17 - Under the Dublin Rain (pt.3)

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Quanto accaduto quel giorno negli spogliatoi ebbe ripercussioni sullo spirito e gli umori della squadra.

Quell'uggioso sabato pomeriggio di fine marzo avrebbero affrontato i Red Dragons: non fortissimi sulla carta ma insidiosi, nonché reduci da due vittorie consecutive. Come ordinato dal mister, Dan e Richard avrebbero assistito al match dalla panchina; al loro posto erano scesi in campo Henry e Niall, rispettivamente con le maglie numero sei e otto.

Certo, sapere che l'esiliato number eight si rodeva per non poter giocare era motivo di soddisfazione per Dan, ma non bastava ad attenuare il fastidio di starsene lì seduto a guardare la squadra capitanata da quel deficiente che l'aveva fotografato con Henry di nascosto. Per non parlare di quest'ultimo, che a ogni occasione gli rivolgeva sguardi mortificati di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Eppure, non riusciva a ignorarlo come avrebbe voluto.

La verità era che non aveva smesso di amarlo, ma quell'amore non era più assoluto: era stato schiacciato da delusione, rabbia e un profondo senso di perdita.

L'amava e l'odiava. L'odiava per essersi preso il suo cuore e averlo fatto a pezzi, l'odiava per aver ceduto di fronte agli ostacoli. Ma, soprattutto, l'odiava perché era talmente dolce e bello da non poter essere odiato sul serio. Questa cosa l'avrebbe fatto impazzire.

A rendere ancora più nero il suo stato d'animo, ci pensavano il cielo cupo e i punti che stavano subendo uno dopo l'altro. Dopo quindici minuti, si trovano sotto 10-0. Stavano tenendo bene in mischia e nelle fasi statiche, ma avevano concesso dei falli di troppo e faticavano a riposizionarsi. Henry, dal canto suo, malgrado l'impegno per dimostrare alla squadra e al mister di essere un degno sostituto, non era meno teso degli altri. La sua agilità gli consentiva di rubar palla e coprire molto terreno in poco tempo ma, in fase di smistamento, impiegava quel secondo di troppo che finiva col bruciare il vantaggio faticosamente conquistato. Aveva già subìto qualche placcaggio di troppo, notò Dan contrariato.

Gli avversari, in maglia rossa e pantaloncino nero, parevano particolarmente agguerriti quel giorno. Galvanizzati dall'assenza in campo dei due titolarissimi, avevano preso in mano il match fin dall'inizio, messo pressione sfondando in attacco e avevano appena conquistato un altro calcio di punizione.

Richard aveva implorato il mister di farlo entrare, convinto com'era che la squadra senza di lui fosse allo sbaraglio. E, in quel caso, aveva anche ragione: i compagni giocavano troppo in difesa e mancavano d'inventiva. Erano distratti, poco reattivi, scollegati. Andare a meta gli costava più fatica del solito. Tuttavia, Dan era abbastanza certo che la causa di quella performance mediocre non fosse solo l'assenza del loro capitano, ma anche la deprecabile sceneggiata in cui questi l'aveva coinvolto negli spogliatoi. Dan era risentito per il trattamento ricevuto e per essere stato messo in panchina accanto al suo "carnefice".

Ma Richard era, se possibile, ancora più irritato di lui: non stava fermo un attimo, scattava in piedi di continuo, inveiva contro gli avversari e perfino contro i suoi stessi compagni, dispensando commenti rabbiosi a ogni pallone perso.

Quando il mediano di mischia avversario mise dentro il calcio del 19-7, chiudendo la prima frazione di gioco, si avvicinò all'allenatore più agguerrito che mai.

«La prego, mister, mi faccia giocare! La squadra ha bisogno di me» insisté, recitando nel modo più convincente che gli riuscì la parte del capitano responsabile. Il mister lo squadrò dall'alto in basso, con diffidenza; poi, disse secco: «Hai fatto pace con O'Connor?».

«Sì sì, mister, abbiamo fatto pace» mentì spudorato Richard. «Posso entrare adesso?» domandò supplichevole. Dan gli lanciò un'occhiata disgustata dalla sua estremità della panchina.

Quel tizio avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di scendere in campo e mostrare a tutti quanto fosse essenziale. Non pareva rendersi minimamente conto della gravità delle sue azioni e, anche se ne avesse preso coscienza, non gliene sarebbe comunque fregato niente. Al contrario, Dan aveva ragione di credere che il suo obiettivo fosse proprio quello di screditarlo davanti alla squadra e scongiurare il rischio che gli soffiasse il titolo di capitano. Sapeva che Richard covava dell'odio nei suoi confronti perché, a differenza sua, era benvoluto dai compagni. Quelle rare volte in cui era indisposto, Dan veniva chiamato a rimpiazzarlo come capitano e questa cosa non gli andava giù.

«Forse non mi sono spiegato,» disse il mister severo «potrai anche essere il miglior rugbista al mondo ma, finché non avrai compreso i tuoi sbagli e fatto ammenda, resterai a marcire in questa fottuta panchina fin quando lo dico io. Sono stato abbastanza chiaro?»

«Sì, mister» sbuffò Richard indispettito. Tornò sconfitto al suo posto e indirizzò a Dan un'occhiata carica di rancore. «Complimenti, O'Connor! Per colpa tua rischiamo di perdere. Sei contento?»

«Contento di vedere il fenomenale O'Brien soffrire come un cane in panchina? Eccome! E, comunque, se fossi capace di tenere a freno la lingua, a quest'ora saremmo entrambi in campo. Non è colpa mia se non sai collegare la bocca al cerv... oh, scusa: tu non hai un cervello.»

«Non la passerai liscia, finocchio di merda» sibilò il capitano tra i denti. Dan serrò i pugni fino a farli sbiancare e stava per replicare prima che un fallo netto in mischia riportasse la sua attenzione sul campo.

Quando, subito dopo, il fischio dell'arbitro interruppe il gioco per consentire la sostituzione di un compagno sanguinante, gli occhi di Henry e Dan s'incrociarono per un istante; quest'ultimo li distolse fin troppo rapidamente, a differenza di Dan che continuò a seguire le sue mosse.

La cosa non sfuggì a Richard.

«Che c'è, ti manca la tua puttanella?» insinuò in tono sprezzante.

«Chiudi. Quella. Cazzo. Di. Bocca.»

«Perché così sgarbato? Ohooo, non mi dire!» esclamò il moro simulando un tono sorpreso. «Il piccoletto ti ha spezzato il cuore? Ti sei innamorato?» cantilenò in un tono così caricaturale da dargli la nausea. Dan strinse più forte le braccia incrociate contro il petto. Non avrebbe chiesto di meglio che spaccargli la faccia.

«Ho toccato un tasto dolente, eh?» continuò Richard sfoderando un ghigno compiaciuto. «Che, poi, non è neanche uscito allo scoperto quando eri con le spalle al muro. Si vede che lui non è poi così innamorato...»

«Se hai voglia di saltare anche le prossime partite, sei sulla buona strada» lo ammonì Dan. Ma più gli rispondeva, più quello infieriva.

«Che peccato! Ti è andata male, O'Connor. Dovrai trovare un altro culo da rompere.»

«Sì, il tuo.»

«Son of a...»

«E voi due avreste fatto pace?!» la voce del mister tuonò sulle loro teste, tagliando come un'accetta l'accaldata discussione. «Devo stare attento alla partita o a voi?» domandò, i pugni sui fianchi, rimettendoli al loro posto.

Quando le orecchie dell'uomo furono lontane a sufficienza, Richard bofonchiò un altro: «Finocchio di merda» in direzione del rivale. Stavolta, però, la nube fosca sul volto di Dan si era diradata; allentò la tensione muscolare e sfoderò un sorriso strafottente.

«Meglio finocchio che omofobo» ribatté calmo.

«Brucia all'inferno, bastardo.»

«Dopo di te, stronzo.»

Richard stava per rilanciare, ma il timore di farsi espellere ebbe la meglio. Si morse la lingua e si costrinse mandare giù l'ennesimo insulto. «Me la pagherai, O'Connor» sibilò minaccioso.

«Dio, me la sto facendo sotto» lo sbeffeggiò Dan senza battere ciglio. Per tutta risposta, Richard digrignò i denti e sputò a terra tutto il suo disprezzo.

Vedere quel pallone gonfiato accasciarsi in panchina, impotente mentre la sua squadra perdeva sotto ai suoi occhi era tutto ciò che di buono Dan poteva trarre da quella giornata di merda.

La partita si era conclusa con la vittoria dei Red Dragons per 34-17 e una sfilata di occhiate risentite e abbattute da parte dei compagni verso i due grandi assenti mentre lasciavano il campo.

Forse sono stato egoista, rifletté Dan. Ho pensato solo a me, trascurando il bene della squadra...

No, non è così.

La squadra e il campionato sono importanti, ma ci sono cose più importanti per cui battersi.

Quel giorno, si rese conto di aver imparato qualcosa da quello spiacevole episodio di outing che l'aveva visto protagonista.

Quel giorno, promise a se stesso che non avrebbe mai più lasciato che i seminatori d'odio come Richard gli rovinassero la vita.



Ma la vita era crudele e non bastava una promessa di coraggio a sconfiggere il male del mondo.

Una sera, di ritorno verso casa dopo l'ultimo allenamento della stagione, delle figure non meglio identificate gli avevano sbarrato la strada. Erano in quattro.

Senza alcuna apparente ragione, l'avevano accerchiato, insultato e massacrato di botte fino a fargli sputare sangue; poi, così com'erano apparsi, si erano dileguati lasciandolo rantolante e semisvenuto a terra.

Quando aveva varcato la soglia, zoppicante e piegato in due dal dolore, la faccia pesta e sanguinante, i suoi erano morti di spavento. La madre e la sorella erano esplose in un pianto isterico mentre suo padre, adirato come non mai, l'aveva scortato in macchina e interrogato su chi l'avesse aggredito. Sulla strada per il pronto soccorso, Dan aveva risposto che non era riuscito a distinguere chiaramente i volti a causa della scarsa illuminazione, ma che comunque non credeva di conoscerli – almeno, dalla voce.

Subì un paio di interventi e rimase in ospedale per parecchi giorni. Aveva due costole rotte, una lussazione alla spalla, il polso destro fratturato e svariate contusioni. Suo padre l'aveva convinto a sporgere denuncia, sebbene non avesse alcun nome da incriminare.

In realtà, un nome ce l'aveva: Richard O'Brien. Era convinto che dietro a quell'attacco brutale ci fosse la sua sete di vendetta. Quel bastardo doveva aver mandato degli amici suoi a fare il lavoro sporco. Sfortunatamente, non aveva prove che dimostrassero il suo coinvolgimento. Le parole di scherno e disprezzo che gli avevano rivolto quella sera gli rimbombavano nelle orecchie mentre era sul letto d'ospedale e non riusciva a pensare ad altro.

Durante i giorni di degenza, ricevette numerose chiamate e messaggi di vicinanza e, in orario di visite, volti familiari erano andati a trovarlo. Parenti, amici, compagni.

Tra loro, c'era anche Henry.

Non appena appreso dell'aggressione, l'aveva tempestato di chiamate e messaggi a cui non aveva voluto rispondere. Inutile: nel giro di poche ore, Henry era al suo capezzale. Avrebbe preferito che non l'avesse fatto, ma non poteva impedirglielo.

Vederlo entrare gli provocò una sgradevole sensazione di rigetto. Quegli occhi di smeraldo dalla purezza ormai scheggiata percorsero orripilati il suo corpo ammaccato, le flebo alle braccia livide, i tagli e le croste sul lato della faccia che gli avevano grattugiato contro l'asfalto. Lesse un'espressione di cupa consapevolezza sul viso smunto del rosso; gli aveva preso delicatamente la mano e aveva singhiozzato frasi di scuse e rammarico, versando lacrime calde su bende e lenzuola. Ciò non fece che acuire il dolore nel petto di Dan, l'ennesima ferita che gli infliggeva senza neanche rendersene conto.

Perché proprio tu? Perché mi hai fatto questo?, fu la silenziosa domanda che i suoi occhi sofferenti gli rivolsero.

«Non sai quanto mi dispiace!» gemette Henry. «Tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere. Perdonami, ti prego...»

Si era sentito chiamato in causa per quanto accaduto e ora era lì a sfogargli addosso i suoi sensi di colpa, non poté fare a meno di pensare Dan.

«No» l'aveva interrotto con durezza. «Non mi servono la tua compassione, né le tue lacrime» aggiunse ritraendo la mano. «Hai detto bene: tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere, perciò fingiamo che non sia mai accaduto.»

«Dan, ma che stai dicendo? Come potrei dimenticare...» protestò Henry sull'orlo della disperazione.

«Vattene» gli intimò Dan perentorio.

«Ma...»

«Vattene» ripeté, distogliendo lo sguardo. «Non voglio più vederti.»

A quell'imperativo, Henry sbiancò. Serrò le labbra e si staccò dal letto, ma non accennava a lasciarlo. Avrebbe voluto restare lì al suo fianco; avrebbe voluto incrociare il suo sguardo ancora una volta. Ma Dan non gli concesse neanche quest'ultimo desiderio: i suoi occhi gonfi e cerchiati di rosso erano inchiodati alla finestra.

La pioggia di Dublino batteva sul vetro e sul suo cuore martoriato.

Allora Henry capì di averlo perso per sempre. Il ragazzo forte, bello e intraprendente che aveva imparato ad amare giaceva inerme e apatico su quel letto e non voleva più saperne di lui.

Poteva dargli torto? Doveva arrivare a vederlo in quello stato per rendersi conto di averlo rovinato?

Ormai era troppo tardi per rimediare. Non gli restava che arrendersi alla sua volontà.

«Mi dispiace» ripeté prima di uscire per sempre da quella stanza e dalla sua vita.

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