6. Pheron

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«Fratello!», la sua voce tonante e profonda, nonostante fossero all'aperto, echeggiò sull'ultima sillaba.

Spalancò le braccia, ansioso di stringerlo a sé.

Quanto si era irrobustito, quel ragazzino! Era diventato un uomo fatto e finito. Era alto, alto quasi come lui, conservava quella smorfia di malinconia, quel petto eretto, simbolo di onore e lealtà, le spalle erano diventate spesse come pareti.

Pheron si limitò a seguire ciò che ricordava dell'accoglienza. Non c'era alcuna intenzione di affetto nel suo gesto, sapeva che era giusto così.

Vedendo che l'altro era come pietrificato in una posa contratta di stupore unita a inspiegabile aggressività, mosse un passo in avanti, cercando di invitarlo con un cenno del capo a venire ad abbracciarlo.

L'istinto, non gli suggeriva niente. Forse era stato il petto a dargli consiglio.

Un petto che, mai prima di quel momento, per quanto ricordasse, aveva battuto così forte.

Un rullo di tamburi, come quelli dell'oasi del giardino della principessa, che alla sera, venivano accompagnati dal mormorio dei sacerdoti che recitavano le preghiere ai signori del cielo.

Una sera a settimana, ogni volta differente. Gli indovini scrutavano l'orizzonte, stabilivano borbottando e poi, declamavano la sentenza.

Ci si doveva inginocchiare alle parole e la posizione andava mantenuta con rispetto.

«Principessa!», il pensiero improvviso lo folgorò. C'era una principessa, da qualche parte. Quella principessa era molto importante, un tempo era stato molto affiatato con lei, aveva trascorso momenti intensi di vita che ora non riusciva più nemmeno a rintracciare. Suo fratello aveva fatto parte del tutto, ma in che maniera? Cosa stava accadendo? Perché l'ostilità? Suo fratello era sempre stato tanto irascibile. Si erano dovuti separare, tardi, ma prima erano sempre stati tanto vicini. Nel villaggio natale, c'erano lui, il fratello e la madre. Era un paesello sperduto su brulle colline. Facevano il gioco del nascondino nella stalla delle capre e vinceva sempre l'altro. Che voce. Che silenzio. I passi strisciati lentamente sulla paglia. Lui non riusciva a stare zitto, non riusciva a stare da solo tanto tempo. Voleva stare con gli altri, ridere, raccontare le storie, cantare a squarciagola. Si faceva sempre scoprire.  «Dov'è?», la parola altrui, interruppe il flusso di pensieri. Che voce. Che tuono.

Pheron si accorse di fissarlo negli occhi. Un contatto visivo così fragile. C'erano incertezza e confusione.

Avrebbe riconosciuto quegli occhi tra mille e mille.

Avrebbe riconosciuto quella voce tra qualsiasi altra.

Aveva sempre amato il fratello. Sempre.

Si mossero. Prima uno e poi l'altro, uno indietro, l'altro avanti.

La lama appoggiata alla gola era tanto fredda, che sembrava uno scherzo, uno strano scherzo del destino. Il gelo l'avrebbe ucciso in quel bagno di calore.

Perché il calore era ogni cosa.

Era l'aria, era il suolo, era il suo corpo, era il legame che si era creato tra lui e l'altro individuo, i due in piedi sul tetto del mondo. Rovente. 

«Fratello! Fratello!» annaspò. Cos'era, quella sensazione che lo stava attanagliando al petto? Il fratello premeva il braccio contro il collo e l'arma contro la gola. L'aveva immobilizzato. «Fratello, fratello, ti prego, spiega i tuoi sentimenti ». Era stato tanto veloce che nemmeno l'aveva visto.

Concentrazione, gli serviva, la concentrazione. Chiamandone i mille nomi, però, non ne sentiva la vita.

Dov'era finito, l'inizio di ogni cosa?

«Shantarì!», il grido si soffocò nella presa.

«Shantarì!», la voce si spense alla stretta.

«Shantarì», il sussurro diventò un gemito, la lama affondò nella pelle.

«Zitto», gli intimò quello che doveva essere suo fratello, ma come tale non si comportava.

«Dimmi dov'è lei, o ti taglio la gola», continuò in un ringhio.

«Lei chi?»

«Non fare finta di non saperlo», il fratello, che era rosso in volto, lo spinse a terra.

Principessa, maledetta principessa. Traditrice infingarda e subdola. Sapeva bene che fine avesse fatto, ma non lo voleva ricordare. Più l'avrebbe ricordata, più lei si sarebbe ricordata di lui e di quelle parole che, senza volere, le aveva detto poco prima di rinchiuderla.

Batté la testa. "Shantarì", chiamò con la mente. L'aveva abbandonato.

Che fosse morto? Come poteva un morto essere morto?

Quel sole maledetto lo stava bruciando. Vedeva rosso, rosso come non aveva mai visto. Quale rabbia doveva provare? Solo sconforto. Un liquido caldo stava sgorgando via dalla sua nuca.

«Tu cerchi la principessa», sospirò.

«Non la troverai. Lei, avrà la sua giusta punizione, proprio come me, peccatori, usurpatori di un mondo perfetto. Questo posto non è fatto per anime mortali, gli dei si stanno portando via la mia. Così faranno con quella della principessa e così faranno, anche con la tua», ecco, stava morendo, stava lasciando quel mondo terreno per elevarsi a una prospettiva superiore. Quel mondo terreno, in cui pensava di aver raggiunto il massimo livello di conoscenza, illuminazione e che, gli era stato invece sottratto tutto all'improvviso, Shantarì l'aveva tradito. «Fratello», sospirò.

La lama produsse un clangore improvviso. Era caduta a terra a pochi metri dai suoi piedi. Le mani di quello che sarebbe dovuto essere suo fratello, ma come tale non si comportava, lo afferrarono per il bavero della veste.

«Tu non muori adesso, qui di fronte a me!» gli arrivò un ceffone dritto in viso. «Tu devi rimanere, devi dirmi dove hai messo la principessa», era un ruggito. Nessuna belva che conosceva avrebbe potuto eguagliare quei versi in ferocia.

Un altro ceffone gli spaccò il labbro. Un altro gli piegò il naso.

Quei colpi lo stavano purificando. Una doccia di amarezza e sconforto. Sarebbe diventato più forte.

«Vuoi la punizione?», urlò l'altro, «Resta vivo se ne hai le palle! Non sarà scappando che mostrerai coraggio».

Pheron si sentì solo. Solo come non mai. Detestava essere solo. Gli sembrava di essere così in conflitto, con sé stesso, con il mondo, con colui che era stato molto tempo prima, con colui che era stato poco tempo prima, con colui che era in quel preciso istante; quanti uomini potevano vivere nel corpo di uno soltanto?

Pheron si abbandonò al respiro. Il respiro, di tutto, gli rimaneva. Voleva poter scomparire con uno schiocco di dita, ma non ne ricordava il modo. Non l'aveva mai imparato.. Lasciò che l'aria gli rinfrescasse i polmoni, che passasse tra il cuore e lo stomaco, quindi uscisse in un turbinio dalla bocca. Il tramonto era finito.

Quando sbatté le ciglia, non vi era più rosso sopra di lui, ma il placido blu baciato dalle dolci stelle.





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