15 - Under the Dublin Rain (pt.1)

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Si chiamava Henry, ed era il suo compagno di squadra. Il nuovo compagno di squadra.

In occasione del primo allenamento della stagione 2018-19, il mister aveva fatto il suo ingresso trionfale negli spogliatoi seguito dalla new entry.

Henry Howard, con i suoi sedici anni, era il più giovane della rosa under venti composta da ventidue giocatori e proveniva da un piccolo ma discreto club locale. La sua velocità come flanker durante un torneo estivo under diciassette non era sfuggita al mister, appollaiato come un falco sugli spalti in versione talent scout. Alla ricerca di nuove leve per rimpinguare la terza linea, aveva concordato con l'allenatore di Henry - col quale era in buoni rapporti - un prestito di un anno durante il quale il ragazzo sarebbe stato messo in condizione di scoprire e coltivare il proprio potenziale.

Su una delle panchine in legno, a recepire con i compagni l'invito del mister alla massima serietà e collaborazione al fine di massimizzare i risultati, c'era un Dan diciottenne alle prese con i lacci delle sue scarpe. Non appena aveva alzato il capo e incrociato per la prima volta quegli occhi verdi, si era sentito mancare l'aria: statura media, fisico snello e scolpito, sembrava più un giocatore di atletica leggera che di rugby; i capelli rosso scarlatto dai riflessi ramati sulle punte sparate in ogni direzione contornavano un viso lentigginoso, illuminato da un sorriso educato e venato d'imbarazzo. L'imbarazzo di chi entra in nuovo gruppo e prova, come in quel caso, una sorta di timore reverenziale verso una squadra rinomata, temprata da anni di allenamenti e sudate vittorie nei campionati di categoria della provincia di Leinster.

Ma non era al rugby che Dan pensava in quel momento. Il suo corpo era rimasto paralizzato di fronte alla genuina e disarmante bellezza di quel ragazzo dalla pelle diafana e i capelli di fuoco. Lo aveva seguito con lo sguardo stringere impacciato una mano dopo l'altra, tra affettuose pacche sulle spalle e cori di fáilte.

Terminate le presentazioni il mister gli aveva donato, insieme a un raro sorriso, la tuta e la divisa della squadra: pantaloncino bianco, maglia e calzettoni verdi.

«E ora datevi una mossa,» li aveva poi sollecitati con due brevi soffi di fischietto «vi voglio tutti fuori fra due minuti!»

Fino ad allora, Dan era rimasto impalato su quella panca a guardare la nuova recluta districarsi nella mischia che l'aveva attorniato. Era riuscito a staccargli gli occhi di dosso solo quando quel giullare di Niall Farrell gli aveva mollato uno scappellotto sulla nuca, spronandolo a cominciare il riscaldamento.

Quel giorno la sua vita era cambiata. Henry Howard era diventato il centro gravitazionale dei suoi pensieri, sia dentro che fuori dal campo. I compagni lo avevano accolto con entusiasmo e ribattezzato "Fox" per il rosso cangiante dei capelli. Henry, da parte sua, si era integrato con successo nell'arco di pochi allenamenti. Sebbene non fosse esperto quanto gli altri, questi lo trattavano con riguardo, rispettavano i suoi tempi e s'impegnavano a non escluderlo dal gioco. Eppure, il divario restava: loro avevano un livello d'esperienza che a Henry mancava. Nonostante il rosso non lo desse a vedere, Dan aveva percepito quella sensazione di disagio. Un disagio che non si poteva colmare con qualche battuta scherzosa e pacca sulla spalla.

Decise di impegnarsi per aiutarlo: avrebbe fatto bene a lui, alla squadra e, naturalmente, a se stesso. Gli pareva un buon modo per conoscerlo meglio senza destare particolari sospetti.

Il mister era stato chiaro fin dall'inizio: Henry doveva essere pronto a entrare sia come blind che open side flanker qualora fosse stato necessario sostituire i titolari dei numeri sei e sette, ossia Dan e Niall.

Dan non avrebbe potuto chiedere di meglio. Il fatto che giocassero entrambi in terza linea gli permise di diventare per lui una sorta di tutor e di ottenere la sua fiducia. Lo monitorava negli allenamenti, gli spiegava quello che spesso e volentieri il mister dava per scontato; gli mostrava schemi e mosse strategiche e gli dava consigli sul regime alimentare da seguire per il loro tipo di preparazione atletica.

L'impegno profuso da entrambe le parti non tardò a mostrare i suoi frutti: nell'arco di tre mesi, Henry aveva fatto progressi sia nella tecnica individuale che nel gioco di squadra: aveva aumentato il tono muscolare, potenziato lo scatto in avanti e la spinta in mischia, affinato l'abilità di rubar palla nei raggruppamenti. I furtivi ma sentiti "grazie" che gli elargiva alla fine di ogni allenamento erano come balsamo sul cuore palpitante del biondo.

Era il ragazzo più dolce che avesse mai conosciuto: sempre pronto a fare la sua parte e a sacrificarsi per la squadra; in più, era corretto nel gioco e non insultava mai nessuno. Dan avrebbe giurato di non aver mai sentito mezza volgarità uscirgli di bocca. La sua generosa bontà lo consacrò presto a mascotte della squadra, un autentico modello di fairplay.

In una parola: era adorabile.

E mentre Dan l'ammirava crescere in arguzia e agilità, la volpe gli rubava l'anima.

Dovette ammettere a se stesso di essere irrimediabilmente perso quando, durante una corsa di riscaldamento, indugiando un secondo di troppo sulla sua figura che faceva stretching dall'altra parte del campo, era inciampato su una palla e rotolato maldestramente a terra tra le grasse risate dei compagni, primo fra tutti il number eight Richard O'Brien - il capitano più stronzo della storia del rugby - seguito a ruota dai fedeli Bryan Murray e Dylan Donovan, i due spilungoni nonché lock della squadra.

Dopo quell'episodio imbarazzante, Dan non aveva più potuto mentire a se stesso: Henry gli piaceva, gli piaceva da morire. Lo cercava con lo sguardo durante gli allenamenti e quando mancava era il primo a contattarlo. Aveva sviluppato una sorta di dipendenza mista a un forte istinto di protezione nei suoi confronti: guardarlo impegnarsi, ridere, scherzare, prendersela per gli errori stupidi era diventato un riflesso naturale.

E Henry se ne accorse. Dopotutto, era solo questione di tempo.

Il loro reciproco scambio di simpatie era cominciato con un semplice alternarsi di sguardi e sorrisi agli allenamenti, per poi estendersi a una serie di attività collaterali: chiamate e messaggi, rifornimento di vitamine e integratori iperproteici, l'acquisto di un nuovo paio di scarpe da rugby.

Ogni volta che Henry gli sorrideva, ogni volta che i loro corpi si scontravano, Dan avvertiva una fitta al petto impossibile da ignorare. Si ripeteva di essere fortunato: si vedevano tre volte alla settimana, più le partite di campionato nei weekend; inoltre, chattavano quotidianamente per questioni di squadra o per commentare i risultati della prima divisione dell'All-Ireland League.

Ma non era abbastanza: voleva essere per Henry più che un compagno di squadra. Doveva scoprire se avesse anche una minima chance con lui, a costo di doversi esporre nella cerchia che più gli stava a cuore.

Non aveva mai detto ai compagni della sua attrazione per i ragazzi, non perché se ne vergognasse, piuttosto perché non era un argomento facile da prendere, tanto più in un ambiente nel quale i pensieri e le energie erano tutti rivolti al campo e a lavorare sodo per primeggiare in campionato. Oltretutto, non era mai stato preso da nessuno in quel modo, né aveva avuto bisogno di rivelare il proprio orientamento fuori dalle mura domestiche, se non per sporadici episodi di sexting e incontri fugaci con uomini più o meno giovani conosciuti online.

Ora che Henry era piombato nella sua vita, il quadro cambiava. Doveva cambiare.

Al quarto mese, si decise a prendere l'iniziativa. In un gruppo affiatato come il loro, temprato da anni di allenamenti, tornei e trasferte non mancavano occasioni di uscite informali. All'indomani di una vittoria, per esempio, erano soliti ritrovarsi per una pizza. Purtroppo, Henry era un tipo piuttosto riservato: le poche parole che scambiava con i vicini di tavolo si perdevano tra accesi dibattiti sulle squadre favorite, scommesse, battutacce e fragorose risate. Non esattamente il contesto migliore per fare il primo passo col ragazzo dei suoi sogni.

Così, quando le orecchie dei compagni furono abbastanza lontane dagli spogliatoi, aveva preso coraggio e gli si era avvicinato.

«Perdona la sfacciataggine, ma... c'è una cosa che vorrei chiederti.»

Henry gli rivolse un'espressione sorpresa e incuriosita allo stesso tempo.

«Ok. Di che si tratta?»

Dan fece un respiro profondo durante il quale invocò tutti i santi in paradiso.

«Ti andrebbe di uscire con me?»

La bocca sottile di Henry ebbe un fremito, gli occhi verde smeraldo si allargarono. Poi, un timido sorriso gli illuminò il volto.

«Mi farebbe piacere.»

La sera successiva trascorse tra le animate vie del centro, tra Temple Bar e i suoi celebri pub. Per una volta, misero da parte il rugby per raccontarsi. Nonostante mesi di allenamento, era come se si stessero conoscendo davvero solo allora. Henry sembrava gradire le sue battute e fu di buon umore per tutta la serata. Dan era al settimo cielo: quella che poteva sembrare una semplice uscita, per lui era un sogno che si avverava.

Mentre passeggiavano lungo il pond, il rosso gli aveva confessato di aver notato il modo in cui lo guardava e le attenzioni che gli riservava. «Mi sono più volte chiesto che intenzioni avessi» aveva scherzato, fermandosi ad ammirare la Dublino notturna oltre l'elegante Ha' Penny Bridge; sotto, il Liffey trascinava con sé i segreti della città in una placida e luccicante coda colorata che si perdeva tra gli edifici all'orizzonte.

«Mi piace stare con te» ammise con semplicità Dan, attento a non incrociare il suo sguardo, le dita agganciate al sottile corrimano bianco.

Henry volse gli occhi al suo profilo illuminato dal lampione al centro del ponte. «Anche a me» disse con una voce fresca e leggera come le gocce di pioggia che scesero a picchiettargli le guance lentigginose.



Continuarono a frequentarsi nelle settimane e nei mesi successivi. Parlavano di sport e scuola, condividevano sogni e aspirazioni. Dan gli diceva che da grande gli sarebbe piaciuto avere una sua squadra da allenare. Henry, invece, sognava un futuro nel campo della medicina: i suoi, entrambi infermieri, gli avevano mostrato l'impegno e la dedizione che mettevano nel lavoro e quanto fosse gratificante aiutare chi soffre. Mentre parlava, Dan stava lì a guardarlo, rapito da quegli occhi verdi che brillavano come smeraldi all'idea di fare qualcosa di buono per gli altri.

Tra una chiacchiera e l'altra, Dan aveva scoperto che Henry era stato fidanzato con una compagna di scuola, che aveva tre sorelle più grandi e che i suoi genitori erano affettuosissimi e non si risparmiavano per assicurargli il meglio. Adorava il modo in cui il viso di Henry s'illuminava nel parlare dei suoi. Pensò fossero degli ottimi genitori per aver tirato su una creatura così meravigliosa e sensibile.

Eppure, tra le righe, era emerso qualcosa che gli aveva fatto storcere il naso: erano conservatori e fortemente cattolici. La loro presenza alle messe domenicali e alle iniziative di volontariato della parrocchia era una garanzia. La devozione di Henry per la sua famiglia era tanto vera quanto rara, e Dan ne aveva avuto conferma quando gli era capitato di vederli prendere o lasciare Henry agli allenamenti o quando, accompagnandolo a casa dopo un'uscita, la madre invitava Dan a fermarsi a cena e lui puntualmente declinava per timore di trovarsi in situazioni imbarazzanti.

Cos'avrebbe detto a una famiglia di ferventi cattolici se fossero saltati fuori discorsi sulla comunità lgbt?

Non sapeva come avrebbe e avrebbero reagito, e non era sicuro di volerlo sapere.

Sebbene i genitori di Dan fossero anch'essi religiosi praticanti - padre cattolico, madre protestante - non avevano dato di matto lanciandogli contro anatemi di matrice religiosa quando, quattro anni addietro, aveva fatto coming out.

In verità, suo padre gli aveva fatto una ramanzina coi fiocchi, l'aveva ammonito sulla certezza dell'eterno castigo e guardato torvo per un bel po', ma alla fine si era "rassegnato" ed era tornato quello di prima, o quasi. La madre gli era andata incontro e, tra le lacrime, l'aveva abbracciato come si abbraccia un condannato a morte; l'aveva baciato sulle guance e si era fatta giurare che sarebbe stato attento.

Nel primo periodo, la sua omosessualità era stata motivo di accesi dibattiti tra i suoi, anche per via delle rispettive differenze culturali e religiose. Poi, una volta che la rivelazione era stata digerita, tutto era tornato alla normalità. O, meglio, avevano stabilito una nuova normalità.

Nel complesso, Dan si riteneva fortunato ad avere la loro comprensione e sostegno. Non era certo di poter dire altrettanto della famiglia di Henry, semmai avessero scoperto che i sentimenti che provava per il loro adorato figlio andavano ben oltre una sana e sportiva amicizia.

Indugiare su quel "semmai", tuttavia, gli pareva deleterio. Ciò che allora gli interessava era condividere con Henry il massimo del tempo e dello spazio che gli erano concessi. Stavano bene così, erano felici della loro amicizia e nessuno dei due aveva osato descrivere in altri termini il loro rapporto speciale.

Col passare del tempo, però, Dan si convinceva sempre più che anche Henry provasse per lui qualcosa che andasse oltre l'amicizia: il modo in cui si confidava, gli abbracci, i sorrisi che gli regalava... Doveva per forza esserci dell'altro e, ancora una volta, bisognava sbilanciarsi per scoprirlo.

Era una situazione eccitante e ansiogena al tempo stesso: Dan era curioso di scoprire la sessualità di Henry e, allo stesso tempo, timoroso di rovinare la loro amicizia. Non sapeva come comportarsi: rivelare ad alta voce i propri sentimenti era maledettamente difficile.

E se si fosse dichiarato e Henry lo avesse rifiutato? Come avrebbe reagito?

Era pronto a mettere a rischio il loro legame?

Il solo pensiero di perderlo bastava a frenarlo dal prendere iniziative avventate.

Una fredda e nebbiosa sera di febbraio, Dan e Henry camminavano fianco a fianco lungo Donnybrook Road verso la fermata del bus che li avrebbe portati a casa, commentando l'allenamento appena concluso. Quando dal cielo coperto erano cominciate a cadere le prime gocce di pioggia, Dan aveva sentito un guizzo d'intraprendenza scuoterlo dalla malinconia di doversi di lì a breve separare da lui.

«A chi arriva prima!» l'aveva incitato, indicando il semaforo in fondo al viale alberato; aveva tirato su il cappuccio, si era sistemato il borsone addosso ed era scattato come un fulmine lungo il marciapiede, imitato dal rosso.

Era arrivato per primo e quando Henry l'aveva raggiunto, un paio di secondi dopo, la pioggia si abbatteva già copiosa sulle loro teste. Vedere Henry ridere con lui, una mano sulla sua spalla, l'altra sul proprio petto per riprendere fiato dopo quella corsa folle gli aveva fatto balzare il cuore in gola. Erano zuppi ed euforici, e la sua risata era così limpida e spensierata da perderci la testa.

Con l'adrenalina a mille, aveva afferrato la mano poggiata sulla sua spalla e l'aveva trascinato con sé nel vicolo a lato. Prima che Henry riuscisse a proferire parola, Dan gli aveva preso il viso tra le mani e lo aveva baciato con tutto l'ardore che aveva dentro, spingendosi contro di lui e mandandolo con la schiena contro il muro di mattoni.

Henry si era scoperto piacevolmente sorpreso dall'irruenza delle labbra di Dan sulle sue. In balìa di sensazioni contrastanti, aveva poggiato le mani sull'ampio petto del biondo, stringendone la giacca tra le dita e abbandonandosi alla novità di quel contatto.

Dan tenne il suo angelo rosso prigioniero contro quella parete ruvida, incatenato al suo corpo per non seppe quanto tempo, le viscere scosse da brividi che non avevano nulla a che vedere col freddo.

Era stato il bacio più bello e romantico della sua vita.

Lo scroscio della pioggia, il traffico, il concitato scalpiccio dei passanti che correvano a ripararsi erano solo un rumore di fondo, un brusio lontano, un quadro sfocato nella vorticosa penombra che li avvolgeva. Niente era più importante che far sue le labbra dell'amato e stringerne il corpo tremante, mentre la pioggia di Dublino cadeva sulle loro teste come una benedizione.



Il ricordo di quel bacio rubato in un vicoletto deserto sotto la pioggia battente aveva dominato i pensieri di Dan per giorni interi; e non solo i suoi, ne era certo. Quel ragazzo dai capelli color fuoco, il viso spruzzato di lentiggini e gli occhi di smeraldo era diventato per lui l'incarnazione stessa dell'amore.

Non si erano detti molto all'indomani di quel bacio, ma era chiaro a entrambi che le cose da quel momento erano cambiate. Amici in pubblico, amanti in segreto. Avevano persino preso l'abitudine di passare le serate nelle rispettive camere a guardare le partite di rugby o, almeno, questo era il proposito iniziale. Passati i primi dieci minuti di furore sportivo, infatti, finivano inevitabilmente l'uno sull'altro a scambiarsi baci ed effusioni; dimenticavano i genitori di sotto, la tv e tutto ciò che li circondava per concentrarsi sull'intenso, seppur effimero, piacere che i loro corpi sapevano darsi.

Facevano tutto quello che facevano le coppie. O quasi.

Quella sera, la famiglia di Dan era uscita ed Henry era suo ospite. Erano stesi sul suo letto a seguire pigramente alla tv gli highlights del match Lansdowne-Garryowen. Dan aveva atteso con ansia il momento in cui fossero stati di nuovo soli. La smania di averlo tutto per sé cresceva di giorno in giorno, e voleva che lo sapesse.

Spostò il suo peso sopra di lui e cominciò a toccarlo con maggiore urgenza del solito, insinuando avidamente le mani sotto la sua felpa e strusciando il corpo eccitato contro il suo, facendogli intendere che voleva andare oltre.

Ma Henry non la prese bene. Quando Dan allungò la mano sull'apertura dei jeans, serrò le mani sui suoi bicipiti, bloccando sul nascere quell'escalation di desiderio. Il verde limpido del suo sguardo si era adombrato.

«Dan, per favore... fermati.»

«Cos... Perché?» gli domandò perplesso Dan.

«Io non... non me la sento.»

Quelle parole appena sussurrate, unite al suo sguardo mortificato furono come uno schiaffo in pieno volto. Chissà perché, il Dan follemente innamorato di Henry era convinto che questi non si sarebbe tirato indietro, che la sua ardente passione fosse contraccambiata. Quel rifiuto, seppur detto con tutto il tatto del mondo, rimaneva pur sempre un rifiuto, anzi: il rifiuto. Il rifiuto di concedersi a lui anima e corpo, la paura di esporsi troppo.

Cosa lo frenava? Non riusciva a capirlo. Doveva capirlo.

«Non te la senti perché è "peccato" o perché non vuoi?» Dan sentì la sua bocca formulare quella domanda con una durezza che colpì anche lui.

«Scusa, i-io...» balbettò smarrito Henry, punto sul vivo; il suo viso s'intristì, il verde degli occhi si fece liquido.

«Non importa. Lascia stare» Dan si morse il labbro e si lasciò cadere al suo fianco; incrociò le braccia al petto e volse lo sguardo allo schermo senza vederlo davvero. In pochi secondi, si era ritrovato a dover digerire il suo rifiuto e dissimulare la bruciante delusione che ne era seguita.

«Mi dispiace» aggiunse Henry avvilito accucciandoglisi accanto, ansioso di ristabilire un contatto, di incontrare di nuovo i suoi occhi e, al contempo, timoroso di quello che vi avrebbe letto dentro. Ma Dan non riusciva a voltarsi, non aveva la forza di sostenere quello sguardo afflitto. Tuttavia, non se la sentiva neanche di fare la parte dello stronzo offeso perché, in fondo, sapeva che Henry non se lo meritava.

Dopotutto, non aveva pure lui il diritto di esprimersi? Di fargli sapere cosa volesse o non volesse fare? Certo che lo aveva.

Devo aver esagerato, si ritrovò a pensare. Perché aveva dato troppe cose per scontate, perché si era illuso che tutto sarebbe andato liscio, ignorando la possibilità di un "no" dall'altra parte. Si era sentito così sicuro di sé, pensava di aver fatto le cose per bene con lui e di essersi guadagnato la sua piena fiducia. In una fase così promettente e carica di aspettative per il loro rapporto, quello era stato il più doloroso dei "no".

Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, li riaprì e li rivolse a quel viso tanto bello quanto triste. «Vieni qui» lo invitò allargando le braccia e lasciando che vi scivolasse dentro. «Non devi scusarti perché non hai nessuna colpa.»

Stringere il corpo dell'amato, sfregare la guancia contro la sua chioma ribelle, respirarne il profumo lo aiutò a calmarsi, a mettere da parte il senso di frustrazione che si era impossessato di lui, rendendolo cieco ai sentimenti dell'altro. Gli sarebbe piaciuto avere Henry tutto per sé quella sera, era vero, ma non avrebbe avuto senso forzare la cosa. Doveva volerlo anche lui.

Per lui avrebbe aspettato.

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