Bunker 307, ore 21:38

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«Andiamo, Ivy! Fa' la brava, vieni qui!»

Ivy non mi dà ascolto. Abbaia contro la porta blindata sigillata, i peli sul dorso dritti. I denti snudati e ingialliti sono quelli di un cane a metà della propria vita, ancora forti e capaci di staccare brandelli di carne senza difficoltà, ma hanno evidenti segni di scarsa igiene.

Sbuffando, le vado incontro per poggiarle una mano sul pelo irsuto. «Dai, smettila di fare la cretina, non c'è niente qui. Sei una fifona scema.» Aggancio il guinzaglio al collare e la strattono verso di me.

Non cede subito, ma nonostante la sua stazza da pastore tedesco in piena forza, la trascino via. Peccato che non voglia saperne di smetterla di ringhiare, e continua imperterrita lungo tutto il tragitto.

«Ma dai, possibile che come senti un alito di vento là fuori ti devi incazzare così? Lo sai che se continui così Mario ricomincia con la predica. E io non ho nessuna voglia di sentirmelo un'altra volta, tu sì?»

Ovviamente a lei non importa nulla delle mie lamentele, per lei esiste soltanto il presunto pericolo che si cela oltre la porta. Mano a mano che ci allontaniamo lungo i corridoi stretti dalle pareti di metallo, grigie e sterili, lei si acquieta sempre di più. Nel momento in cui entriamo nella sala da pranzo ancora piena di gente, smette del tutto. Il pelo le rimane rizzato, e si ode in sottofondo il suo borbottio continuo, ma per il momento mi accontento.

Il profumo dei fagioli fritti mi distrae da Ivy. Ho lo stomaco vuoto, e quell'odore che soltanto pochi anni prima avrei trovato nauseabondo mi fa salire l'acquolina. Tiro il guinzaglio a me e Ivy mi cammina a fianco; dopo che ho ripetuto per ben tre volte l'apposito comando, si sdraia a terra con la testa fra le zampe. Emette un guaito di protesta a cui non presto ascolto.

L'unico posto ancora libero è il solito che mi viene riservato: fra Mirtilla la Stramba e Tonino il Puzzone. La prima mi saluta con un cenno del capo, mentre il secondo è troppo impegnato a ingurgitarsi la sua razione di cibo giornaliera per notarmi.

«Almeno il giorno in cui si mangiano fagioli mi potevano pure risparmia',» sussurro ad Ivy quando mi abbasso a farle una carezza.

Tonino deve il suo soprannome alla sua incredibile capacità di sparare loffe a intervalli regolari di dieci minuti. Nel momento esatto in cui il naso si abitua alla puzza che ha sganciato, ne arriva un'altra, più potente della precedente. Secondo me lo fa apposta, si diverte a vedere le reazioni schifate di chi lo circonda.

«Perché abbiava il cane tuo, oh?» Ed ecco Mario. Con la fortuna che mi ritrovo, è seduto proprio davanti a me. Oggi sembra essere la mia giornata fortunata.

Ha i baffi sporchi della salsa dei fagioli. Gli occhi mi fissano incupiti da dietro le lenti sudicie di un paio d'occhiali appartenenti almeno al secolo scorso.

Abbasso lo sguardo su Ivy, come se mi aspettassi un aiuto da parte sua. Certo, sarebbe il minimo che potrebbe fare per sdebitarsi, visto che se mi trovo in questa situazione è solo colpa sua.

«I soliti rumori dietro la porta,» rispondo con una scrollata di spalle.

«Sta sempre a fa' casino, quel cane,» si lamenta Maria, la donna anziana seduta accanto all'uomo.

Mario e Maria, accoppiata perfetta. Ivy, sei una maledetta, perché non vuoi mai imparare a startene zitta una buona volta?

«Perché non è che tutti possono ave' un cane, eh. Lo devi sape' tene', altrimenti poi diventa una peste.» Mario, come al solito, è convinto di sapere tutto sull'argomento, anche se, per sua stessa ammissione, non ha mai avuto un solo animale in vita sua.

«Una volta in televisione hanno detto che i cani sono tristi se non li sai addestra',» annuisce Maria.

Ripeto, la coppia perfetta.

Mi sforzo di fare un sorriso cordiale, ma penso che il risultato somigli più al ghigno di un orco incazzato. «Eh, ci avrei dovuto pensa' prima, sì,» dico, tanto per farli stare zitti. Quando due sapientoni del genere danno consigli su come fare una qualsiasi cosa, esiste un solo modo per far terminare al più presto la predica: dar loro ragione.

«Oggi ho sentito anche io qualcosa di strano,» dice Mirtilla. Mi giro nella sua direzione, gli occhi luccicanti di gratitudine per aver cambiato argomento prima che mi venga voglia di fraccassare le teste di quei due rompiscatole contro il tavolo. «Era tipo come se qualcuno gratta sulla porta, avete presente? Sì, qualcuno si stava grattando le unghie sulla porta, stridevano.»

«'Na 'atta,» bofonchia Mario. In italiano, la traduzione giusta sarebbe: un gatto.

«Se n'è scappato da un altro bunker,» interviene Tonino. «Ce ne stanno alcuni al bunker 306, mi sa. Forse uno s'è perso.»

«Non lo so, non mi pareva un gatto a me,» dice Mirtilla, ma nessuno la sta ascoltando. Si sono messi tutti e tre a parlare della zitella del bunker 306 che spreca tutte le provviste per i suoi gatti.

L'odore di uovo sodo andato a male si mischia con quello dei fagioli. Mi porto una mano davanti al naso e trattengo a stento un conato di vomito. Tonino è partito alla carica con la prima. Ho dieci minuti di tempo per abituarmi e mangiare, poi mi conviene fuggire prima che attacchi di nuovo.

«Non era un gatto, vero, Ivy?» Mirtilla accarezza la testa del cane. Nel piatto, la porzione è ancora intera. Non ha toccato cibo, e non sembra intenzionata a farlo. Non mi stupisce affatto che sia così magra. È lunga e secca, cosa che le dona la stessa grazia di Pippo.

«Mah, lei si incazza per qualsiasi cosa,» le rispondo, sforzandomi di mantenere la calma e non allontanarla da Ivy. Anche se le sta tormentando l'orecchio nel modo che lei detesta. «Lo fa tutti i giorni, non è che sia molto d'aiuto per riconosce' un pericolo.»

«Eppure io dico che non era un gatto.»

Mirtilla è una ragazza poco più grande di me, ha ventotto anni, e questo fa di lei una delle poche persone della mia età nel bunker 307. Non è cattiva, è solo parecchio eccentrica, perfino dal punto di vista di una nerd incallita come me.

Le sorrido, sperando che non mi faccia altre domande sull'argomento. Sono convinta tanto quanto Mario e Tonino che fosse un gatto, sempre ammesso che ci sia davvero qualcosa a grattare sulla porta lì fuori.

«Cristopher ancora non torna?» È una voce maschile quella che urla questa frase dall'altro capo del tavolo. Antonio, detto anche la Cacata, anche se sinceramente non ho mai capito il motivo di questo soprannome, so solo che se lo porta dietro da prima della tragedia che ci ha rinchiusi qui.

«Eh? No, non mi pare,» gli urla Mario in risposta.

«È in ritardo, allora. No, perché doveva riveni' due giorni fa, no? Non è che è successo qualcosa? Come facciamo senza le provviste nuove?»

«Non era un gatto,» bofonchia Mirtilla. Sta ancora accarezzando Ivy, ma ha gli occhi persi nel vuoto. Il cane le mostra le zanne, sta cercando di farle capire che deve lasciarla stare, tuttavia Mirtilla è troppo concentrata sui suoi pensieri apocalittici per farci caso.

«E se fosse morto? E se quello che ho sentito fosse la cosa che l'ha ucciso?»

«Non c'è nessuna cosa,» provo a tranquillizzarla. «Non è mica un film, questo. Siamo qui perché ci stanno le radiazioni fuori, non perché c'è qualche creatura orribile, ricordi?» Ho provato a utilizzare il tono più gentile che ho.

Mirtilla nemmeno mi ascolta, continua a bofonchiare qualcosa a proposito di non-gatti e mostri orribili.

Mi accorgo di essermi abituata alla puzza sganciata da Tonino, e ne approfitto per mangiare in fretta e furia. I fagioli non sono buoni, li hanno cotti troppo poco per i miei gusti, ma me li faccio andare bene. Quando ho finito, libero Ivy dalle grinfie di Mirtilla e vado via.



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