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Oggi sono passati esattamente due anni da quando ho postato il primo capitolo di questa storia.Due anni che sono iniziati nel migliore dei modi e che poi si sono trasformati in quelli più strani della vita di tutti, con una pandemia, diversi lockdown e una serie di eventi che spero ci siamo lasciati alle spalle.

Questo che posto ora è l'ultimo capitolo di "Incipit" e vi giuro che mai avrei pensato di arrivare fino a qui, di portare a termine una storia iniziata per caso dopo un incontro fortuito con un ragazzo fermo ai tornelli della metropolitana.

Sì, se ve lo state chiedendo, quella scena è tratta dalla realtà, ma poi tutto il resto ovviamente no (magari lo fosse!).

Spero però sempre di poter incontrare il mio Edoardo, come lo auguro a tutti voi. Perché tutti ci meritiamo qualcuno che ci faccia sentire speciali, che ci ami per quello che siamo, con drammi e paranoie varie, e ci arricchisca.

Vi voglio ringraziare per essere arrivati fin qui, spero che quest'ultimo capitolo vi possa piacere tanto quanto è piaciuto a me scriverlo.

Un abbraccio e a presto,

Ali. x

***

Alice

La mia storia finisce con una metro e una stazione.

Mi sono sempre piaciute le stazioni e le metro: una miriade di persone le attraversa, storie si scambiano, persone si incontrano.

Si stima che per la metropolitana di Milano passi almeno un milione di persone al giorno.

Un milione.

Quante sono un milione di persone? Non riesco nemmeno a immaginarlo figurarci a concepirlo.

Eppure, è così: un milione di persone passa per le stazioni, i binari, le banchine.

Un milione di vite, storie, teste che pensano miliardi di pensieri.

Persone che si incrociano, si scambiano cenni e sorrisi, che si ritrovano, che si salutano.

Persone che intrecciano i lori destini, che si legano, si annodano.

Tra questo milione di storie, io ho trovato la mia.

Una storia forse non fuori dall'ordinario o memorabile per gli annali di storia, ma abbastanza bella da essere vissuta.

E proprio come è iniziata, tra i binari, una stazione e un treno, continua a vivere tra le fermate di una metropolitana, alla stessa fermata dove ho incontrato Edoardo per la terza volta di fila in due giorni; questa volta però in direzione di uno dei capolinea della linea verde.

Ci sono otto fermate da Cadorna ad Assago, all'incirca una quindicina di minuti per percorrere la distanza tra i due punti in metropolitana, un viaggio breve per qualsiasi passeggero, ma non per me.

O almeno, non per me oggi.

Per me, il viaggio, che non è nemmeno ancora iniziato perché sono ancora ferma sulla banchina, sembra durare molto di più, ore, giorni, mesi.

Mesi passati, trascorsi, vissuti, goduti, tra risate, gioie, batticuori, pianti, lustrini, vestiti lunghi, calde coperte, tè, passeggiate, biscotti, cene, fiori, confessioni a cuore aperto, sentimenti sussurrati sulla pelle, a fior di labbra.

Mesi che si sono susseguiti, rincorsi e verso cui mi sembra di tornare indietro nell'esatto istante in cui i miei occhi si posano sull'ultima cosa che mi sarei aspettata di vedere incollata al muro della banchina opposta alla mia, a Cadorna: una foto, una mia foto, anzi la gigantografia di una mia foto.

La osservo a occhi sgranati e con la bocca spalancata e, anziché arrabbiarmi o imbarazzarmi, rimango piacevolmente sorpresa perché non può essere che una sola persona l'autrice di questo scatto: Edoardo.

Non l'avevo mai vista, non sapevo nemmeno che me l'avesse scattata, non me l'ha mai mostrata, eppure riconosco immediatamente il luogo in cui è stata fatta: il treno ad alta velocità Torino-Milano. Il giorno in cui ho incontrato Edoardo per la prima volta.

Il giorno in cui la mia vita è cambiata per sempre.

È un bellissimo scatto, nonostante quel giorno non stessi per nulla bene. Edoardo è riuscito a catturare tutto, dalle mie lacrime, al rossore delle mie guance, alla tristezza che stavo provando in quel momento. Sono ritratta di profilo, appoggiata allo schienale del sedile e avvolta dalla mia sciarpa. Una ciocca di capelli solitaria, scappata dalla crocchia con cui avevo legato i capelli, si arriccia appena sopra al mento e fa compagnia a una lacrima che mi stavo affrettando ad asciugare.

Lascio vagare lo sguardo sul poster e noto, in basso, una frase, «Cuore d'altri non è simile al tuo».

Iride.

È un verso di Iride di Montale, uno dei miei preferiti, uno di quei versi che vorrei tatuarmi sulla pelle, vicino al cuore, per averlo sempre con me.

Sono senza parole, senza fiato, senza la minima idea di quello che stia succedendo.

Batto le palpebre e mi volto, alla ricerca di Giulia, perché mi sono resa conto di essermi fermata in mezzo alla gente, che sta iniziando a lanciarmi occhiate curiose.

La trovo poco più in là rispetto a me, con lo sguardo rivolto già nella mia direzione e con un sorriso compiaciuto in viso. Batto nuovamente le palpebre, cercando di trovare una logica a tutto questo, ma nell'esatto momento in cui faccio per aprire bocca e chiederle spiegazioni – perché con quello sguardo lì, lei ovviamente sa qualcosa – le note di una canzone, e non di una a caso, ma le note di From the dining table, la mia canzone preferita di Harry, risuonano nell'aria.

Ma che diamine sta succedendo?

Spalanco nuovamente la bocca sbalordita e Giulia, ridacchiando, mi fa segno di raggiungerla e lo farei anche, se solo avessi idea di come far muovere le gambe.

Sono ferma sul posto, con il cuore che batte velocissimo, con in testa un miliardo di pensieri e le gambe di cemento, piantate a terra.

Mi si avvicina quindi lei e mi cinge i fianchi con un braccio, stringendosi a me.

«Ma che...», domando incredula, non riuscendo però a formulare una frase di senso compiuto, e lei mi sorride nuovamente.

«Ma che sta succedendo?», mi viene in aiuto e io mi affretto ad annuire, per capirci qualche cosa in più, ma lei fa la vaga, non rivelandomi nulla.

«Ah, non saprei», si stringe appena nelle spalle, per poi lanciarmi uno sguardo fin troppo furbo. «Just you wait and see».

Non ho nemmeno il tempo per replicare o dare peso a quello che mi ha appena detto, citando di proposito Harry, perché arriva la metropolitana e Giulia mi prende per mano e mi fa salire.

Una volta dentro la metro, apro di nuovo la bocca per parlare, ma ancora una volta la mia amica mi precede, «Ricordi di aver alzato le mani in segno di resa e di aver detto "Va bene" alla mia richiesta di non fare domande?».

Annuisco e lei continua, «Ecco, restiamo su questa linea, almeno fino a domani. Goditi la corsa in metro e non fare domande perché tutto ha una spiegazione».

Mi guarda attenta, con uno sguardo risoluto, ma che nasconde una scintilla di emozione che mi convince a darle retta, lasciando correre; non dico niente, anzi prendo posto vicino a lei.

O almeno, resto seduta finché, anche a Sant'Ambrogio, la seconda fermata di questo viaggio, c'è un'altra foto, un altro scatto che non ho mai visto e che mi fa alzare in piedi velocemente.

Ancora prima di concentrarmi sulla foto, leggo altri versi di Montale, questa volta estratti dalla chiusa di Se t'hanno assomigliato: «dove seppellirò l'oro che porto,/ dove la brace che in me stride se, lasciandomi, ti volgi dalle scale?».

Ed è proprio sulle scale di uno delle uscite della metropolitana di piazza Duomo che mi coglie questo nuovo scatto. Sto salendo le scale e uscendo da quella che sbuca a lato della piazza, di fronte alla Rinascente.

Da dove sono uscita il 13 dicembre, il giorno in cui Edoardo si è presentato con lo stereo in mano e mi ha chiesto di ballare.

Mi ritrae a testa alta, con il naso all'insù mentre guardo le luminarie che decoravano la piazza. Faceva freddissimo quella sera, eppure nell'esatto istante in cui Edoardo mi ha stretta per la prima volta tra le sue braccia, mi ha posato il suo palmo caldo sul viso e mi ha quasi baciata, il freddo e il brusio della gente erano scomparsi, come se non fossero mai esistiti.

E poi il flash, e la realtà è tornata prepotentemente all'interno di quella bolla; sono scappata, non mi sono «voltata dalle scale», come nella poesia di Montale, anzi, sono fuggita senza guardarmi indietro, come una ladra.

Quando la metro riparte, con gli occhi ancora pieni di quella foto, lancio uno sguardo nella direzione di Giulia che, ancora una volta, mi sta osservando, come a sondare le mie reazioni.

«Suppongo che ci saranno altre fotografie», le dico accennando un sorriso.

Si stringe nelle spalle e la sua espressione fin troppo furba mi fa capire che è così. Scuoto la testa e mi lascio andare a una risata, «Ma come diamine è possibile tutto ciò?», faccio un gesto verso la galleria buia, prima di arrivare alla stazione successiva, Sant'Agostino.

«Magia», mi risponde con un occhiolino. «Se ti spiegassi tutto che gusto ci sarebbe? Goditela e basta».

E me la godo sul serio.

La fermata dopo mi vede a Parigi, nuovo scatto e nuova tappa della nostra storia. E ancora una volta, non ho la più pallida idea di quando mi abbia fatto questa fotografia e di come non mi sia accorta di nulla.

Sono seduta al ristorante dove abbiamo fatto cena, un gomito appoggiato sul tavolo e una mano sulla guancia. Non guardo in camera nemmeno questa volta: sono di schiena, i miei occhi sono incollati alla vetrata che dava sulla basilica di Sacré-Coeur, che si staglia imponente e magnifica sullo sfondo. Sto giocando distrattamente con il girasole che Edoardo mi aveva appena regalato. Lo stesso che aveva visto tatuato sul mio collo, insieme al verso conclusivo di un'altra poesia di Montale, Portami il girasole ch'io lo trapianti, che è anche riportato sotto al poster incollato a Sant'Agostino, «Portami il girasole impazzito di luce».

Ed è stato proprio un girasole ad avermi tolto il fiato all'inizio di quella serata, perché solo uno come Edoardo avrebbe potuto trovarne uno a dicembre.

È la prima cosa che ho pensato nell'esatto istante in cui i miei occhi l'avevano individuato nella piazza.

Come diavolo era possibile che ce l'avesse in mano? I girasoli non fioriscono in inverno, cercano il caldo e il sole per poi morire con il freddo e sbocciare con il ritorno della bella stagione.

Il mio cuore, quella sera, ha battuto forte per tutto il tempo, le farfalle hanno fatto festa nel mio stomaco e si sono scatenate nell'esatto istante in cui mi ha salutato, posando un bacio delicato sulla pelle della mia fronte e augurandomi la buona notte.

Avrei voluto che quella serata fosse eterna, che non finisse mai, che le stelle e la luna, vedendo quanto fossi emozionata e felice, avessero deciso di restare ancora un po' in cielo a brillare e a farci compagnia.

E ho sperato la stessa cosa la notte della fotografia successiva, quella appesa a Porta Genova, la stessa stazione dove ho visto Edoardo fermo a leggere sul corrimano all'uscita della metropolitana, così concentrato, assorto e bellissimo, tanto che ho pensato che fosse un poeta, uno scrittore d'altri tempi, alla ricerca della giusta ispirazione.

Nello scatto, fatto durante una delle notti di Capodanno più belle degli ultimi anni, nella baita in montagna, ancora una volta non guardo in camera, ma questa volta perché sono addormentata. Arrossisco d'impulso, ricordando ancora come mi sono sentita in imbarazzo la mattina successiva, quando mi sono resa conto di non star dormendo nel mio letto, ma su di lui, sul divano del salotto.

Ed è proprio su quel divano che sono nello scatto: il mio viso è debolmente illuminato dalla luce che proviene dal caminetto, ho le labbra socchiuse e le ciglia, allungate dal mascara, creano un'ombra sulle guance, rosse come al solito. Noto anche la mano di Edoardo e le sue dita lunghe e affusolate che mi scostano gentili i capelli dalla fronte per sistemarmeli in un gesto affettuoso dietro alle orecchie.

E lo stesso gesto, lo leggo anche nelle parole della poesia riportata in calce alla fotografia, «Ti libero la fronte dai ghiaccioli/ che raccogliesti traversando l'alte/ nebulose».

Sono colpita ancora una volta, davvero colpita che abbia citato Ti libero la fronte dai ghiaccioli. Sono impressionata dalla cura che ha usato nello scegliere i versi, come se avesse studiato apposta tutte le poesie di Montale – soprattutto quelle meno note a lettori profani – per trovare i versi giusti per accompagnare le fotografie che mi stanno facendo ripercorrere la nostra storia, una fermata alla volta.

Con il suo linguaggio, la fotografia, mischiato alla poesia – quello che mi piace pensare mio, come linguaggio – mi sta facendo rivivere le tappe più belle dei mesi passati insieme, come se stessi vedendo il film della nostra vita, negli ultimi tempi.

E visto che siamo a metà del viaggio verso Assago, e quindi metaforicamente a metà della storia, ecco che arriva una delle scene più importanti, una delle serate che ricorderò per sempre, soprattutto per quello che è successo quella notte.

A Romolo, infatti, trovo una fotografia scattata alla Scala, anzi, all'ingresso del teatro; e ancora una volta i versi che sono insieme a essa sono decisamente azzeccati, sono tratti da So che un raggio di sole (di Dio?) ancora: «Qui nell'androne come sui trifogli;/ qui sulle scale come là nel palco;/ sempre nell'ombra: perché se tu sciogli/ quel buio la mia rondine sia il falco».

Teatri, scene al buio, scale, la poesia parla di quando Montale ha incontrato al teatro Carignano di Torino una delle sue muse e mi colpisce che implicitamente Edoardo mi stia dicendo questo, che in qualche modo lo ispiri e che sciolga il gelo e il buio della sua vita.

Ma anziché essere dietro al palco del famoso teatro torinese, sono nel foyer della Scala, e, se non mi sbaglio, la foto potrebbe essere stata scattata appena prima che individuassi Edoardo tra tutte quelle persone eleganti, perché sono certa che il mio sguardo nell'esatto istante in cui l'ha individuato quella sera non l'ha più mollato.

Come biasimarmi? Era bello come una mattina di primavera, quella sera, con lo smoking nero, i capelli domati, gli inserti champagne sulla giacca a risaltargli gli occhi verdi.

Quegli stessi occhi chiari che qualche ora dopo la fotografia mi hanno scavato l'anima e mi hanno confessato di amarmi.

Non potrei mai dimenticare la sfumatura di verde che avevano quella sera: color giada, limpidi e sinceri come non mi sembrava di averli mai visti. Davvero mozzafiato.

Ma d'altronde, quando non lo sono?

Nessuna fotografia rende loro giustizia, se non rarissime volte, come quella sera, dopo la cena a La tradizionale, dove strano, ma vero, mi ha permesso di scattargli qualche foto e sono riuscita a catturare – grazie soprattutto alla macchina fotografia e a un pizzico di fortuna – la mia sfumatura preferita degli occhi di Edoardo.

Ma quello di cui parlo non è stato l'unico scatto della serata perché, prima di riuscire a impossessarmi di quell'oggetto malefico che ha sempre al collo, mi avrà scattato almeno un centinaio di fotografie e una di queste la trovo a Famagosta, l'ultima stazione sotterranea.

A differenza degli scatti precedenti guardo finalmente in camera e sorrido, anzi rido di gusto: ho i capelli scompigliati sul cuscino, gli occhi socchiusi e le guance rosse. Non so sinceramente per che cosa stessi ridendo, ma sono contenta che questa fotografia esista perché mi ricorda una bella serata, un bel momento complice tra di noi.

La scelta del verso, poi, ancora una volta mi toglie il fiato: «Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida», preso dall'omonima poesia.

I tuoi occhi erano limpidi Edoardo quella sera, non il mio sorriso, penso tra me e me.

La metro corre veloce, come i miei pensieri: ormai dopo ben sei fermate, altrettante fotografie, credo di aver capito più o meno il fil rouge che le lega tutte e mi aspetto quindi una foto della serata di Gala, perché al di là di tutto il casino della telefonata, del litigio e del mio silenzio resta una delle notti più magiche che abbiamo passato insieme.

Una notte in cui abbiamo volteggiato abbracciati in una delle sale più belle di Milano, dove mi sono sentita una principessa tra le sue braccia esperte, dove tutto sembrava perfetto e giusto.

E non mi sbaglio perché quando usciamo finalmente da sottoterra e arriviamo nella prima stazione scoperta della linea, la penultima prima di Assago, le mie supposizioni diventano certezza: la fotografia è di quella sera, ma questa volta non sono l'unico soggetto dello scatto.

Siamo io e Edoardo e stiamo ballando.

Suppongo quindi che, questa volta, l'artefice dello scatto sia Max e mi segno mentalmente di ringraziarlo non appena lo rivedrò perché è davvero stupenda.

Trattengo il respiro e mi beo della bellezza di questa fotografia, delle nostre pose, dei nostri sguardi. Siamo entrambi calamitati verso l'altro, come due poli opposti che si attraggono; siamo belli insieme, belli e felici e io non posso che pensare a quanto sia stata una stupida nell'ultima settimana, a quanto me la sia presa, a quanto ci sia stata male e a quanto tempo abbia perso senza di lui.

E la poesia che accompagna la foto poi non fa altro che esprime perfettamente la sensazione di vuoto totale che io, ma che credo entrambi abbiamo provato negli ultimi sette giorni: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/ e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino».

Montale, Mosca e gli Xenia. La perdita di una persona amata, il vuoto provato a non avere l'altro al proprio fianco.

Mi vengono le lacrime agli occhi, le sento lì, pronte a tracimare e bagnarmi le guance. Sono lì le maledette, ma hanno un sapore diverso da quelle amare che ho buttato giù negli ultimi giorni, sono lacrime di liberazione, dal peso che ho portato sullo stomaco nell'ultima settimana.

Giulia, che è rimasta in silenzio vicino a me per tutto il tragitto, si accorge del cambiamento di umore e posa una mano sulla spalla, «Ehi, Ali, tutto bene?».

La guardo e lei notando le mie lacrime mi sorride perché, come al solito, ha capito le mie emozioni e sa che non sto piangendo per tristezza o dolore, ma per pura e semplice emozione.

«N- non mi merito un ragazzo così», dico con voce spezzata. «Non me lo merito proprio».

Edoardo ha messo in piedi una cosa fuori dall'ordinario per cercare di sistemare le cose tra di noi, per dirmi ancora una volta che mi ama e l'ha fatto nel più bello dei modi, usando la sua più grande passione e unendola alla mia.

«Oh invece te lo meriti eccome, come lui merita te», mi stringe le spalle con un braccio. «Vi meritate entrambi, meritate di stare insieme ed essere felici perché siete due persone straordinarie, buone e gentili. E poi tu lo ami e lui ti ama», mi fissa con i suoi occhi scuri, con una sicurezza tale che non posso che darle ragione. «Ma non sono io a doverti dire tutte queste cose, qualcun altro lo deve fare per bene», mi rivolge un sorriso sibillino e quando arriviamo finalmente ad Assago prende svelta la mia mano e mi conduce oltre i tornelli, fuori dalla stazione, verso la passerella sospesa che collega la metropolitana al Forum.

Ma prima di percorrerla, si volta, fa voltare anche me e mi guarda negli occhi, posandomi le mani sulle spalle, «Vai avanti da sola, ci vediamo più tardi».

Corrugo la fronte, non capendo il perché di questa sua richiesta, ma quando mi fa girare di nuovo e mi dà una spintarella verso il sovrapassaggio, capisco il motivo delle sue parole perché lì, in mezzo a tutte le persone che si stanno dirigendo verso il palazzetto, c'è Edoardo con la macchina fotografica in mano, pronto a scattare.

Edoardo

Quindici minuti sono esattamente novecento secondi.

Poco meno di un migliaio di secondi sono un breve lasso di tempo, no?

Cosa sono quindici minuti rispetto a tutta vita di una persona?

Niente, oppure tutto.

Per me, questi novecento secondi sono tutto, perché è proprio in questi quindici minuti che si sta giocando una partita importante della mia vita.

Alice è a Cadorna, come mi ha detto Giulia, e sta vedendo in questo momento la primissima fotografia che le ho scattato, quella sul treno ad alta velocità, quando non era altro che un soggetto mozzafiato per la mia smania di ritrarre le cose belle.

Lei, lì e in quel momento, era una cosa bella; anzi era una delle cose più belle che avessi visto negli ultimi tempi e quindi non ho potuto fare altro che scattarle una fotografia.

E nell'esatto istante in cui ho premuto sul pulsante di scatto ho capito che con lei non mi sarebbe mai bastata una sola volta, che non avrei mai più potuto fare a meno di ritrarla ancora e ancora, nonostante tutte le volte che provassi solo ad avvicinare l'obiettivo a lei puntualmente si nascondeva dietro alle sue mani, a una sciarpa, un cappuccio, a qualsiasi cosa che la potesse celare ai miei occhi e all'obiettivo.

Ma non mi è mai interessato più di tanto e, infatti, nonostante le continue lamentele, la mia macchina fotografica non ha mai smesso di immortalarla, soprattutto quando Alice non era consapevole dell'obiettivo puntato su di lei.

Quelli sono sicuramente i miei scatti preferiti perché riesco a ritrarla in tutta la sua bellezza, semplicità, naturalezza e poi, una volta al sicuro sulla pellicola, possono farle vedere come appare ai miei occhi: meravigliosa e straordinaria.

Ed ecco perché le fotografie che ho scelto per le varie stazioni sono scatti inconsapevoli, che non ha mai visto, ma che immortalano momenti importanti della nostra storia e che la ritraggono in tutto il suo splendore.

Spero che queste, insieme ai versi di Montale, possano farla emozionare, sorridere, gioire e farle capire quanto io la ami. Spero anche che non si arrabbi, ma che si goda il viaggio, metaforico e fisico fino a qui, dove la sto aspettando.

Sono ad Assago, sul ponte che collega la metropolitana al Forum, teso come una corda di violino e con la macchina fotografica al collo, pronto a scattare l'ultima foto della carrellata che costella le varie stazioni da Cadorna a qui.

Voglio scattare l'ultima fotografia della giornata, o almeno la mia ultima fotografia della giornata, per chiudere in bellezza prima del concerto e della sorpresa. Spero, infatti, che ci saranno altre fotografie stasera, ma per una volta non voglio esserne io l'autore, ma voglio fare parte dello scatto, con lei.

In due giorni, io e Max, con l'aiuto anche di Harry, siamo riusciti a sistemare tutto e non posso che essere loro grato per tutto l'impegno che hanno impiegato nel darmi una mano. Abbiamo contattato il comune, stampato e appeso gigantografie per le fermate della metropolitana, sotto lo sguardo curioso dei passanti. Ho chiamato Giulia, le coinquiline di Alice e insieme siamo riusciti a organizzare tutto, fino all'ultimo dettaglio.

Ora c'è solo da sperare che tutto fili liscio come l'olio e che la serata si concluda come spero.

Lo sferragliare della metropolitana mi dice che lo scopriremo presto: Alice deve essere appena arrivata.

La cerco tra le persone che iniziano a confluire verso il sovrappasso, un sacco di ragazzi si stanno dirigendo verso il Forum, felici, chiacchieroni e senza pensieri.

Alcuni mi notano lì fermo e si voltano a guardarmi, ma a me non importa, io sto aspettando solo una persona e quando finalmente la vedo tra i mille volti il mio cuore si ferma.

È bellissima e cazzo se mi è mancata.

I miei occhi si ubriacano della sua figura, percorrono febbrilmente il suo viso, fino a incrociare il suo sguardo.

Alice ha gli occhi spalancati, le guance rosse e il petto le si alza e si abbassa velocemente. Le sorrido e le faccio un occhiolino prima di avvicinare la macchina fotografica al viso e iniziare a scattare.

Ed è attraverso l'obiettivo che la vedo scuotere la testa, sorridere e iniziare ad avvicinarsi velocemente nella mia direzione fino a quando diventa troppo vicina per riuscire a metterla a fuoco.

Sento poi le sue braccia stringersi a me, con forza, e il suo viso infilarsi nell'incavo del mio collo.

«Midispiacemidispiacemidispiace», continua a ripetere con le labbra appoggiate alla mia pelle e io la stringo ancora più forte a me e le poso un bacio sui capelli.

La allontano poi appena, lasciando che la macchina fotografica resti appesa al mio collo, e le prendo il viso tra le mani, accarezzandole gli zigomi, prima di posare finalmente le labbra sulle sue.

Dio, se mi era mancato farlo.

Poco più di sette giorni, ma mi è sembrato una vita.

È un bacio lento, che cresce pian piano, fatto solo di labbra, ma che mi stordisce come pochi, che mi toglie il fiato dai polmoni e l'ossigeno dal cervello.

Ma non mi importa.

L'unica cosa che conta è riaverla finalmente tra le mie braccia, calda, viva e bellissima.

Quando ci separiamo, continuo a stringerla a me e lei nuovamente inizia a scusarsi, ma le poso un indice sulle labbra.

«Ali, smettila. Non c'è nulla per cui tu debba scusarti», le dico sincero.

«Ma...», bofonchia da sotto al mio dito.

«No nessun ma, abbiamo sbagliato entrambi», le sorrido. «E poi, nel caso, qui quello che deve chiedere scusa sono io», le do un bacio sul naso. «Scusami se non ti ho risposto, scusami se non ti ho detto niente, scusami se non ti ho rincorso per la città, ma non potevo dirti niente».

Faccio una pausa e mi lecco le labbra, Alice mi guarda curiosa e attenta, «Ma ne varrà la pena, te lo prometto», le sorrido e lei continua a guardarmi fisso negli occhi, con un'intensità tale che mi sento messo a nudo.

«Con te, ne vale sempre la pena», dice semplicemente e vedo nei suoi occhi passare mille emozioni, una più intensa dell'altra, un universo di pensieri e una risolutezza che mi disarma e mi fa battere il cuore.

«Edoardo», fa una pausa e si discosta di un passo. «Devo chiederti una cosa, ma devo fare le cose per bene».

Rimango un attimo interdetto quando prende un respiro profondo, mi prende per mano e si mette in ginocchio di fronte a me.

Sono senza fiato.

«Edoardo Stigliani», si schiarisce la gola, tradendo un'emozione che a fatica le lascia la voce stabile. «In questi mesi hai fatto per me una serie di cose che mai nessuno avrebbe fatto per una ragazza difficile come me», si lascia andare a una risatina. «Mi hai presa per mano, mi hai fatta sognare, sei entrato nella mia vita in punta di piedi rispettando tutti i miei tempi, mi hai portata a ballare in piazza Duomo, mi hai regalato un girasole nel freddo dicembre di Parigi, mi hai aiuto a sconfiggere le mie insicurezze, le mie paranoie, i miei drammi. Mi hai fatto credere nell'amore di carne, io che ho sempre e solo pensato che quello che provo e sento potesse esistere e vivere solo tra le pagine di un romanzo. Mi hai resa libera e mi hai liberata dalla mia torre di ghiaccio, hai toccato la mia anima come mai nessuno ci era riuscito, mi hai ascoltata tutte quelle volte in cui ho fatto la secchiona e ti ho ubriacato di letture, poesie, romanzi. Hai addiritturastudiato il mio autore preferito per metterlo sui cartelloni di una metropolitana, insieme a degli scatti che mi hanno tolto il fiato», mi guarda da sotto le ciglia scure, restando in ginocchio.

Vorrei dire qualcosa, ma il cuore mi batte talmente forte nella casa toracica che mi blocca la voce, mi ingarbuglia i pensieri, e credo che lei l'abbia capito benissimo perché mi guarda e mi sorride complice.

«Edoardo, tu mi hai fatta innamorare, quando io credevo che mai mi sarebbe potuto capitare; che mai sarebbe potuto capitare a una come me, una troppo spaventata di soffrire e vivere davvero le proprie emozioni», mi stringe i palmi e una lacrima solitaria le riga il viso.

La asciuga in fretta, lasciando che le nostre mani restino intrecciate, e inizia a recitare un altro paio di versi che non conosco, ma che mi fanno venire la pelle d'oca, soprattutto perché è ancora in ginocchio davanti a me.

«Dal tempo della tua nascita/ sono in ginocchio, mia volpe./ È da quel giorno che sento/ vinto il male, espiate le mie colpe».

Fa poi una pausa, abbassa lo sguardo e prende un altro respiro profondo, come a raccogliere un po' di coraggio. E quando alza gli occhi verso il mio viso, mi fa una domanda che mi spiazza, che mi ruba l'aria dai polmoni e mi fa scoppiare il cuore di gioia.

«Edoardo, vuoi essere il mio ragazzo?».

Il tempo si ferma, si dilata, si contorce; tutti i rumori circostanti spariscono e resta solo e soltanto lei, bellissima e fiera, sicura delle sue parole e delle sue azioni e io non posso fare altro che annuire, ancora e ancora, prima di prenderla tra le braccia, farle fare una giravolta e baciarla con tutto l'amore di cui sono capace e con tutto il trasporto che ho.

E quando la poso a terra e il bacio si interrompe, rispondo alla domanda che scombina qualsiasi piano io abbia avuto in testa, qualsiasi proposta in grande, qualsiasi sorpresa fuori dall'ordinario e le rispondo nell'unica maniera in cui potrei mai risponderle.

«Sì».


FERMI TUTTI! C'È L'EPILOGO!

Arriverà presto e avrà un punto di vista speciale;)

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