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La temperatura nella cabina sembra stabile, ma il sudore ormai asciugatosi sui nostri corpi ci fa percepire qualche grado in meno. Saranno passate almeno tre ore dal momento in cui l'ascensore si è bloccato e nessuno ancora è venuto a tirarci fuori.
Stefano dice che probabilmente se ne accorgeranno domattina, quando tutti i clienti avranno lasciato il pub e qualche dipendente necessiterà dell'ascensore per portare l'immondizia a terra.

Abbiamo parlato molto in questo lasso di tempo, soprattutto per impedirgli di addormentarsi: la sua ferita non è abbastanza grave da far presagire danni permanenti, né ha perso abbastanza sangue da perdere i sensi, ma preferisco evitare di dover spiegare ai medici quando esattamente ha smesso di rispondere agli stimoli sensoriali –anche perché qui non ho strumenti per stimolarlo.

Studia economia nella mia stessa Università, anche lui è all'ultimo anno, si laureerà presto e non vede l'ora di tornare a casa da sua nonna; sarebbe dovuto andare questo weekend, ma poi un suo amico lo ha costretto a venire alla festa e ora eccoci qui, bloccati in questo ascensore da un numero imprecisato di ore.

«Nemmeno io volevo venire alla festa, sono stata costretta da un'amica che ora starà limonando con un tipo» confesso, giusto per mandare avanti la conversazione.

Quando ti trovi rinchiuso in meno di due metri quadri i silenzi possono essere molto imbarazzanti.

«Quando ci tireranno fuori dovremmo insultarli pesantemente» afferma lui con una risatina, ben presto sostituita da un colpetto di tosse.
Sospetto si stia ammalando, ma temo che se glielo dicessi potrei solo peggiorare la situazione dato che mi sembra leggermente ipocondriaco.

Non ho nemmeno il tempo di pensare a una risposta che un nuovo blackout, questa volta di soli pochi secondi, ci fa scattare sull'attenti. Stefano si alza in fretta, un po' troppo in fretta a giudicare dalla perdita di equilibrio che ne consegue, e io mi tiro a sedere nella maniera più dignitosa possibile –per quanto possa essere dignitoso stare seduti in un ascensore con un tacco rotto e il solo reggiseno indosso.

«Pensi che abbiano capito che c'è qualcosa che non va?» domando, un po' per essere rassicurata un po' per rompere il silenzio spettrale che sembra essere calato sull'intero edificio.

«Lo spero» risponde telegrafico, sebbene nella sua voce percepisco una leggera nota stonata.

Deve essersi accorto di qualcosa, qualcosa che chiaramente a me è sfuggito, e sta cercando in tutti i modi di non farmelo notare. Peccato che io sia reduce da tre anni di tirocinio nei reparti pediatrici, dove i bambini sono particolarmente avvezzi alle bugie per scampare ai trattamenti o al dolore, per cui sono stata formata per recepire anche una lievissima inclinazione nella voce.

E devo dire che i bambini riescono a mentire decisamente meglio di lui.

Un clangore metallico associato al tipico rimbalzo che fanno gli ascensori quando partono ci avvisa che sì, finalmente si sono resi conto del problema e hanno chiamato i soccorsi, i quali sono riusciti a risolvere qualsiasi cosa fosse e stanno per tirarci fuori.

Quasi fatico a credere che sia davvero finita.

Stefano ormai sta sorridendo, convinto di essere praticamente già fuori. È evidente che non conosce la cosiddetta legge di Murphy, per cui, se una cosa può andare peggio, sicuro lo farà.

E indovinate chi sarà stavolta a sperimentarlo?

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