1 - EVA, la fata scolorita

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Maggio 1993, Roma

Prima ora: figura disegnata.

I miei compagni di classe, la terza A, sono bastardi e incivili. Però certi sanno disegnare.

La verità è che la maggior parte della gente sceglie il liceo artistico per ripiego, convinta che qui si studi poco e si faccia molto rumore, non sono tutti promettenti Van Gogh o Degas.

Sullo studio non si sbagliano, se hai la media alta in architettura o in figura modellata e sei una sega in matematica nessuno si sogna di bocciarti; ma sul rumore, no, quello non è come si crede da fuori. Il nostro è sordo, lo percepisci solo quando smetti di pensare che stai vivendo e capisci che si tratta di un sogno. E nel sogno fai le cose come ti pare e te ne freghi delle conseguenze. Nel sogno plani, affondi, trovi l'argine e poi la superficie e di solito nel farlo sei solo.

Ci vengono dalle altre scuole per vederci, neanche fossimo animali da baraccone; si affacciano a osservare carovane di noi, colorati, impazziti a correre da una parte all'altra dei corridoi come trottole con grosse tavole al seguito e pennelli e gessi e graffite e bombolette e la puzza d'acrilico che ci precede sempre; il nostro non è il rumore che credono quelli che vengono dal classico o dallo scientifico, il nostro è un rumore di vita che a volte sa di tossico, di chimico, altre è erba, fumo tagliato con la taglierina con cui creiamo le tavole di Ornato quando usiamo il polistirolo. Noi facciamo rumore con le immagini, non con le polemiche.

Deve essere per questo che ho scelto una scuola piena di gente strana, perché io sono nata con un'anomalia genetica e ho pensato che qui non avrei stonato, che qui non sarei stata fuori tema. L'artista tende a essere autoreferenziale, cerca di impressionare gli altri, è indifferente e pieno di sé, tende all'isolamento; nessuno avrebbe fatto caso a me. Ma ho dimenticato di considerare che l'artista impressiona, non fa impressione.

Una luce solare, bollente, proiettata dal vetro si abbatte sulla terza fila e mi colpisce in faccia.

Ora so perché gli idioti dietro stanno ridendo, di sicuro sto cangiando come un fottuto pupazzo di neve.

Quelli che hanno ripiegato sul liceo artistico e sono ordinari, poco creativi, medioborghesi, arrivano a sfottere i loro stessi compagni, li chiamano zecca, tossico, fricchettone di merda, la pensano come le persone che affollano l'autobus e si scansano al nostro passaggio.

E io non sono esente, il mio aspetto impressiona prima che la mia arte.

Per la terza volta prendo le misure alla modella seminuda, coperta solo da un drappeggio, in posa plastica davanti a noi: tonda, seni cadenti, perfetta per il chiaroscuro. Virginia, la mia unica amica, ha lo stiratore attaccato al mio e ci nascondiamo dietro le tavole di compensato posizionate sui cavalletti e stiamo in piedi come delle esperte a cercare l'ispirazione ma lei mi conosce troppo bene e sa che oggi sono altrove. Non posso dirle cosa mi è successo stamattina, non riesco nemmeno a pensarci senza che mi prenda un attacco d'ansia.

Mi metto a osservare la finestra per trovare l'angolazione giusta e finire nell'ombra così smetterò di cangiare, ma questa non è una finestra comune, è enorme. Questo è un palazzo dell'epoca di Mussolini, grande, imponente e massiccio, con i vetri lunghi e alti e le porte gigantesche. Forse è per questo che è diventato un liceo artistico, qui i cavalletti, gli stiratori, le statue possono passare con estrema facilità attraverso porte e corridoi. Ci vuole molto spazio per fare l'artista.

Stringo gli occhi. Rivedo nella mente quella scena sotto alla metropolitana, avverto lo stesso conato di stamattina. Respiro. Rimuovo. Mi sposto dal raggio di luce prima di evaporare.

Il professor Sepe passa a controllare aggirandosi lento tra gli stiratori con le mani intrecciate dietro la schiena e un'espressione truce. Virginia fissa il foglio appena abbozzato e continua a sussurrare, non vuole che la intercetti, è già stata ammonita tre volte nell'ultima mezz'ora.

«Devi firmare anche tu, Eva», dice.

Oh, no, di nuovo questa storia.

Bisbiglio: «Firmare non è obbligatorio. E poi non sarà la mia assenza a fermare la rivolta. Ci sono più di trecento firme su quel foglio. La vacanza si farà, stai serena».

Il professore si allontana, torna in cattedra e si siede, apre un quotidiano.

Virginia quasi non sente più l'esigenza di sussurrare: «Perché la chiami vacanza?».

«Perché è solo un modo per fare niente sette giorni.»

«Saranno quattordici e lo facciamo per la discarica, stanno avvelenando il quartiere. La gente scende in piazza e noi occupiamo la scuola, ognuno fa quello che può.»

Non capisco perché sia così convinta che un'autogestione risolverà qualcosa.

«Ginni, la discarica non è nemmeno in città. Sta a venti chilometri dal raccordo anulare. Tu non hai mai fatto neanche la differenziata.»

Virginia si gira a fissarmi con le sopracciglia sollevate incurante che adesso il professore possa vederla.

«La corsia differenziata?»

«La corsia è preferenziale. Differenziato si dice dello smaltimento dei rifiuti. Mia madre è convinta che un giorno diventerà obbligatorio.»

Ma che glielo dico a fare? Mi sta già guardando storto.

«Eva, vogliono pure tagliare i fondi alla scuola!»

Non la sto più ascoltando. Ho le ginocchia molli, tremo ancora come in quel momento, le vibrazioni dei binari mi sono rimaste in testa come quando un diapason s'incanta. Sto disegnando un chiaroscuro che sembra liquido.

Ho una vertigine. Mi piego sulle ginocchia come una che ha un improvviso mal di pancia. Nessuno mi nota, disegnano con le cuffie nelle orecchie, con gli occhi su una tavola verticale cento per settantacinque centimetri, con la testa ai fatti propri. Potrei anche morire, se ne accorgerebbero quando inizio a puzzare.

«Che cerchi, Neri?»

Il professore mi vede strisciare a terra convinto che stia combinando qualcosa. Vedo nero.

In questa scuola non c'è l'infermeria. Non c'è neanche una biblioteca o la mensa. Non siamo in America, con le scuole super attrezzate come nel telefilm Beverly Hills 90210; qui ci sono solo le aule, i bagni e i corridoi. E mi hanno portata in bagno. Tra l'altro la fotocopia paleolitica dei bagni degli autogrill.

Una tipa bruna che neanche conosco mi friziona la fronte con un fazzoletto bagnato e blatera di un ipotetico calo di zuccheri mentre fisso nello specchio l'immagine sfocata di una ragazza: avrà diciassette anni, ha il viso pallidissimo, la pelle diafana, trasparente, le labbra piene e rosse. Solo quelle hanno colore, il resto sembra lavato nella candeggina. Gli occhi sono grandi e a mandorla di un verde diluito con una punta di curcuma. Esile, vestita come una collegiale anoressica, poco in tema con l'eccentrico mood di questa scuola. Ha i capelli raccolti in una coda fiondata sulle spalle e sono completamente bianchi e anche le sue ciglia e le sopracciglia sono bianche! Bianche! Non mi piace per niente. Sembra uscita da un romanzo fantasy in cui la fata si finge umana ma nasconde un terribile segreto: è una stronza che presto distruggerà l'umanità.

E la cosa più tragica è che la fata scolorita che mi fissa nello specchio sono io.

Somiglio alla protagonista di un manga giapponese che tutti pensano sia bellissima solo finché resta nel disegno. Se si materializza diventa una cosa inquietante.

«Che è successo? Che hai visto?», chiede la bruna.

Vede che mi fisso preoccupata nello specchio e teme che io percepisca qualcosa che a lei è sfuggito: il primo sintomo di lebbra, un fantasma alle spalle.

Per un attimo il trauma deve avermi resa incorporea e la mia anima, se mai ne ho una, è uscita e si è messa a girarmi intorno. Riprendo il controllo dei nervi, non era il mio corpo quello volato sulle rotaie, devo smettere di comportarmi come una vittima.

«Sono gli specchi. Li odio», dico.

La bruna è interdetta, si vede. L'ho spaventata. Fa un passo indietro, molla il fazzoletto sul lavabo e mi guarda anche lei attraverso lo specchio, ha paura di girarsi e ammettere che sono lì accanto.

Mormora: «Devo tornare in classe. Dì al professore che ti ho aiutata ma che dovevo rientrare. Okay?».

«Sì, non ti preoccupare. Mi è passata. Devo solo smettere di pensare alla morte.»

Io mi trovo quasi divertente ma lei si sposta, esce dal bagno camminando all'indietro.



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