque, non ho mai avuto un grande interesse a partecipare a eventi di massa.»

«Ma va', è bellissimo! Non sai che ti perdi» lo incitò Dan lanciandogli poi un'occhiata bieca. «Non è che sei un tantino ipocondriaco?»

«Ipocondriaco, asociale, sociopatico... fai tu. La lista è lunga» disse Jem con sprezzante autoironia.

«Lo sai che ti tocca rimediare al più presto, vero? Sei a Londra, cazzo, approfittane finché puoi! Ti divertiresti un sacco!»

«Dici?»

«Altroché! Se vuoi un consiglio, informati su quale concerto, spettacolo, evento possa piacere a te e a Sara e portacela! Vedrai che ti ringrazierà.»

Jem ci pensò su. In effetti, proporle di uscire e fare qualcosa di diverso poteva essere un'occasione per riconciliarsi, soprattutto alla luce dei recenti dissapori.

«Perché no? M'informerò. Scommetto che le piacerebbe andare a un concerto.»

«Le piacerebbe anche vederti sorridere, ogni tanto.»

Jem rimase muto dinnanzi alla naturalezza con cui Dan pronunciò quelle parole.

Sorridere.

E perché mai? Per far piacere agli altri?

Ha davvero importanza?

Volendo porre rimedio al turbamento provocato da quella battuta, Dan dirottò lo sguardo dalla faccia scombussolata di Jem al suo smartphone. «Posso scegliere una canzone?»

«Oh. Certo» concesse Jem, porgendoglielo.

«Cosa ascolti di solito?»

«Un po' di tutto.»

«Per curiosità o per il lavoro che fai?»

«Entrambi. Scelgo a volte in base all'umore, a volte in base a ciò che può ispirarmi nella composizione di un pezzo.»

Dan poggiò la schiena contro la corteccia ruvida, incrociò le gambe e cominciò a scorrere le playlist salvate. Erano tantissime: alcune avevano nomi strambi dal significato indecifrabile - forse acronimi - altre erano catalogate per generi musicali, alcuni dei quali a lui sconosciuti. «Dark bass, grindcore, thrash, neurofunk, freakbeat, psychill, darkstep, screamo... Ma che roba è?!»

«Roba da nerd» dichiarò Jem sardonico, facendo schioccare la lingua, come a dire "lascia stare" e provocando l'immediata ilarità di Dan. «Come non detto» disse, grattandosi la nuca. «Dovrei provare a capire di che si tratta?»

«Tranquillo: anche se non capirai, non ti giudicherò» garantì Jem tra l'ironico e il solenne.

Incuriosito da quell'inedito archivio di proposte musicali che gli si srotolava davanti agli occhi, e non sapendo cosa scegliere, Dan selezionò una canzone a caso.

My terror has controlled my life

And let my only weakness known

I got to rid this hell from my head

I fight off evil sorcerers

Rid my mind of his torture

And meet the falling angel in his realm

«Ah, però! Ci vai leggero, eh?» rise aggrottando la fronte mentre Jem gli lanciava un sorrisino subdolo. Contro ogni aspettativa, Dan non si lasciò scoraggiare dalla ritmica accelerata e le sonorità graffianti di Alone in the Dark dei Testament, anzi: avviò un'altra traccia, poi un'altra e un'altra ancora. Sembrava non volesse più smettere.

«Solo una, eh?» lo rimbeccò Jem. «Non dirmi che ci hai preso gusto.»

«Scusa! Mi sono fatto prendere la mano» disse Dan restituendogli telefono e auricolari.

L'improvvisa comparsa di uno scoiattolo da dietro l'albero interruppe la conversazione.

«Hey! Hello, beautiful» sussurrò Dan estasiato a mezzo metro dalla creaturina. Jem si protese in avanti per guardarlo tendere la mano verso il grazioso animaletto; questi zampettò in avanti, titubante, e sporse il naso fin quasi a sfiorargli le dita. I due trattennero il fiato per una frazione di secondo, prima che il piccolo roditore si rimangiasse la propria curiosità e sgusciasse rapido lungo il tronco fino a sparire tra le foglie.

«Caspita, ma quanto sono veloci? Scappano sempre sul più bello» commentò amareggiato Dan, voltandosi e scoprendo il volto di Jem a un palmo dal suo. Guardarsi negli occhi fu inevitabile, e Jem avrebbe preferito non succedesse perché restò letteralmente incantato dal blu intenso delle sue iridi. Poteva sentire il suo respiro sulle guance e la fragranza dolce del bagnodoccia che aveva usato, tanto erano vicini.

Si ritrasse impacciato e prese a raccattare la propria roba dal prato.

«Cosa stavi leggendo?» gli chiese Dan osservandolo recuperare il suo libro e fingendo, a sua volta, che quell'imbarazzante momento non ci fosse mai stato.

«Oh,» Jem s'interruppe e glielo mostrò «regalo di Sara.»

«L'alchimista di Paulo Coelho» lesse Dan sulla copertina. «Ti sta piacendo?»

«Abbastanza.»

«Di cosa parla?»

«Parla di un giovane che parte alla ricerca di un tesoro promessogli da un vecchio re, e degli ostacoli che incontra lungo il cammino» raccontò Jem sfogliando distrattamente le pagine. «Durante questo viaggio scopre luoghi e gente di ogni sorta e incontra anche l'amore della sua vita.»

«Wow, sembra avvincente! Pensi che il protagonista troverà il suo tesoro?»

«Penso di sì. Ma mi chiedo se avrà fatto bene a mollare tutto per cercare qualcosa di cui, di fatto, non sa nulla. Ci sono delle parti che ho segnato. Aspetta» disse, recuperando un paragrafo sottolineato a matita e leggendoglielo:

"Anche se ogni tanto mi lamento," diceva il suo cuore, "lo faccio perché sono il cuore di un uomo e i cuori degli uomini sono così: hanno paura di realizzare i sogni più grandi, perché pensano di non meritarlo, o di non riuscire a raggiungerli. Noi, i cuori, siamo terrorizzati al solo pensiero di amori che sono finiti per sempre, di momenti che avrebbero potuto essere belli e non lo sono stati, di tesori che avrebbero potuto essere scoperti e sono rimasti per sempre nascosti nella sabbia. Perché, quando ciò accade, noi ne soffriamo intensamente."

"Il mio cuore ha paura di soffrire," disse il ragazzo all'Alchimista, una sera in cui guardavano il cielo senza luna.

"Digli che la paura di soffrire è assai peggiore della stessa sofferenza. E che nessun cuore ha mai provato sofferenza quando ha inseguito i propri sogni [...] non vogliamo che gli uomini soffrano perché non hanno seguito il proprio cuore."

«Che ne pensi?» Jem chiuse il libro e attese un parere. Dan si prese qualche secondo per meditare sul passo appena ascoltato.

«Penso che il cuore è traditore» affermò con un sorriso disilluso. «Nel momento in cui ti sprona a inseguire i tuoi sogni, prepara già la tua rovina.»

Jem assentì sovrappensiero. «Non è mai facile fare i conti col proprio cuore.» Abbassò esitante gli occhi sul libro, incapace di sostenere lo sguardo dell'altro.

Adesso che anche Dan sapeva di Will, gli pareva di non riuscire più a trattarlo con distacco. Mostrandogli quelle foto, raccontandogli dei Dreamers ed esternando i propri sentimenti aveva superato quel confine invisibile che si supera quando si condividono episodi così intimi con qualcuno da portare a una evoluzione o involuzione del rapporto. Un prima e un dopo da cui non si può più prescindere.

Aveva caricato - più o meno inconsciamente - Dan di un fardello gravoso, il suo fardello, e da questo non poteva tornare indietro.

Per non parlare del fatto che, in preda alla disperazione, gli si era praticamente buttato addosso! Come aveva potuto? Non sapeva se vergognarsi di più per avergli pianto a dirotto sulla felpa o per avergli messo le mani sui fianchi, sul ventre, sul petto. Doveva essere parecchio sconvolto per spingersi a tanto. Che imbarazzo.

Si era esposto troppo, e la cosa non gli piaceva.

Forse aveva ragione Sara: forse il suo era stato un azzardo, un salto nel vuoto senza paracadute. Doveva capire se ci fosse modo di attenuare in qualche modo la caduta o se fosse destinato a sfracellarsi inesorabilmente al suolo.

Forse doveva smetterla di appesantire il proprio cuore.

Mise via il libro e si schiarì la voce.

«Senti, Dan, io... io volevo scusarmi per lo sfogo di ieri» esordì timidamente. «Non so che mi è preso, non è da me cedere così all'emozione. Quello che ho vissuto è... è una cosa così spaventosa che a volte faccio fatica a gesti...»

«Jem, please, cut it off!» lo interruppe Dan. «Non devi scusarti,» chiarì smorzando il tono «tutti abbiamo momenti di debolezza. Non saremmo umani altrimenti, no?» insisté guardando circospetto un Jem abbattuto. «Guarda che lo sei anche tu: fattene una ragione» concluse punzecchiandogli il braccio col gomito.

«Grazie per avermelo ricordato» concesse Jem. «A volte me ne dimentico.»

«Non devi mai dimenticarlo» lo ammonì Dan serio, come se avesse infranto un comandamento.

«Hai ragione. Cerco solo di tenere insieme i pezzi» si strinse nelle spalle e volse lo sguardo alle foglie fruscianti sopra le loro teste. Dan non faticò a intuire a cosa o, meglio, a chi stesse pensando.

«Will e Sara: devo a loro la mia umanità» chiarì infatti lui, scoprendo il simbolo della loro amicizia sul polso sottile. «Trascorrere il pomeriggio al parco con loro a leggere, comporre versi, o anche solo riflettere ad alta voce era uno dei miei passatempi preferiti. Solo loro sapevano ascoltarmi e capirmi. Con loro mi sentivo libero, sicuro e in pace. Sono certo che anche loro si sono sentiti così: liberi e felici. Felici...» ripeté, e il suo sguardo malinconico si perse nel vuoto. «È strano come in così poco tempo possa cambiare così tanto» sospirò.

Dan l'osservò tirare la manica della felpa sul polso e raccogliere le ginocchia al petto. «Posso farti una domanda?» gli chiese cauto. Annuì.

«Hai detto che eravate inseparabili voi tre, ma come ti trovavi con ciascuno di loro? Per esempio, hai detto che ti sei messo con Sara dopo il liceo. Com'era il vostro rapporto prima?»

Jem si prese un momento per riflettere, poi disse con un sorriso nostalgico: «Con Sara eravamo un po' come cane e gatto. Ci pizzicavamo di continuo... in senso buono, ovviamente. Lei era super vivace e si divertiva a farmi i dispetti. Da piccola, per dire, mi nascondeva i giocattoli e mi rubava la merenda; poi, quando ha scoperto i social e i selfie... addio privacy!».

«Una peste, insomma» a Dan venne da ridere a immaginarsela inseguirli in lungo e in largo col cellulare. Jem annuì. «Credo che a piacermi di lei, in fondo, fu proprio quella sua dinamicità e sfacciataggine che da piccolo, invece, detestavo.»

«Con Will, invece, era diverso» proseguì, e al solo pronunciare il suo nome l'atmosfera mutò impercettibilmente. «Lui era un animo gentile, un bambino e un ragazzo tranquillo, un pacificatore: sapeva mettere tutti d'accordo. Era anche divertente, solare: gli piaceva stare in compagnia, scherzare, competere, esplorare. Andavamo molto d'accordo ed eravamo quasi sempre insieme, dentro e fuori scuola.»

Mentre parlava di Will, Dan vide un raro sorriso rischiarargli il volto. Stentò a credere ai suoi occhi.

«Will aveva una sensibilità rara, di quella che hanno gli artisti e i filosofi» riprese Jem. «Sapeva capirmi come nessun altro. C'era un'intesa particolare tra noi, quasi una fratellanza. È difficile da spiegare, ma per me era come una sorta di...»

«Parabatai

All'udire il riferimento a Shadowhunters, Jem s'illuminò.

«Sì! Sì, esatto!» esclamò sbigottito. «Conosci...»

«Ringrazia mia sorella» ridacchiò Dan alzando le mani. «Mi ha costretto a vedere la serie con lei.»

«Quindi hai una sorella» constatò Jem. «Come si chiama?»

«Caroline. Ha compiuto quindici anni giusto ieri. Una piccola rompiscatole anche lei, devo dire» rivelò Dan con un sorriso sottile. «Lei è una fan sfegatata di Shadowhunters: ha tutti i libri della saga e, oh, vedessi la sua stanza...»

«Immagino» disse Jem, figurandosi qualcosa di simile a quella di Sara adolescente: libri, cuscini, pupazzi e poster di divi di film e serie tv. «Beh, falle gli auguri e ringraziala da parte mia.»

«Lo farò» rise Dan.

«Hai altri fratelli o sorelle?»

«No. però abbiamo un levriero irlandese che è come un altro figlio per i miei. Si chiama Arlo.» Jem rammentò un grosso cane tra le sue foto su Instagram. «È un adorabile bestione! Detto tra noi: ha un debole per me» gli confidò Dan ammiccando, e lui non faticò a crederci.

«Tu, invece? Fratelli, sorelle?»

«Figlio unico» dichiarò Jem stringendosi nelle spalle. «Ma, crescendo con Sara e Will, la cosa non mi è mai pesata. Anche loro erano figli unici, ci tenevamo compagnia a vicenda.»

«E Napoleone? Regalo dei tuoi?»

Jem scosse il capo. «È stato Will a portarlo a casa, sette anni fa. I miei non volevano animali in casa ma lui, non so come, riuscì a convincerli.»

«Wow. Doveva essere un amico eccezionale.»

«Lo era, sì» confermò Jem a testa bassa. «Ricordarlo mi fa stare bene e male allo stesso tempo. Da un lato, penso a tutte le esperienze belle che abbiamo fatto; dall'altro, l'idea che non ce ne saranno altre mi devasta. Prendi la musica: non potrò più suonare per lui.»

«Suonerai per altri» lo confortò Dan con voce pacata. «Ma, poi, lo fai già! La tua musica è pubblica: può raggiungere potenzialmente qualunque punto del globo. Non dirmi che non è una bella sensazione!»

Jem scrollò le spalle e abbozzò un sorriso modesto. Non voleva passare per un ingrato insensibile: era evidente che aveva lavorato sodo per raggiungere quel livello e che fare musica gli dava soddisfazione. Ma il sottotitolo sulla sua faccia era altrettanto evidente: "Non è lo stesso senza di lui".

Dan lo fissò intensamente per alcuni secondi, poi emise un sospiro apprensivo.

«È un vuoto incolmabile quello che senti e mi dispiace che sia andata così» gli disse col cuore in mano. «Però, Jem, ascolta: tu devi reagire. Devi trovare uno sfogo, una via d'uscita da questo loop mentale se non vuoi rovinarti il resto della vita. Sono certo che Will non vorrebbe vederti così.»

«Pensi non ci abbia provato?» intervenne Jem, punto sul vivo.

«Provaci ancora» lo spronò Dan. «C'è la tua di vita in ballo, non sprecarla piangendoti addosso. Il passato non lo puoi cambiare, il futuro sì» affermò con l'autorevolezza di un life coach, scattando in piedi e sgranchendosi la schiena sotto agli occhi interrogativi di Jem. Si curvò sul suo borsone e tirò fuori un pallone da rugby.

«Facciamo due passaggi?»

Jem lo guardò come se avesse bestemmiato. «Stai scherzando! Io non so giocare a rugby.»

«Davvero?» Dan simulò un'espressione scioccata. «Esiste qualcosa che non sai fare?» lo schernì, ridendo della sua occhiata truce.

«T'insegno io, che problema c'è? Avanti, non farti pregare!» insisté.

Jem a quel punto non aveva molta scelta; sospirò poco convinto e afferrò la mano che Dan gli offrì per tirarsi su. «Mettiamoci là, guarda, c'è spazio» propose Dan indicando un'area di prato libero a pochi metri da loro.



Dan esordì illustrandogli i rudimenti del rugby: origini, numero e ruoli dei giocatori, tempi, come si teneva, passava e schiacciava la palla, i diversi modi di fare punti, cos'erano una ruck e una scrum, cos'era concesso e vietato fare. Poi passò dalla teoria alla pratica.

Dopo circa mezz'ora di passaggi, contrasti e cadute, i due si abbandonarono sul prato per riposare - più Jem che Dan, la cui carica sembrava non essersi ridotta di una tacca.

«Stanco?» domandò a un Jem stecchito al suo fianco.

«Un po'» esalò lui, provato dai ripetuti attriti con il corpo statuario di Dan e dallo sforzo di non farsi rubar palla durante i suoi continui placcaggi. L'aveva strapazzato come un uovo, era vero, ma era anche riuscito a farlo svagare. Avrebbe fatto la conta dei lividi a casa.

«Come prima volta, non sei stato malaccio» lo vide rivolgergli un sorriso incoraggiante.

«Puoi dirlo che sono una schiappa, non mi offendo. Non resisterei un minuto in campo, non fa per me... zero proprio!»

Dan rise del suo vittimismo. «Almeno puoi dire di aver provato.»

Jem si tirò a sedere e incrociò le gambe sull'erba. «Raccontami della tua squadra» lo esortò, realizzando di non sapere nulla del suo passato da giocatore di rugby. «A che livello giocavate? Eravate forti?»

«Abbastanza: eravamo sempre tra i primi in classifica nel campionato provinciale giovanile. Qualche coppa e medaglia l'abbiamo portata a casa.»

«Figo!»

«Altroché. Ho avuto la fortuna di giocare in squadre discrete e di trovarmi bene con allenatori e compagni. Mi sono divertito, ma anche impegnato tanto. Giocare a rugby ad alti livelli era il mio sogno, avevo il potenziale per riuscirci» confessò Dan con aria sognante.

«Scusa, se ti appassionava ed eri pure così promettente perché hai lasciato?»

A quella domanda, un velo di tristezza offuscò gli occhi chiari di Dan: abbassò lo sguardo sull'ovale che teneva tra le mani e si morse il labbro.

«A volte dobbiamo lasciare ciò che amiamo» disse vago, accrescendo la curiosità di Jem.

«Stai dicendo che hai dovuto lasciare?»

«Purtroppo sì» Dan si rigirò la palla tra le mani e puntò lo sguardo alle nuvole sopra le loro teste; quando tornò a guardarlo, Jem le vide riflesse nei suoi occhi, ma era come se le avesse dentro. Sentì che si stava avventurando in acque pericolose e non osò chiedere altro. Dopo alcuni secondi passati a osservare la massa bianca e multiforme che solcava il cielo, Dan ruppe il silenzio.

«Si chiamava Henry» disse. «Eravamo compagni di squadra.»

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