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Buona ultima domenica di agosto!

Siamo ufficialmente a -2 e io non sto più nella pelle! Ci saranno un paio di sorprese che spero vi piaceranno:)

Per scrivere questo capitolo, in particolare la prima parte, mi sono ascoltata una marea di canzoni tristi, proprio dalla playlist "Canzoni Tristi" di Spotify, che vi lascio qui, nel caso volesse essere nel mio stesso mood.

https://open.spotify.com/playlist/37i9dQZF1DX0eXqYHdgDwI?si=abcb37a3fc3540df 

Non preoccupatevi comunque, non soffrirete per tutto il capitolo;)

Buona lettura!

Un bacio e a presto,

Ali.

***


Alice

Vuota.

Intorpidita, intontita, fiacca, debole, ma soprattutto vuota. E svuotata.

Vuota come un guscio caduto dal nido, vuota come una conchiglia sbattuta sulla battigia dal mare in tempesta, vuota e svuotata dalla voragine che mi si è aperta nel petto da quando ho pianto anche il mio cuore.

Mi sono concessa un solo pianto in realtà, quello dopo la corsa in taxi e le parole del taxista, le stesse che mesi e mesi prima mi aveva rivolto lui.

Quando non era altro che un passeggero incuriosito e preoccupato, quando non era altro che un tipo con gli occhi chiari e i capelli ribelli, quando non era altro che uno sconosciuto che leggeva un libro ai tornelli della metro, quando non era altro che un sognatore con uno stereo in una mano e l'invito a ballare nell'altra, quando non era altro che un incontro fortuito in un museo parigino, quando non era ancora il ragazzo che mi ha toccato l'anima e il cuore, colorando la mia vita con sfumature che mai avrei immaginato di vedere.

Chiunque ti stia facendo piangere, non ti merita.

Due frasi, otto parole, che non hanno fatto altro che ripetersi nella mia mente, ancora e ancora.

Come un mantra, una litania, ancora e ancora, sotto a quella doccia bollente come le lacrime che mi rigavano il viso.

Marta mi ha trovata così, sotto alla doccia, con ancora addosso il vestito della sera prima. Non ha fatto domande, nonostante le abbia letto l'evidente preoccupazione negli occhi quando mi ha vista rannicchiata sotto il soffione di acqua calda che batteva impietosa su di me come la pioggia grigia e fredda di Milano.

Ha aperto delicatamente l'anta del box, ha chiuso il getto e mi ha stretta a sé prima di aiutarmi ad alzarmi, asciugare le mie lacrime, uscire dal vestito e portarmi dei vestiti puliti.

Non ha detto nulla, non mi ha chiesto niente, si è limitata a coccolarmi, asciugarmi i capelli e farmi trovare una tazza di tè caldo sul mio comodino.

Chiunque ti stia facendo piangere, non ti merita.

Sono state uno schiaffo a mano aperta sul viso, un pugno in pieno petto che mi ha tolto il fiato, che mi sembra di star trattenendo da quando sono uscita di corsa dalla sua porta, lasciandolo sulla soglia, con lo sguardo addolorato e una mano sospesa a mezz'aria, pronta a toccarmi il viso.

Sono passati sette giorni, sedici ore, quindici minuti e trenta secondi.

Sette giorni, sedici ore, quindici minuti e trenta secondi, in cui non mi sono concessa nemmeno per un attimo di provare una qualche emozione.

Nulla.

Ho imbrigliato, imbottigliato e chiuso a doppia mandata qualsiasi sensazione o sentimento.

Sono andata a lezione, ho studiato – o almeno ci ho provato, vista la mia inesistente concentrazione – ho provato a buttare giù qualcosa, sotto insistenza delle mie coinquiline, ma ogni boccone era senza sapore e mi nauseava.

In casa tutte mi hanno girato attorno, hanno orbitato intorno a me, cercando di abbattere la muraglia cinese che mi sono nuovamente costruita addosso, ma più provavano a scalfirla con qualche loro domanda, più la ergevo in alto.

Sono preoccupate.

Vedo la loro preoccupazione nei loro sguardi, nei loro gesti, nei loro non detti, ma io, da codarda quale sono, non affronto nessun tipo di discorso e mi rinchiudo in camera mia non appena provano solo ad accennare a... Edoardo.

Una stilettata mi trafigge il cuore.

Succede tutte le volte che mi concedo anche solo di pensare al suo nome. Il che capita più spesso di quanto vorrei, visto che nell'ultima settimana non ha fatto altro che chiamarmi, scrivermi, cercare di contattarmi e il suo nome, insieme alla sua fotografia, hanno fatto capolino sullo schermo del mio cellulare.

Sono state oltre settecento quarantacinque le chiamate e oltre mille i messaggi, ma non ho avuto la forza e, soprattutto, il coraggio di rispondere perché sono una codarda. Una codarda che preferisce mettere la testa sotto alla sabbia piuttosto che affrontare la realtà e le proprie emozioni.

Sono spaventata, temo che quello che lui potrebbe dirmi, raccontarmi e spiegarmi mi possa fare del male e ho il terrore di soffrire, ancora e ancora.

So che non è un comportamento maturo, ma non posso farci niente.

Non trovo sollievo, nemmeno dai miei amati libri o dalla musica, non tocco una pagina da giorni, non riesco a sentire nemmeno una nota.

Sono patetica.

Sono come una delle innumerevoli protagoniste frignone dei romanzetti rosa che ogni tanto mi concedo. Le ho sempre biasimate, pensando che avrebbero dovuto reagire, darsi da fare e non piangersi addosso. Ho sempre pensato che avrebbero dovuto lottare con le unghie e con i denti per il ragazzo che amavano, per le loro emozioni e sentimenti, e non restare inermi e in balia degli eventi. Ho sempre creduto che io, nella loro situazione, mi sarei comportata diversamente e invece sono esattamente come loro, se non peggio.

Sono in camera mia, seduta sulla sedia di fronte alla scrivania e avvolta da una coperta perché sento freddo, un freddo che mi si insinua nelle ossa, nonostante la primavera e il bel tempo siano alle porte. Il cielo fuori dalla mia stanza, infatti, è limpidissimo: il sole splende luminoso e mi sento quasi beffata da tutto ciò perché dentro il mio cuore è un novembre uggioso, è un pieno inverno, è un Natale senza luci.

Distolgo lo sguardo dalla finestra e torno a concentrarmi sul libro che ho aperto davanti a me, il manuale del prossimo esame, sul quale dovrei studiare, ma le parole si accavallano, si ingarbugliano come i miei pensieri che corrono lontani dalla pagina e si avviluppano in contorte elucubrazioni.

Un trambusto improvviso al di là della porta chiusa di camera mia mi fa tendere le orecchie e mi tira fuori dalla spirale dei miei pensieri.

Non c'è stato altro che silenzio nell'ultima settimana in casa; le mie coinquiline hanno parlato ovviamente tra di loro, ma sempre a bassa voce, come se avessero avuto paura di alzare troppo il volume. Probabilmente sono stata uno degli argomenti principali delle loro conversazioni, ma non le biasimo: è stato davvero difficile avermi accanto negli ultimi giorni.

Esco da camera mia e vado in salotto per vedere che sta succedendo: trovo la porta spalancata, le mie coinquiline assiepate all'ingresso e Giulia, a dir poco furiosa, sulla soglia. Non l'ho vista per tutta la prima settimana di lezione perché è stata via con la sua famiglia e diciamo che non ho tenuto propriamente d'occhio il cellulare. Ho eluso anche le sue telefonate e messaggi per la maggior parte, quindi il suo umore è più che giustificato. Non posso proprio biasimarla.

«Oh, ma guardate chi emerge dall'oltretomba! Chi non muore si rivede, eh?», Giulia esordisce caustica, lanciandomi uno sguardo di fuoco. «Si può sapere dove accidenti hai messo il cellulare? Ti devo forse ricordare che cosa succede oggi?».

Corrugo la fronte, confusa, non capendo a che cosa faccia riferimento. Se devo essere sincera non so nemmeno che giorno sia, di preciso. I minuti, le ore, i giorni non sono stati altro che un flusso di vuoto: vuoto e annebbiamento.

Giulia alza gli occhi al cielo e si batte una mano sulla fronte, «Prontooooo! C'è il concerto di Harry! Hai presente Harry, no? Alto, castano, occhi verdi, pieno di tatuaggi, fossette maledette e sguardi che ti uccidono?», gesticola per rimarcare la descrizione appena conclusa.

Sbianco.

Harry.

Il concerto.

Cazzo.

Oggi è il giorno del concerto, uno dei giorni che attendevo con più ansia e non me ne sono nemmeno resa conto.

Me ne sono addirittura dimenticata.

«Harry sai, il ragazzo di cui sei follemente innamorata, o almeno lo eri prima di incontrare...», ma lascia cadere il discorso quando si rende conto di aver fatto una gaffe, che mi trafigge come un pugnale.

Edoardo, Harry...

Giulia non sa nemmeno che cosa sia successo davvero con Edoardo, nessuno sa davvero i dettagli della discussione o del motivo principale mio umore degli ultimi giorni. Sa qualche cosa, ma solo briciole in realtà, dal momento che io non ho detto molto. Forse ha parlato con le mie coinquiline, chissà.

Non che loro sappiano molto di più, nessuno sa che c'entra Harry, che ho parlato al telefono con lui e che, in fin dei conti, lui è il motivo della nostra litigata. Lui e il mutismo di Edoardo alla mia semplice richiesta di spiegazioni.

Devo avere un'espressione sconvolta in viso perché Giulia e le mie amiche spalancano tutte gli occhi e mi si avvicinano preoccupate.

Sento un improvviso giramento di testa e mi appoggio allo schienale del divano con una mano.

«Forza siediti», mi cinge il bacino Marta e mi fa sedere sul divano. «Hai mangiato qualcosa oggi?».

Mi stringo nelle spalle.

No, non ho mangiato nulla oggi, non avevo fame.

Chiara sbuffa, «La domanda giusta è: hai mangiato qualcosa negli ultimi giorni?», incalza incrociando le braccia al petto e alzando un sopracciglio dubbiosa. «Perché a me sembra che tu sia andata avanti a tè e basta».

«Già», si aggiunge con un sospiro Arianna. «Non hai buttato più giù niente».

«N-non ho fame», balbetto stringendo i denti per contrastare il senso di nausea che mi attanaglia lo stomaco e il capogiro che mi confonde.

«Stronzate!», tuona Chiara e tutte ci voltiamo nella sua direzione. La mia coinquilina è decisamente scocciata, i suoi occhi sono furenti di rabbia, i capelli scuri sembrano la criniera di una leonessa inferocita.

«Chiara, per favore», cerca di rabbonirla Marta, seduta vicino a me.

«No Chiara un cazzo!», la liquida alzando la voce. «Sono giorni che ci muoviamo come se fossimo sulle uova, che non parliamo a voce troppo alta e che assecondiamo il suo umore. Ora basta», mi lancia uno sguardo che mi trafigge, ma poi probabilmente si rende conto della mia espressione vacua e si calma, prendendo un respiro profondo.

«Ali, ascoltami, mi dispiace. Mi dispiace che tu stia male, mi dispiace che tu abbia litigato con Edoardo, ma non risolvi nulla a comportarti così. Non mangiare, reprimere le lacrime e comportarti come uno zombie non porta a nulla, se non a farti del male e fare del male a Edoardo», il suo tono di voce si addolcisce man mano che parla. «E sì, se te lo stia chiedendo, l'abbiamo sentito: quel povero ragazzo è disperato», fa una pausa e si sistema la montatura degli occhiali sul naso.

«Ora, questo litigio non ha senso, non ha senso che non parliate, che stiate male e che vi porti a questo. Che porti te a non mangiare e impallidire solo a sentirlo nominare e che porti lui a continuare a passare qui sotto sperando di trovarti. Non dopo tutti i mesi che avete passato insieme, non dopo che ti abbiamo vista sbocciare giorno dopo giorno in sua compagnia, non dopo tutta la fatica che ti ci è voluta per abbattere i tuoi muri», continua a parlare, snocciolandomi tutta una serie di buone ragioni per le quali dovrei smettere di comportarmi così.

«Questa situazione dovete risolverla, perché non è salutare per te, Edoardo e per noi che ti vediamo ormai da giorni comportarti come se ti mancasse l'aria».

È così, Chiara, mi manca l'aria.

Mi manca l'aria da quando mi sono scostata dal suo tocco.

Le parole della mia amica sono forti, incisive, ma sono anche vere, tragicamente vere.

«Tu lo ami?», mi domanda poi a bruciapelo.

E io, senza un minimo di esitazione, le rispondo di sì.

Sì, sì, sì, mille volte sì, nonostante tutto, nonostante la litigata, nonostante i miei, i suoi, i nostri sbagli.

Perché è così, lo amo, senza se e senza ma.

«Quindi», fa una pausa solenne. «Ora alzi quel tuo culo secco, ti butti in doccia, mangi qualcosa ed esci con Giulia a vedere questo santissimo concerto, per il quale ci hai fatto una testa così negli ultimi tempi. E poi fresca e rigenerata da questa bella scarica di endorfine, sistemi le cose con Edoardo, intesi?», mi punta come un falco.

«Ma in realtà non dovrebbe...», esordisce e si intromette Marta, ma Giulia e Arianna la fulminano con uno sguardo omicida che mi confonde, ma Chiara è svelta a richiamare la mia attenzione prendendomi il mento e voltando il mio viso nella sua direzione.

«Intesi?».

Annuisco, incapace di fare alcunché.

Mi rivolge un sorriso soddisfatto, «Ottimo, ora muoviti! Al resto pensiamo noi».

Mi fa alzare dal divano e mi spinge verso la porta del bagno, incitandomi a entrare in doccia.

«Hai esattamente dieci minuti per lavarti, partiamo di casa entro mezz'ora», mi informa Giulia prima di chiudere la porta del bagno e lasciarmi sola.

Mi guardo allo specchio: ho una faccia da spavento, con la pelle tirata sulle guance, un pallore malsano e delle profonde occhiaie.

Vedermi così, fiacca e sbattuta, mi dà però un'improvvisa carica e una svegliata: prenderò il coraggio a due mani e risolverò questa situazione, perché – come ha detto Chiara – non ha senso, non ha senso stare male per una litigata che in fondo era sciocca. Non ha senso stare così quando non ho fatto nulla se non piangermi addosso e nascondere la testa sotto alla sabbia, evitando il problema e girandoci attorno.

Motivata da questa convinzione, faccio la doccia in pochi minuti ed esco dal bagno per andare in camera a vestirmi. Trovo Giulia, con il vestito cipria pronto sul letto.

«Non fare storie», mi intima ancora prima che io apra bocca e possa protestare sulla scelta dell'abito. «Metti questo dannato vestito e non fiati, okay?».

Alzo le mani in segno di resa, non ho voglia di fare storie, non dopo la settimana appena trascorsa. Non le faccio nemmeno notare che lei non indossa nessun vestito, contrariamente a quello che mi aveva detto quando mi ha trascinata a compare questo qui. Non ho le forze per iniziare una discussione.

«Ottimo, mi piaci quando sei collaborativa», mi rivolge un sorriso compiaciuto. «Ora vestiti e raggiungici in cucina, c'è un toast che ti aspetta».

Poi guarda l'orologio, prende il cellulare e digita qualcosa sullo schermo, «Quindi minuti e siamo fuori», mi ricorda e poi esce.

Mi vesto in fretta, spazzolo i capelli e metto un filo di trucco, giusto per nascondere le occhiaie e dare un po' di colore al viso. Mi guardo allo specchio della camera e il riflesso, nonostante non sia straordinario, è decisamente migliorato rispetto a venti minuti fa. Ho gli occhi più luminosi, le guance più colorate e un'espressione meno abbattuta e più umana di quella da spavento che avevo prima di entrare in doccia.

Recupero quindi il cellulare e una borsa e vado in cucina; addento il toast che Marta mi porge e nel giro dei quindici minuti indicatimi, io e Giulia stiamo salutando le mie coinquiline dalla porta.

«Mi raccomando divertiti», mi dà un bacio sulla guancia Arianna.

«Sì, esatto e fai dei video, che poi vogliamo guardarli», Chiara lancia uno sguardo d'intesa a Giulia che annuisce e le fa un occhiolino.

Marta, tra le tre, sembra quella più euforica perché lancia un gridolino e mi si lancia addosso per stringermi in un abbraccio spaccaossa che mi lascia perplessa, «Fai la scelta giusta, mi raccomando!».

«Okay, okay», mi trascina Giulia verso l'ascensore. «Dobbiamo andare».

Entriamo, ma prima che le porte si chiudano vedo Arianna lanciare uno sguardo di rimprovero a Marta, «Ma che ti ha preso? Ci mancava poco che...», ma poi l'ascensore si chiude e scende verso il pianterreno.

Giulia sbuffa e alza gli occhi al cielo quando le lancio uno sguardo interrogativo.

«No, non chiedere, ma fidati di noi per una buona volta, senza fare le tue duecentomila solite domande».

La guardo e alzo nuovamente le mani in segno di resa, come ho fatto poco fa quando mi ha intimato di non fare storie sul vestito, «Va bene».

Non polemizzerò come mio solito e non farò le mille domande che farei di solito, ma lascio correre e decido di godermi la serata.

Mi guarda in tralice e poi si lascia andare a un sorriso ampio, genuino e dolce, «Lo sai che ti voglio bene, sì?».

Un moto di affetto mi si propaga dal cuore fino alla punta dei piedi, «No, te no», la prendo in giro, come faccio ogni volta che mi rivolge frasi del genere, e lei di tutta risposta sbuffa una risata e mi prende per mano conducendomi fuori dal palazzo e verso la fermata della metropolitana vicino a casa.

L'aria è più calda di quanto mi aspettassi e una leggera brezza mi alza appena il vestito. Un senso di pace, dopo una settimana di tempesta, quieta il mio animo; un sorriso genuino sboccia finalmente sulle mie labbra e un gridolino di eccitazione per il concerto mi nasce dalla gola.

Accelero il passo e Giulia mi tallona, «Guarda un po' chi sembra risorta finalmente dal mondo dei morti».

Ridacchio e faccio le scale della fermata quasi volando, fino a salire sulla metro verso Cadorna.

Sono eccitata, leggera e impaziente di godermi una bella serata e lasciare che il buonumore sia l'emozione che mi accompagnerà per tutta la notte. E domani, dopo quella che penso sarà una scarica di endorfine, sarò pronta a parlare con Edoardo e sistemare le cose tra di noi, ammettere le mie colpe e chiedere scusa per il mio comportamento avventato e, perché no, infantile.

Sono pronta ad ascoltarlo, lasciargli il tempo di spiegarsi e chiedergli mille volte scusa per essermi comportata così, per non aver risposto alle sue telefonate o ai suoi messaggi. Sono pronta a dirgli che mi sono arrabbiata per il suo silenzio, per non avermi saputo rispondere, e che tutto ciò mi ha fatto fare mille pensieri, trarre conclusioni affrettate e sbagliare.

Ma voglio chiedergli scusa.

E voglio dirgli che, se mi vuole e vorrà ancora, sono pronta a stare con lui, ufficialmente. Voglio chiedergli di diventare il mio ragazzo. Voglio che lo sia con ogni fibra del mio essere, voglio poter dire che è davvero mio, senza se e senza ma.

Voglio che Edoardo sia il mio fidanzato.

Mi si scatena un nugolo di farfalle nello stomaco e mi sento come percorsa dalla corrente al solo pensiero tanto che non riesco a stare ferma durante la corsa in metro, batto nervosamente il piede e conto le fermate che ci mancano per arrivare a Cadorna.

Voglio divertirmi stasera, fare il carico di felicità e godermela per poi domani essere pronta a parlargli o fargli una qualche sorpresa per togliergli il fiato come fa sempre lui a me.

Ma quando finalmente arriviamo a Cadorna e percorriamo il raccordo per cambiare linea e prendere la verde in direzione del Forum, verso Assago, il mio cuore si ferma.

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