16 - Under the Dublin Rain (pt.2)

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Da quella sera, Dan non forzò più la mano con Henry. Tuttavia, sperava che questi facesse qualche passo assieme a lui nell'uscire dal rassicurante guscio dell'eterosessualità, accettare e provare a rendere pubblica la loro relazione. Presentarsi come coppia a genitori e amici e - perché no? - ai compagni di squadra, così da potersi finalmente vivere alla luce del sole senza quel senso di colpa che li seguiva come un'ombra.

Chiedeva troppo?

Era già accaduto che, preso il discorso, Henry sul momento gli desse ragione. Poi, nei fatti, non sembrava mai pronto a uscire dalla sua comfort zone.

Col passare del tempo, Dan si fece sempre più insofferente nei confronti di Henry. Un giorno gli disse chiaro e tondo le sue intenzioni: che voleva fare sul serio con lui e che non gli andava più di nascondersi come un ladro; gli disse che aveva intenzione di parlare di loro ai suoi genitori e che si aspettava che anche lui facesse lo stesso, se era vero che ci teneva.

Cominciarono a litigare. La verità era che Henry non voleva si sapesse: i suoi erano cattolici ortodossi e non molto simpatizzanti della comunità arcobaleno. Non avevano la più pallida idea che il loro figlio potesse essere attratto da qualcuno dello stesso sesso. In più, lui non si sentiva pronto a fare coming out, figurarsi annunciargli che avesse il ragazzo. Temeva di recargli un dolore troppo grande e che non l'avrebbero accettato.

L'ennesimo rifiuto da parte di Henry fece andare Dan su tutte le furie. Gli ribadì di essere innamorato di lui e che non si vergognava di quello che provava; gli rinfacciò impietosamente una per una tutte le sue paure, tra cui quella anche solo di pronunciare la parola "gay", neanche fosse un crimine.

Henry replicò che lui non capiva quanto gli costasse accettare quella parte di sé e, soprattutto, affrontare i suoi. Dan ribatté che non c'era proprio niente di complicato, se solo avesse fatto pace con se stesso. Gli rammentò che ci era passato anche lui, che non era stata una passeggiata ma che, poco alla volta, i suoi l'avevano compreso e pure sostenuto. Ma Henry pareva irremovibile. Dan allora cominciò a scoraggiarsi, a temere di non piacergli abbastanza, a mettere in dubbio l'autenticità dei suoi sentimenti. Dopo quella lite, smisero di scriversi e vedersi al di fuori degli allenamenti.

Ciononostante, Dan lo amava e penava nel vederlo così vicino e, al tempo stesso, così lontano. Un giorno gli chiese di fermarsi dopo l'allenamento. Henry acconsentì e lo attese negli spogliatoi. Quando si assicurò che fossero soli, Dan gli si avvicinò e puntò con decisione gli occhi blu nei suoi.

«Senti, Henry, mi dispiace che abbiamo litigato. Non sai quanto mi manchi... Possiamo darci un'altra possibilità? Sono sicuro che insieme supereremo tutto.»

Henry lo fissò per alcuni secondi, gli occhi grandi, il viso liscio e lentigginoso a un palmo dal suo. «Dispiace anche a me per com'è andata. Anche tu mi manchi, ma temo che stando assieme passeremo solo dei guai. E io non voglio che tu soffra per me.»

A quel punto, Dan non riuscì più a trattenersi: mollò il borsone sul pavimento e gli strinse le braccia, sovrastandolo col suo corpo possente. «Ma non lo capisci? Io soffrirei comunque! Sei l'unico e il solo con cui voglio stare» confessò esasperato, accarezzandogli i capelli ramati e chinandosi per baciarlo.

Le loro bocche si ritrovarono dopo giorni di astinenza. Sentire che Henry non gli era indifferente, sentirlo sciogliersi tra le sue braccia e ricambiare quel bacio come qualcosa che anche lui desiderava, riaccese in Dan la speranza.

«Questo è quello che provo. Questo è quello che voglio. Voglio te» sussurrò sulle labbra socchiuse di Henry, staccandosi dal suo corpo caldo non senza rammarico. «E tu? Cos'è che vuoi tu?» gli chiese con voce rotta, indugiando su quegli spaesati occhi color smeraldo e trattenendo il fiato.

Ma la risposta di Henry non arrivò.

Dan strinse le labbra, raccolse il borsone e si allontanò senza insistere.

«Ci penserò» la voce del rosso, ancora vibrante d'emozione, lo raggiunse sulla porta. «Ti prometto che ci penserò.»



Erano passati due giorni e Dan era certo che avrebbe ricevuto una risposta da parte di Henry: avrebbe saputo una volta per tutte se intendeva stare con lui o se dovevano metterci una pietra sopra.

Quel pomeriggio, era stato impaziente durante tutto l'allenamento: non vedeva l'ora che finisse per parlarci. Lui era ancora in doccia, probabilmente stava temporeggiando di modo che gli altri si fossero tolti di torno. Il fatto che fossero ancora tutti là fece notare a Dan la rapidità con la quale si era lavato e cambiato. Mascherò subito un sorrisetto idiota che lo induceva a pensare che dalla bocca di Henry sarebbero uscite buone notizie. In realtà, non sapeva cosa pensare ma si sentiva ottimista.

Si era rivestito e stava sistemando la sua roba nel borsone aperto su una delle panche degli spogliatoi, quando avvertì dei movimenti concitati alle sue spalle. Il suo sguardo si posò sul trio dei gradassi capitanato da Richard O'Brien: quell'egocentrico dai corti capelli neri e gli occhi di ghiaccio stava confabulando e ridacchiando animatamente con Bryan e Dylan. Ignorò il motivo della loro ilarità, finché Richard non si posizionò al centro della stanza e si schiarì la voce.

«Bene bene bene! A quanto pare, a qualcuno qui piace il cazzo» declamò a un volume abbastanza alto da essere udito da tutti i presenti. Dan avvertì una stretta al cuore mentre le sue mani si bloccavano sulla cerniera del borsone; serrò la mascella mentre le risa sguaiate dei due mastini gli riempivano le orecchie. Perlustrò fulmineo la stanza, ma non trovò chi cercava: doveva essere ancora in doccia ed era meglio così. Non doveva fare cazzate. Richard stava solo facendo il suo solito show. Bastava lasciar correre e tutto sarebbe filato liscio.

«Non è vero, O'Connor?» inveì provocatorio il capitano, rivolgendosi ora apertamente a lui. Un brusio incredulo corse tra i compagni. Dan chiuse gli occhi e imprecò tra sé. Non poteva più ignorarlo.

Ma come poteva lui sapere...

Si voltò e incrociò a pochi metri di distanza gli occhi freddi e accusatori di Richard, spalleggiato dai suoi compari di bravate che se la ridevano di gusto. Squadrò senza battere ciglio quei tre mezzi criminali che gli stavano di fronte: i Peaky Blinders del rugby.

Nella stanza era piombato il silenzio.

«E anche se fosse?» replicò secco Dan. «Hai qualche problema?»

«Io?! Oh, no no, io non ho nessun problema. Quello ad avere un problema qui sei tu» lo schernì Richard incrociando le braccia muscolose e lanciandogli un'occhiata di sfida. Dan sbuffò e scosse il capo. «Faresti meglio a farti i fatti tuoi, Ric» gli intimò voltandosi per mettere via le ultime cose e sperando di chiuderla lì. Ma Richard non sembrava della stessa intenzione.

«Ehi ehi, attento a come parli! Devo forse ricordarti che, in veste di capitano, è mio compito essere informato sulle questioni che ci toccano in prima persona? Se c'è qualcosa che non va, lo devo sapere. Niente segreti in squadra» precisò, seminando con lo sguardo il terrore sui compagni che assistevano ma non osavano aprir bocca.

«Tranquillo, non c'è niente che non va» disse Dan cercando di mantenersi calmo, anche se calmo non lo era per niente. E il fatto che Richard fosse a due passi da lui con un'espressione ostile indirizzata alla sua persona non aiutava.

«Tu dici? Sai cosa dico io, invece? Dico che dovresti cercarti un'altra squadra, O'Connor» gli sussurrò all'orecchio il capitano in tono sprezzante. «Inglese e pure finocchio: c'è un limite a tutto...»

Dan dovette lottare con tutte le sue forze per trattenere la rabbia che sentiva ribollire dentro.

«Di' un'altra parola sbagliata e giuro che te ne pentirai» lo ammonì allontanandolo con uno strattone. Per tutta risposta, Richard portò il capo indietro e scoppiò a ridere sotto gli sguardi sempre più confusi degli altri.

Nel frattempo, si erano uniti al cerchio di spettatori i restanti membri della squadra.

Dan intravide un inquieto Henry chiedere in giro cosa stesse succedendo, e questo non fece che accrescere la sua ansia. Richard estrasse dalla tasca della giacca uno smartphone e, agitandoglielo davanti agli occhi, disse tutto tronfio: «Attento, O'Connor: non sei nella posizione di poter minacciare».

Quell'affermazione spiazzò tutti.

«Non puoi negare davanti all'evidenza, sai? Ho le prove che dimostrano quali siano i tuoi... ehm... gusti» Richard enfatizzò l'ultima parola con una smorfia di sdegno, appoggiato da Bryan e Dylan che lo squadravano come fosse un appestato. E non erano i soli: le facce dei compagni erano una carrellata di sentimenti contrastanti; un misto di shock, schifo, pena e delusione.

Si ritrovò senza parole, gli occhi spalancati e le braccia inerti lungo i fianchi mentre Richard, per dimostrare che faceva sul serio, gli metteva sotto al naso uno scatto che lo vedeva baciare Henry proprio là dentro.

La sicurezza che aveva ostentato fino a quel momento vacillò.

Com'era possibile? Era sicuro fossero soli...

Qualcuno dei compagni doveva averli spiati dalla porta socchiusa, a giudicare dall'angolazione dell'immagine. Non c'era altra spiegazione.

Come poteva Richard minacciarlo di mostrare quella foto alla squadra? Non si rendeva conto del male che avrebbe fatto?

«Non posso crederci» mormorò il biondo, incapace di nascondere il suo sconcerto di fronte a una mossa così meschina.

«Sorpreso, O'Connor? Niente di personale, faccio solo il mio dovere» Richard sfoggiò un ghigno perfido, gli occhi pervasi da un insano luccichio. «Dopotutto, ritengo che i presenti debbano sapere con chi dividono le docce e chi di loro ti fotti!»

Allo scompiglio tra i presenti destato da quelle parole, Dan si sentì morire. Non ebbe il coraggio di guardare in direzione di Henry e, comunque, non sarebbe stato saggio. Poteva solo immaginare la sua angoscia nell'apprendere che la loro vita segreta stava per essere spiattellata davanti a tutti. Li avrebbe distrutti entrambi. Non poteva permetterlo.

Perché Richard lo stava torturando così? A quale gioco perverso stava giocando?

«Allora? Lo dici tu o lo dico io?» lo istigò giocherellando col cellulare senza staccargli gli occhi glaciali di dosso mentre i compagni assistevano ammutoliti.

Dan si sentì come un topo in trappola: in un modo o nell'altro, la verità sarebbe venuta fuori; poteva solo scegliere per bocca di chi.

Il suo sguardo cercò disperatamente quello di Henry. La sua àncora di salvezza. Bastò una frazione di secondo: due grandi e impauriti occhi verdi e un breve diniego del capo furono più che sufficienti.

Dan sentì qualcosa rompersi dentro. Guardò a terra e si morse il labbro fino a farsi male. Henry non lo avrebbe aiutato a sfuggire alla pubblica gogna. L'aveva lasciato solo a combattere per una causa che era anche la sua.

Quando si rivolse di nuovo a Richard, nei suoi occhi c'era solo rabbia.

«Non la passerai liscia, verme schifoso che non sei altro.»

Richard scoppiò a ridere per l'ennesima volta, facendogli salire ancora di più i nervi a fior di pelle.

«Io?! Ah ah, questa è bella! Guarda che il verme qua dentro sei tu. Tu e il tuo adorato compagno di scop...»

Dan non gli diede il tempo di finire; avanzò deciso e lo afferrò bruscamente per la giacca della tuta, costringendolo a guardarlo negli occhi. «Adesso sì che hai rotto» sussurrò a denti stretti a pochi centimetri dal suo viso, le iridi blu che lanciavano saette.

«Eeehi! Non ti azzardare a toccarmi, capito? Frocio del cazzo!»

Richard lo spinse via con violenza, mandandolo a sbattere contro un armadietto. Il fragore metallico che seguì fece sobbalzare tutti i presenti.

A quel punto, Dan perse anche l'ultimo briciolo di autocontrollo. Si scagliò addosso a Richard con tutta la collera che aveva in corpo, spedendolo contro il muro e colpendolo in pieno viso. Sentì il naso rompersi a contatto col suo pugno e, a seguire, il tonfo secco del telefono contro il pavimento. Richard reagì immediatamente, assestandogli un destro dritto sui denti e un altro colpo tra le costole. Dan indietreggiò barcollando; si passò il dorso della mano sulla bocca sanguinante prima di fiondarsi con rinnovata furia su quel demone dagli occhi di ghiaccio, mandandolo a terra e dando inizio a una lotta all'ultimo sangue: un groviglio di muscoli, pugni e insulti che neanche i compagni intervenuti per separarli parevano in grado di districare.

«What the... Hey, hey, stooop! I SAID STOP! NOW!»

L'urlo allarmato del mister raggiunse gli spogliatoi, interrompendo la rissa proprio quando la mano di Dan era serrata attorno alla gola di Richard.

«Via via, toglietevi di mezzo!» inveì facendosi largo fra i giocatori, fischietto al collo e cappellino in testa. Doveva essersi precipitato dalla sala allenatori in fondo al corridoio, non appena udito il trambusto. «Volete dirmi che diamine sta succedendo?»

«È stato lui, mister: mi ha provocato e insultato» sbraitò un Dan sudato e tremante, additando Richard e tamponando come poteva il sangue che usciva dal labbro spaccato.

Il mister esaminò sconcertato le chiazze rosse sulle facce e mani degli autori della rissa e si rivolse al capitano che, nel frattempo, si era rialzato con l'aiuto di Bryan e Dylan.

«M-mister, io non ho fatto niente di male, mi creda! Ho solo detto la verità, e per questo sono stato aggredito» si difese il moro con falsa aria innocente, la mano chiusa sul naso sanguinante, lanciando a Dan un'occhiata velenosa.

«Ti avevo detto di farti gli affari tuoi!» aveva ribadito quest'ultimo minaccioso, trattenuto per le braccia da un paio di compagni.

«Non sono d'accordo: certe cose si devono sapere. Tipo che in squadra abbiamo un frocio di merda!» esclamò Richard con disprezzo. «E pure instabile! Vede questi segni, mister? Mi ha messo le mani al collo» rincarò con occhi spiritati. L'ira di Dan si riaccese in un lampo e avrebbe scatenando un nuovo putiferio se i compagni non si fossero messi in mezzo.

«Ringrazia che non te l'ho spezzato, il collo!»

«Tu prova solo a sfiorarmi di nuovo e sei morto!»

«Smettetela subito, tutti e due! Ma che vi è saltato in mente? Vergognatevi! Non vi ho insegnato niente?! Sono anni che ripetiamo che "rispetto" è la nostra parola d'ordine... e voi che fate? Vi insultate e azzuffate? Alla vigilia di una partita decisiva, per di più! Che vergogna! Che delusione!»

A quelle parole dure, indignate, i giocatori avevano chinato il capo imbarazzati, eccetto Dan e Richard che continuavano a squadrarsi in cagnesco.

«Avanti, voi due: ricomponetevi e scusatevi» li esortò il mister portando le mani ai fianchi e puntandoli con occhio severo; sulle facce dei due interpellati comparvero espressioni di puro disgusto.

«Scusi, mister, sta dicendo che dovrei chiedere scusa a questo bullo omofobo? È lui che deve scusarsi.»

«Ah, sì? E tu non devi scusarti per avermi rotto il naso?»

«Non l'avrei fatto se uno stronzo egocentrico e ignorante non mi avesse provocato.»

«Preferisco rimanere ignorante piuttosto che condividere la maglia con un deviato succhiacaz...»

Un fischio acuto e prolungato riempì la stanza, facendo serrare bocca, occhi e orecchie ai presenti.

«ADESSO BASTA!!!» tuonò l'allenatore paonazzo, gli occhi strabuzzati e il fischietto tra le dita tremanti. L'avevano visto così accalorato e fuori di sé solo quando avevano perso vergognosamente contro l'ultima in classifica un paio d'anni addietro.

«Questo è troppo, avete superato il limite! Non permetterò che una personale resa dei conti rovini anni di duro lavoro. Se avete della rabbia da sfogare trasformatela in grinta e riversatela in campo alla prossima partita! Intanto, per questo sabato, O'Brien e O'Connor resteranno in panchina a schiarirsi le idee» decretò infine, suscitando immediate e accese proteste da parte di tutto lo spogliatoio e, soprattutto, dei diretti interessati.

«Sta scherzando, mister!»

«Non dirà sul serio...»

«Sono serissimo, invece!» s'inalberò il mister. «Date le circostanze, una pausa di riflessione non potrà che farvi bene. Howard, Farrell,» chiamò poi, indicando Henry e Niall «sostituirete O'Connor e O'Brien. Walsh sostituirà Farrell e... Donovan,» si rivolse poi a Dylan «guiderai tu la squadra.»

Dan percepì il rosso farsi piccolo piccolo di fronte a quell'inattesa convocazione. Anche quel cafone di Dylan era rimasto spiazzato, ma aveva prontamente drizzato la schiena e annuito. Eppure non sembrava molto entusiasta, considerato che rimpiazzare l'onnipresente capitano era un'occasione più unica che rara. In verità, era scuro in volto, quasi turbato. Fu solo allora che Dan notò che tra le dita e parzialmente nascosto dietro la schiena stringeva il telefono caduto di mano a Richard. Sgranò gli occhi.

Quindi era stato lui...

Il danno e la beffa, non poté fare a meno di pensare. Il ragazzo che l'aveva abbandonato al suo destino che giocava al suo posto e quel viscido spione a capo della squadra.

«E non voglio più sentire proteste, gesti violenti o linguaggio scurrile da parte vostra, sia dentro che fuori il campo. È chiaro?» li ammonì il mister.

«Sì, mister!» risposero in coro.

L'uomo riservò un'ultima occhiata di biasimo a Dan e Richard prima di uscire furibondo dagli spogliatoi, imprecando contro la mancanza di disciplina delle giovani generazioni.

Dan afferrò il borsone, se lo gettò in spalla e tagliò gli spogliatoi a testa bassa, evitando gli sguardi che parevano trafiggerlo da una parte all'altra. Un gruppetto gli si parò davanti, alcuni preoccupati, altri curiosi, nel tentativo di trattenerlo per saperne di più.

Avrebbe voluto dirgli: "Grazie per il supporto".

Avrebbe voluto dirgli: "Facile farsi avanti adesso".

Invece, non disse nulla.

Li scansò tutti e indugiò sulla soglia giusto il tempo di asciugare con la manica della giacca il sangue che colava dal labbro; nel farlo, si premurò di lanciare a Henry un'occhiata truce: aveva assistito alla sua umiliazione davanti alla squadra senza intervenire in alcun modo. Era a dir poco furioso con lui.

È finita.

Una violenta burrasca lo attendeva fuori dalla palestra. Si abbatté impietosa su di lui, sferzandogli il volto e spegnendo definitivamente l'ultimo barlume di speranza che gli restava. Le lacrime scesero irruente sulle guance gonfie e arrossate, mescolandosi alla pioggia.

Com'era strana e volubile la pioggia di Dublino: un giorno, testimone di baci e sospiri dolcissimi scambiati sotto la luce tenue dei lampioni; un altro, aliena a quell'amore acerbo e infelice. Quella stessa pioggia che aveva suggellato il primo bacio tra lui ed Henry scendendo su di loro come una benedizione, adesso piombava sul suo capo come una condanna.

Giunto a casa, scaraventò il borsone all'ingresso e superò spedito la sala da pranzo. Non rispose all'eco di sua madre che lo raggiungeva dalla cucina per avvisarlo che la cena era quasi pronta; salì di corsa le scale e si sbatté la porta alle spalle. La madre, sentendo il figlio fiondarsi in camera senza neanche salutare, aveva abbandonato mestoli e pentole e lo aveva raggiunto di sopra.

Quando aprì piano la porta, lo trovò accovacciato in un angolo della camera, seduto a terra, le gambe contro il petto e le mani sul volto nel vano tentativo di coprire i singhiozzi convulsi che gli mozzavano il fiato. Emise un sospiro amaro e si sedette accanto a lui.

«Tesoro, cosa è successo?» gli domandò sottovoce mettendogli una mano sulla spalla. Ma lui non riusciva a parlare, tanto era sopraffatto dalle lacrime. La donna non aveva mai visto il figlio così devastato e, a primo impatto, ne fu spaventata. Poi, il suo sesto senso le fece intuire il dramma dietro a quel pianto e la difficoltà di condividerlo. Tutto ciò che poteva fare era stargli vicino. Lo circondò con le braccia e lasciò che si sfogasse.

«I-io ho fatto di tutto per... l-lui! Io m-mi fidavo di lui» gemette Dan con voce rabbiosa e soffocata contro al suo petto.

«Passerà. Passerà, vedrai» lo consolò la madre accarezzandogli i capelli bagnati.

«Come? Come può passare questo?» gemette Dan sollevando il capo e rivelando gli occhi rossi colmi di lacrime e disperazione. Il suo bel volto era sfigurato da chiazze violacee ed escoriazioni. La donna sgranò gli occhi, angosciata alla vista dei lividi e del labbro spaccato.

«Mio Dio, cosa è successo? Chi è stato?» domandò stringendogli la mano sporca di sangue. Dan avrebbe voluto raccontarle com'era andata, ma non ce la faceva. Non se la sentiva di rivivere tutto. Si morse il labbro per trattenere i singhiozzi che continuavano a scuoterlo.

Non erano le offese, né i colpi subiti a fare male. La pugnalata al cuore, quella sì che faceva male.

«Papà aveva ragione,» mormorò abbandonandosi al conforto dell'abbraccio materno «c'è troppo odio in questo mondo. Non puoi fidarti di nessuno.»

Lasciò che il tempo passasse, lasciò che le parole e le carezze di sua madre ricucissero le ferite, gli occhi offuscati rivolti oltre i vetri della finestra, laddove le luci della città si scioglievano sotto la pioggia di Dublino.

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