67.

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Sono passati "solo" 20 giorni e sto aggiornando!

Woooo, non capitava da secoli, ma mi sono messa di buona lena per riuscire a pubblicare un nuovo capitolo prima della settimana di vacanze che (finalmente) avrò! Quindi yuppi yey per l'aggiornamento e per le vacanze!

Devo dirvi che scrivendo questo capitolo, mi sono anche resa conto che non manca molto alla fine delle storia; forse 4/5 capitoli e la cosa mi emoziona abbastanza, visto che questo percorso è iniziato ben più di due anni fa.

Vorrei arrivare al numero tondo di 70 capitoli però, quindi vedrò come sistemare il tutto. Nella mia testa il finale è già scritto, si tratta solo di arrivarci. Vi anticipo che non sarà una passeggiata, ma ne varrà la pena (o almeno spero!)

Okay basta con le ciance e grazie mille per essere sempre qui, per le letture, i voti e i commenti.

Un bacio,

Ali


***


Edoardo

La ammazzo.

Ammazzo lei e il suo agente.

Ma come cazzo si è permessa Vittoria di parlare con i giornalisti lì fuori e screditare Alice?

Come diavolo è possibile che una non si renda conto di superare sempre i limiti della decenza?

Quando è troppo, è troppo.

Devo sentire Max e vedere come possiamo gestire la cosa: non credo che il mio capo sarà contento, soprattutto perché già ieri sera era piuttosto alterato e pronto a contattare tutte le sue conoscenze per dare una bella lezione a quella lì.

Ma che vuole Vittoria da me esattamente?

Pensava forse che questo teatrino ci avrebbe portati a qualcosa di concreto? Oppure le interessava solo il gusto del brivido e di provare a se stessa che lei se vuole una cosa la ottiene?

Sinceramente non lo so, ma non voglio nemmeno scervellarmi e dedicarle più tempo di quanto non le abbia già dato o di quanto meriti.

L'unica cosa che desidero è che sia finita una volta per tutte e mettere a tacere quelle false voci sul mio conto e soprattutto sul conto di Alice.

Alice...

Ho visto solo una parte di tutti quegli articoli e commenti tremendi rivolti nei suoi confronti; cattiverie, più che altro, e illazioni che non merita; e la colpa di tutto questo casino è anche e soprattutto mia.

Non avrei dovuto mai accettare questa cosa.

Mai.

Ma vedrò di risolverla nel migliore dei modi.

La prima cosa da fare è chiamare Max, anche se l'istinto omicida – che non credevo di avere – mi spingerebbe a cercare direttamente Vittoria e il suo agente, ma so che questo farebbe solo il suo gioco.

Probabilmente avrà già chiamato orde di fotografi in qualsiasi posto lei alloggi per farmi fotografare all'ingresso. Mi immagino già i titoli, in cui probabilmente si direbbe che, pentito, sto tornando a chiedere scusa a Vittoria, dopo una notte di tradimento.

Quindi l'unica via percorribile è quella di andare da Max per capire come muoversi senza scatenare un polverone; sarò anche ingenuo, ma non fino a questo punto.

Mi vesto più in fretta che posso, tirando giù anche la lampada della scrivania, afferro la tracolla e torno in cucina, alla ricerca del telefono per chiamarlo.

La scena che trovo però è l'ultima che mi sarei mai aspettato: Alice ha all'orecchio il mio cellulare, è pallida in viso come mai l'ho vista e sembra sul punto di avere un attacco di panico.

Allarmato, mi avvicino a lei, «Ehi Ali, tutto bene? Chi è?».

Con chi è al telefono? Perché ha quell'espressione sul volto?

Lei mi guarda per un secondo, ma non sembra davvero mettermi a fuoco, dal momento che è troppo concentrata ad ascoltare le parole dell'interlocutore.

«Mat, con chi è al telefono?», domando rivolgendomi al mio coinquilino, ma lui si stringe nelle spalle.

«Non lo so, ma non ha detto una parola da quando ha risposto», si alza poi uscendo dalla cucina per rispondere a una telefonata.

Mi accovaccio all'altezza di Alice, per cercare di capire con chi stia parlando.

La realizzazione però di chi sia l'interlocutore mi colpisce come un secchio di acqua gelata quando Alice, sempre con quell'espressione scioccata, inizia a balbettare qualche parola in inglese.

No!

No, no, no, no!

Non può essere, Harry non mi ha mai chiamato; perché dovrebbe farlo adesso?

Cazzo.

Resisto all'impulso di prenderle il telefono dalle mani e chiudere la telefonata.

Cosa potrei fare tanto?

Se dall'altra parte della cornetta c'è davvero lui – il che spiegherebbe perfettamente l'espressione di Alice e le sue parole in inglese – l'unica cosa che mi auguro è che lei non se la prenda troppo e mi lasci spiegare.

So quanto questo cantante sia importante per Alice, mi ha raccontato una volta il motivo per cui si senta così legata alla sua musica: Harry l'ha accompagnata in un periodo che non è stato particolarmente felice per lei e la sua famiglia. Era un momento della sua vita delicato, stava scrivendo la tesi della triennale e passava le giornate a litigare con suo padre, con cui non è mai andata davvero d'accordo e che nella sua vita ha fatto più danni che altro, facendola piangere e soffrire come mai un padre dovrebbe fare.

Harry, insieme a qualche lettura, l'ha aiutata a rendere le cose più leggere, meno pesanti e mettere un po' di pace nel suo cuore e curare la sua anima ferita.

Mi ha detto che è stato un po' la sua ancora di salvezza, che le permetteva di non pensare troppo lasciandosi cullare dalle note delle sue canzoni.

E non voglio dire niente in merito, nonostante alcuni potrebbero pensare che sia infantile e da adolescente provare un attaccamento così forte per un cantante.

Come può, infatti, qualcuno che nemmeno sa che esisti essere così importante per te? Che senso ha?

Beh, a quanto pare ce l'ha: l'ho visto nel suo sguardo quando me ne parlava e ho capito.

D'altra parte, io non posso poi parlare più di tanto e sminuire la questione perché la capisco benissimo.

A me è successa più o meno la stessa cosa con la fotografia.

Ero in un momento buio dopo la rottura con Virginia e per non pensare e trovare un po' di sollievo mi sono aggrappato con tutte le mie forze alla mia macchina fotografica. E scatto dopo scatto ho spurgato tutto il dolore che mi attanagliava.

La fotografia mi è stata compagna fedele fino a diventare un lavoro, oltre che a una semplice passione e non passa giorno che io non pensi a quanto sia stata catartica e di aiuto.

Per questo non posso dire nulla su questo suo attaccamento a Harry, perché anche io, sebbene con una cosa completamente diversa, ho provato quello che ha sentito lei.

Quindi quando mi ha parlato per la prima volta di lui, la prima sera che si è fermata da me, ho subito pensato di farle una sorpresa, anche se, all'epoca, era tutto molto fumoso e confuso. Con il tempo poi, più stavo con lei e condividevo le sue giornate, più l'idea della sorpresa si è concretizzata in una proposta: quella di chiederle di diventare la mia ragazza al suo concerto, perché volevo che quella serata, già ricca di gioia per Alice, fosse particolarmente memorabile e speciale.

Ma adesso forse tutto il mio piano è andato in fumo.

Cosa mi posso inventare?

Trovare una scusa plausibile, oppure negare e sperare che mi creda?

No, non voglio mentire ad Alice, non potrei mai.

Non dopo tutto quello che c'è stato tra di noi, non dopo la difficoltà con cui si è lasciata andare e aperta con me.  Non dopo che non si è fatta schiacciare dalle sue insicurezze, ma ha voluto credere in quello che c'è tra di noi.

La amo, la amo con ogni singola fibra del mio corpo, quindi non voglio mentirle, ma nemmeno rivelarle la sorpresa, sempre che Harry non ne abbia parlato.

Qualsiasi buon proposito però va in fumo nell'esatto istante in cui chiude la telefonata e mi guarda, questa volta per davvero, e nei suoi occhi vedo una serie di emozioni che si susseguono fino a stabilizzarsi sulla rabbia.

L'ultima delle emozioni che avrei voluto vedere.

Preso dal panico, abbozzo un sorriso di circostanza, «C-chi era al telefono?».

Alice incrocia le braccia, stringe le labbra in una linea sottile, «Oh non saprei, dimmelo tu».

Mi passo una mano tra i capelli con fare nervoso e vedo i suoi occhi seguire il mio movimento: sono agitato e lei lo sa benissimo, sa che quando faccio questo gesto qualcosa non va.

«N-no, chi era?».

Si alza di scatto, «Oh, per favore, risparmiamela. Sai benissimo chi era al telefono», mi lancia un'occhiata in tralice. «Ma ora dimmi: come cazzo conosci Harry Styles e perché era così preoccupato per le foto di ieri sera?! Sembrava una questione di stato, cosa c'entra lui e cosa c'entra Vittoria?!».

«Ti ha chiesto questo solo questo?», domando cercando di capire cosa le abbia detto.

Assume un'espressione costernata, come se cercasse di mettere ordine tra i pensieri, «Non neghi nemmeno! Cioè Harry Styles ha il tuo numero e tu non me l'hai mai detto?», le trema la voce. «Perché?», domanda spaesata, abbassando le spalle e guardandomi con quegli occhi grandi e scuri dietro alle lenti degli occhiali, i capelli disordinati legati sopra alla testa.

Sembra molto più piccola improvvisamente e io mi sento come un ladro ad averle nascosto questa cosa.

Il motivo c'è ed è più che valido, ma non posso dirglielo e non riesco a trovare una buona scusa.

Mi limito a guardarla senza riuscire a trovare le parole.

Alice

Edoardo mi guarda, i suoi occhi verdi non mi lasciano nemmeno per un momento, ma non dice niente. La mia domanda resta nell'aria e pesa come un macigno tra di noi.

L'unico rumore che spezza il silenzio è quello del mio cuore che sta battendo erratico.

Non posso credere di aver sentito la voce di Harry – Harry Styles – al telefono. Ho riconosciuto subito il timbro, la sua cadenza strascicata, anche se era più concitata del solito mentre cercava di avere maggiori informazioni sulle fotografie di Edoardo e Vittoria.

Perché?

Non sono riuscita a dire niente, se non balbettare qualche frase sconnessa, che gli ha fatto pensare di aver sbagliato numero, tanto che ha attaccato.

Non che abbia capito il filo del discorso in realtà tanto era lo shock di sentire la sua voce al telefono; ho colto solo qualche passaggio: le foto, Edoardo, Vittoria.

Sembrava preoccupato e irritato anche, ma mi è sfuggito il motivo di questo suo fastidio.

Che diavolo c'entra Harry con tutta questa faccenda? Che cosa voleva sapere da Edoardo?

Certo che se avessi avuto i neuroni funzionanti in quel momento avrei capito qualche cosa in più rispetto a frasi sconnesse e nomi buttati tra una domanda e l'altra.

Non posso biasimarmi però perché, cavolo, Harry Styles ha parlato al telefono con me.

Riderei e salterei di gioia se la situazione fosse diversa. Se mi trovassi in una qualsiasi altra circostanza che non prevedesse Edoardo in silenzio che mi osserva, non aprendo bocca per rispondere alla mia semplice domanda, probabilmente urlerei, sarei euforica e potrei addirittura star ballando dalla felicità.

Ma non è questa la realtà perché, anziché sprizzare gioia da tutti i pori, ho un macigno sul cuore, sono confusa e in attesa di una semplice risposta.

Non mi sembra poi un quesito particolarmente difficile, ma temo che la situazione sia più complicata del previsto, visto che Edoardo si limita a guardarmi.

Mi guarda e basta e per questo improvvisamente mi monta dentro una rabbia che non riesco a spiegarmi. È irrazionale, me ne rendo perfettamente conto di quanto sia senza senso, ma non la controllo, tanto che sbotto.

«Allora? Cosa è questa storia? Perché mai nell'universo ho appena sentito la voce di una star della musica che non solo ha chiamato te, ma ha anche chiesto Vittoria, sembrando piuttosto alterato? Perché le questioni sono due: o sto sognando – il che non è da escludere – oppure mi stai nascondendo qualcosa. E non stiamo parlando di una cosa piccola, visto che lui è coinvolto».

Ma da parte di Edoardo ancora niente, nulla, e io non posso fare altro che scuotere la testa, sistemarmi gli occhiali sul viso e rilasciare un sospiro.

Perché non mi parla, perché non dice niente e se ne sta fermo lì a guardarmi?

Perché?

Vorrei avvicinarmi, afferrarlo per le spalle e scuoterlo per avere una sua qualche reazione, ma non ci riesco perché mi sento debole, confusa e ferita.

«Va bene, come vuoi, non importa», mormoro.

In realtà importa eccome, ma non ho intenzione di stare lì impalata come un baccalà ad aspettare una risposta che sono certa non arriverà.

Esco dalla cucina e vado in fretta in camera di Edoardo per recuperare il cellulare e la borsa. Improvvisamente sento l'impellente bisogno di uscire e di tornarmene a casa, per cercare di dare un senso a quello che è appena successo.

Mi sfilo la tuta che Edoardo mi ha imprestato e di malavoglia rimetto il vestito e le scarpe di ieri sera, prendo il cellulare appoggiato sul comodino e praticamente scappo verso l'ingresso.

Solo nel momento in cui afferro la maniglia, Edoardo sembra ricordarsi di me perché vedo una sua mano appoggiarsi con forza alla porta.

«Ali, aspetta».

Mi irrigidisco, «Edoardo», scandisco il suo nome con calma, con un tono di voce che userei per parlare a un estraneo e non al ragazzo di cui sono follemente innamorata. «Lasciami uscire».

«No», ribatte risoluto posando anche l'altra mano sulla superficie alle mie spalle e ingabbiandomi con il suo corpo.

Mi volto quindi nella sua direzione, appoggiando la schiena alla porta e alzando il viso verso il suo. Di solito questa vicinanza mi farebbe battere forte il cuore e scatenare le farfalle nello stomaco, ma questa volta mi fa mancare il fiato e non in maniera positiva.

Mi sento in trappola e voglio scappare.

«Edoardo, se non hai una buona ragione da darmi, fammi uscire da qui. Subito», sibilo quasi senza fiato.

Nei suoi occhi leggo una battaglia, sembra che stia soppesando diverse cose, «Ali, posso spiegarti».

«Ah sì?», incrocio le braccia. «Perché a me non sembra che tu voglia darmi una spiegazione», ribatto caustica, alzando il mento in segno di sfida.

«Io...», inizia a parlare, ma poi si ferma, prende un sospiro e scuote la testa, abbassandola poi con fare sconfitto. I suoi capelli castani ricadono mossi sulla sua fronte, andando a coprire il suo sguardo preoccupato. Respira piano, alzando e abbassando le spalle e io trattengo il fiato, aspettando che dica qualcosa, qualsiasi cosa che mi spieghi questa situazione surreale.

«Tu cosa?», lo incalzo. «Tu cosa Edoardo? Cosa?», sento gli occhi riempirsi di lacrime. «Perché mi hai nascosto una cosa del genere?», mi manca il fiato, «Ti prego, lasciami uscire», ho la voce sottile, è quasi un sussurro, ma lui lo sente forte e chiaro.

Riduce la distanza tra i nostri corpi, «Ti prego, non andartene», replica lui, ribaltando la mia richiesta.

E vorrei restare, abbandonarmi tra le sue braccia e farmi dire che tutto va bene, che quello che ho sentito al telefono ha una semplice spiegazione, che non mi ha detto niente perché non poteva per qualche stupido accordo di riservatezza, o che ne so, qualsiasi altra cosa che comunque comprendesse tutto tranne questo silenzio che mi sta riservando.

Edoardo stacca una mano dalla porta alle mie spalle e la avvicina al mio viso, ma mi scosto perché so che se in questo momento mi toccasse le lacrime che stanno litigando per uscire dai miei occhi romperebbero gli argini.

La cosa lo ferisce, glielo leggo nello sguardo, vedo nelle sue iridi verdi il dispiacere che questo mio gesto gli provoca. Ma è forse proprio per questo motivo che si allontana di un passo, lasciandomi finalmente l'aria per riprendere fiato e rilasciare il respiro che non mi ero accorta di star trattenendo.

Edoardo abbassa le spalle abbattuto, ma non mi concedo il tempo di cambiare idea ed esco velocemente dalla porta di casa, dimenticandomi addirittura di indossare la giacca.

L'aria gelida mi colpisce le guance come uno schiaffo e un brivido mi scuote fino alla punta dei piedi, ma non ho intenzione di tornare indietro e recuperare il cappotto. Mi stringo le braccia intorno al busto per cercare di scaldarmi un po', mentre percorro il vialetto e mi dirigo in fretta verso la fermata della metropolitana più vicina.

Con soltanto il vestito da sera addosso, non faccio altro che attirare gli sguardi curiosi dei passanti che si fermano o si voltano al mio passaggio. Siamo in pieno febbraio, sto indossando un vestito lungo e sbracciato, il cielo è coperto e minaccia pioggia, è ovvio che io stia attirando l'attenzione su di me, ma, per come mi sento, è l'ultima cosa che vorrei.

Arrivo a Cadorna sempre più intirizzita dal freddo e la cosa non fa che peggiorare quando grosse gocce di pioggia iniziano a bagnare il marciapiede.

Mi dirigo velocemente verso le scale della metro, ma scivolo su una grata e cado.

Ci mancava solo questa.

Le lacrime che ho trattenuto a stento per tutto questo tempo minacciano sempre più di tracimare, ma mi faccio forza, perché so che se mi lasciassi andare adesso, potrei restare per sempre per terra, senza avere la forza di alzarmi.

Inizio ad alzarmi, ma vengo però prontamente aiutata da un taxista, fermo a pochi metri da me che, preoccupato, mi si avvicina.

«Signorina, tutto bene?», è un uomo di una certa età, ha una zazzera di capelli bianchi in testa e un baffo importante. «Ma cosa fa con questo freddo in giro senza giacca? Si prenderà sicuramente un malanno, venga si tiri su».

L'uomo mi tira delicatamente su, prendendomi sotto i gomiti, «Si è fatta male?», domanda.

«N-no», batto i denti dal freddo. «G-grazie, ora devo andare a casa».

«Ma si figuri, venga, la accompagno io, con questo freddo non le faccio prendere la metropolitana senza un cappotto».

Non ho le forze per ribattere e la prospettiva del riscaldamento della macchina è troppo allettante per dire di no. Mi apre la portiera, si assicura che io sistemi il vestito nella macchina prima di chiuderla e fa il giro prendendo posto alla guida.

Alza subito il riscaldamento dell'auto e mi lancia un'occhiata dallo specchietto retrovisore, aspettando che io gli dica la via.

«Grazie mille, davvero».

Mi rivolge un sorriso gentile, mettendo in moto il taxi, «Ma si figuri, per così poco, non avrei potuto lasciarla lì...», fa una pausa e poi mi rivolge un altro sguardo. «Problemi di cuore?».

«Qualcosa del genere», mi stringo nelle spalle, facendogli intendere che non mi va tanto di parlarne.

Annuisce e resta in silenzio, mi appoggio meglio allo schienale e rivolgo lo sguardo al finestrino: la pioggia ha incominciato a scendere copiosamente e batte aggressiva sul vetro e sulla carrozzeria dell'automobile. Non vedo l'ora di essere a casa, buttarmi sotto a una doccia bollente e cercare una maniera per non pensare.

Come se fosse possibile, poi. Una tempesta di pensieri si agita nella mia testa, martellandomi sulle tempie e causandomi un mal di testa con i fiocchi.

Spero solamente di essere sola a casa e che le mie coinquiline siano a lezione, non credo che avrei la forza di affrontarle adesso e di dare una qualche spiegazione a una faccenda di cui non so assolutamente nulla, visto che Edoardo non è riuscito nemmeno a parlarmi.

Edoardo... una fitta mi pugnala il cuore al solo pensiero del suo silenzio.

Stringo forte gli occhi e cerco di calmare il respiro per evitare che le emozioni mi inondino e io scoppi a piangere di fronte a questo sconosciuto così gentile. Ma è difficile, è difficile fermare le lacrime, dopo che le ho trattenute così a lungo, tanto che una, una maledetta lacrima solitaria, tracima e bagna la mia guancia destra.

Mi affretto ad asciugarla, ma l'autista la nota e, una volta sotto al mio palazzo, accosta voltandosi nella mia direzione e guardandomi con un'espressione dispiaciuta.

Per evitare il suo sguardo, frugo nella borsa e metto subito mano al portafoglio, ma lui scuote la testa.

«Ma si figuri signorina, non le faccio mica pagare la corsa», mi rivolge un sorriso gentile, nonostante l'espressione dispiaciuta che ha sul volto.

Protesto, ma lui è irremovibile; gli sorrido allora anche se flebilmente e metto mano sulla maniglia per aprire la portiera e uscire, ma l'uomo richiama ancora una volta la mia attenzione.

«Le dico solo una cosa signorina, e mi permetto di usare il "tu" per un attimo perché credo lei abbia la stessa età di mia figlia», un altro sorriso, paterno e gentile, prima di sganciare la bomba.

«Chiunque ti stia facendo piangere, non ti merita».

Resto senza fiato.

Queste semplici parole mi colpiscono come un tir in corsa e mi fanno girare la testa.

Queste esatte e testuali parole sono le prime che mi ha rivolto Edoardo mesi fa, su quel treno ad alta velocità che ha cambiato per sempre la mia vita.

🥺

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