2 - EVA, la formula chimica

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Ricreazione



Mi siedo sulle scale dell'androne con Virginia e mastico l'insipido panino al tonno che mi ha preparato mamma. Ginni si mette a raccontarmi l'ultimo romanzo che ha letto: un horror in cui bambini balbuzienti o obesi, oppure sociopatici ed emarginati, insomma considerati dei reietti, vengono uno ad uno brutalmente uccisi da un pagliaccio che in realtà non è un uomo, è un demone. Il panino non mi va più, mi ha fatto passare la fame. Ogni cosa oggi mi fa pensare al sangue e alla morte.

Mi avvicina un tizio, è un anno avanti, vestito da sessantottino. Lo conosco solo di vista, so che fa parte del consiglio di istituto. Sventola dei fogli davanti alla mia faccia.

Dice: «Tu sei Neri terza A?».

Sembra un'altra formula chimica.

Si siede vicino a me senza invito e io faccio un salto a destra, finisco quasi in braccio a Virginia.

«Devi firmare questa circolare o l'occupazione non si farà.» Mi passa un foglio e una penna.

Dal tono minaccioso non sembra una richiesta.

Scanso la penna.

«Una scuola di novecento studenti non fa l'occupazione se non firma Neri terza A

La mia è una domanda retorica ma la sua è un'espressione di conferma.

«La presidenza ha emesso un avviso, stamattina, ci permettono di occupare solo con l'approvazione dei più bravi della scuola. Con la media del nove, insomma. Voi secchioni siete ventinove. Hanno firmato tutti, manchi solo tu», indica col dito il mio nome. «Sei la sedicesima della lista.»

Smetto di respirare e osservo la fila di nomi. Solo ventinove su novecento? Che scuola di falliti.

Mi ripassa la penna.

«Quindi adesso metti questa cazzo di firmetta che devo andare in bagno a farmi una canna prima della campanella, grazie.»

«No, non la voglio questa responsabilità».

Sorride. «Alcuni li ho minacciati, altri li ho corrotti. Resta solo da capire tu che tipo sei. Corruttibile o ricattabile?»

Virginia afferra la lista.

«Porca miseria, non c'è nessuno della centrale, a parte te, Eva. Gli altri bravi stanno tutti in succursale.»

«Assurdo, in effetti.»

«Avete finito?», il sessantottino sta scalpitando.

Lo guardo storto: «Senti, coso, stai calmo. A me non mi puoi né comprare e né minacciare, quindi non rompere.»

Che mi frega, tanto finirò segregata finché l'occupazione non sarà finita, i miei non mi permetteranno mai di venirci. Non vedo perché dovrei aiutarli a divertirsi mentre io avrò come unico sfogo i miei libri.

«Ti posso comprare, minacciare e pure picchiare, se non firmi, vamp», dice tra i denti.

Mi acciglio. «Vamp?»

«Tu sembri un vampiro partorito dalle fantasie manga di Tunaito. Ho paura a toccarti, se sei gelata mi tocca scappare».

Virginia è pietrificata. Mi conosce dall'asilo e sa che adesso col cavolo che avrà la mia firma. Invece li stupisco e sorrido, in fondo Tunaito è un genio e direi che tra le cose che mi sono sentita dire nella vita, questa è la meno offensiva.

«Firmo solo se rispondi a una domanda.»

Virginia e il tizio che non si è nemmeno presentato mi fissano perplessi.

«Va bene, vamp. Fammi la domanda.»

«Perché volete occupare?».

Se mi parla di discarica e tagli ai fondi, gli strappo la circolare davanti agli occhi.

Ci pensa un momento e mi osserva. Prende le misure, forse si chiede cosa una specie di vampira secchiona potrebbe ritenere giusto per autorizzare un'occupazione.

Sospira. «L'apartheid.»

Virginia strabuzza gli occhi e io li assottiglio in una smorfia diffidente.

Lui insiste: «Lo facciamo per l'apartheid. Capito? Per l'integrazione razziale».

«So cosa significa Apartheid. Ma noi che c'entriamo, scusa?»

«Siamo contro la segregazione razziale in Sudafrica e vogliamo farci ascoltare dal governo.»

Rido: «Dal governo sudafricano?».

Alza gli occhi al cielo: «Dal nostro governo. Dobbiamo intervenire in loro aiuto».

Mi viene subito da dire: A me risulta che facciate discriminazione razziale pure voi e con tutti quelli che non corrispondono ai vostri canoni.

Ma riformulo: «A me risulta che Nelson Mandela sia stato liberato tre anni fa».

«Ma non lo hanno ancora eletto, senza di lui saranno sempre discriminati, non saranno mai liberi.»

Questo sta fuori.

Mi accendo: «Sono stati sospesi cinque ragazzi della succursale il mese scorso. Tutti stronzi razzisti. E tu mi vieni a parlare di Apartheid?».

Non si scompone, mi fissa convinto: «Non siamo tutti così. E poi quelli non erano nemmeno razzisti, erano solo rosiconi. Ce l'avevano con i fratelli musicisti, era successo qualcosa, non lo so, ma non c'entra un cazzo. Noi crediamo nell'integrazione e questa autogestione si fa apposta.»

«Beh, okay, allora provamelo».

Sbuffa, si guarda intorno, cerca con gli occhi non so chi o cosa, poi serra la mascella, «Va bene, cazzo, vieni con me, basta che poi firmi», e si mette in piedi.

Io e Virginia ci tiriamo su scambiandoci un'occhiata divertita.

«Solo Neri», s'infila tra noi, «già non potrei fare quello che sto per fare, tu non puoi venire» dice a Virginia.

Lei fa spallucce e resta a guardarci mentre ci allontaniamo.

Gli cammino a pochi passi di distanza, sono dietro di lui. Mi porta giù per le scale fino al pianterreno e prosegue fino al sotterraneo, quello col divieto d'accesso. Man mano che scendiamo, il corridoio si fa sempre meno ospitale. Questa è una zona off limits, la chiamano il magazzino, ci accatastano le attrezzature rotte e agli studenti non è permesso entrare. Lui invece, il sessantottino, ha la chiave della porta, quella in fondo al corridoio semibuio. La tira fuori mentre cammina, è legata a un laccio e se la fa girare tra le dita come fosse un'elica. Un tuono terribile spacca il silenzio e fa tremare i vetri intorno, sta arrivando un temporale. Ho un brivido ma resto salda.

Parla senza voltarsi, con una voce strafottente: «Devo farti i complimenti, non sei una cacasotto».

Invece si sbaglia, ho una paura folle che appaia il pagliaccio demone, ora.

Fa scattare tre mandate nella toppa e bisbiglia: «Non toccare niente e non parlare. Se scoprono che te l'ho fatto vedere mi buttano fuori dal consiglio di istituto».

«Già, e poi chi la salva l'Africa».

Spalanca la porta e mi fa cenno di fare due passi avanti e di fermarmi lì, non vuole che entri ma solo che mi affacci. Acconsento, almeno so che non mi aggredirà se mi lascia sull'uscio.

È buio pesto, non si vede a un palmo. C'è odore di vernice, di bombolette spray di... oh porc! Ha acceso la luce, ora. Davanti a me c'è un enorme telo tipo un metro di larghezza per tre di lunghezza. C'è scritto: "No Apartheid". È un'autentica opera d'arte. Sono sconvolta. I colori, le lettere, gli schizzi per niente casuali sulla tela. Non ho mai visto niente di più suggestivo. Ci sono dei graffitari pazzeschi in questa scuola. Io non sono capace. Non ho il loro talento.

«Allora, mi credi adesso?», mi fissa a braccia conserte e piede che balla.

Un telo come quello avrà richiesto almeno una settimana di lavoro. Non riesco a smettere di guardarlo.

Mi rassegno: «Dove devo firmare?».

Il tipo tira fuori foglio e penna e fa un sorrisetto trionfante.

Si volta, mi appoggio alla sua schiena e firmo.

«Non credo che salverete l'Africa ma questo manifesto merita di essere esposto.»

Afferra il foglio e lo guarda sollevato, «Beh, grazie. La erre l'ho fatta io».

Cammino verso la luce della scala.

Mi segue rapido.

«Faremo anche due manifestazioni durante il periodo di occupazione. Abbiamo accordi con altre scuole. Se ti piace lo striscione sarai in prima fila nella marcia a sorreggerlo. Che dici?»

Affretto il passo, «Io non partecipo alle manifestazioni».

Quarta ora: chimica.

È suonata la campanella, si trasloca in una classe normale di quelle coi banchi. I corridoi sono tappezzati di volantini, non si parla d'altro: AUTOGESTIONE / OCCUPAZIONE.

Ginni mi sta addosso come un pezzo di scotch–carta , sussurra, ridacchia, indica i tacchi di Mara Bini e le fa il verso sculettando come una cretina. La strattono con un colpo d'anca, non posso fare di meglio ho le mani occupate dai fogli e le cartelle.

Sussurro: «Virginia! Tu lo sai quanto sfottono me e ti metti a sfottere le ragazze pure te?».

Ma lei non demorde, cammina lungo il corridoio ancheggiando e ride, «Ma è diverso, Eva, che c'entri te? Quella non ha nessuna patologia, è solo troia!».

Ora m'incupisco e fisso per terra. Patologia. La mia non è una patologia.

«Oh Dio! Eva!», mi salta al braccio, stringe, rischia di far precipitare per terra tutta la mia roba. «Eva girati, girati, girati! Ci sono i Pride!».

Non mi giro e non alzo lo sguardo, è riuscita a farmi incazzare con questa storia della patologia. E non ho idea di cosa siano questi Pride.

A metà del percorso avverto uno spostamento d'aria, mezza classe s'è messa a sospirare e a parlottare, sembrano tutti agitati e io mi sento osservata e non so perché divento rigida. Entro istintivamente in tensione come se il mio inconscio avesse percepito un pericolo.

Qualcosa s'impiccia nei miei capelli, ho il terrore di girarmi e di scoprire che i soliti idioti stanno tirandomi la coda apposta; cerco di liberarmi scuotendo il collo e proseguo.

Ginni mi percuote e bisbiglia nel mio orecchio: «Ci sono i Pride! Ma mi ascolti? Stanno tutte sbavando! E ti ha toccata! Manuel Remis ti ha toccata e ti guardava! E tu stai ancora a fissarti le scarpe come una stupida!».

Nemmeno le rispondo, non so neanche chi diavolo sia Manuel Remis, e non vedo come potrebbe cambiarmi la giornata. Io so solo che mentre venivo a scuola ho visto una ammazzarsi sotto alla metro, Ginni mi ha appena detto che ho una patologia e sta per iniziare la lezione di chimica. Peggio di così c'è solo l'obitorio.

Prendiamo posto. Sospiro accasciata tra le braccia, sono ancora stordita, non riesco a riprendermi dallo choc, non faccio che pensare a quel corpo volato sulle rotaie e la lezione di chimica è il colpo di grazia. E si è anche messo a piovere di brutto.

Ginni sussurra senza sosta, da quando ha visto questi tizi in corridoio è diventata elettrica, sembra impazzita.

«Chissà perché c'erano i Pride in centrale. Dici che stanno organizzando il concerto dell'autogestione?».

Concerto? Okay, ricordo pervenuto: i Pride sono il gruppo Rock della succursale. Quelli che le ragazzine ci vengono dalle altre scuole per sentirli; quelli che si dice siano mostri di bravura perché tra loro c'è una specie di autistico geniale con la chitarra; quelli che una s'è spogliata davanti a tutta la scuola per tirare la biancheria al cantante del gruppo; insomma se ne dicono tante. Io però non li ho mai visti suonare, non li ho mai visti in faccia, nemmeno oggi che ce li avevo evidentemente a un centimetro; Ginni ci va sempre, ai concerti di scuola; il mio coprifuoco invece è inclemente, vivo peggio di una carcerata.

«Neri!»

Subito il primo richiamo, e sembra perfetto insieme all'eco della pioggia incessante. Scommetto che la professoressa è lì appostata per aspettare che io sbagli qualcosa. Non la ascolto, sta spiegando una reazione da più di mezz'ora.

Ginni quando non può nemmeno sussurrare si mette a scrivere a matita sul banco: Oddio, non puoi capire, mi sento male! Cioè, tra Massimo e Manuel sono indecisa su chi sposerei anche adesso, sono di un arrapante che mi sono sciolta a vederli da vicino.

Piego mezza bocca per accennare un sorriso che sembri complice, ma in effetti non me frega niente.

Lei scrive ancora: Lo sai che Manuel mi ha stranita per come ti ha guardata, ti studiava proprio, sembrava che ti conosce.

Le tolgo la matita di mano e cancello con un segnaccio l'ultima frase che ha scritto, poi la riscrivo: Ginni, si scrive sembrava ti conoscesse.

Lei mi fissa sbuffando e –

Un urlo: «Eva Neri!».

La De Santis non mi sopporta, io sono la prima della classe in tutte le materie - ci vuole poco, non studia nessuno qui - ma in chimica prendo sempre un quattro secco. Anche meno.

«Se ti annoio, puoi uscire, Neri», ce l'ha di nuovo con me.

Balzo dritta sulla schiena e fingo preoccupazione ma non replico. È inutile scusarsi, è vero che mi annoia.

«Mi dici la formula del bicarbonato di sodio?», chiede corrugata.

Non la so assolutamente ma meglio apparire stupida che impreparata.

Dico:«Viene usato per combattere l'acidità di stomaco, mi pare».

«Come quella che mi fanno venire le tue battute, Neri.»

Non posso sorridere, mi sospenderebbe.

«Neri, lo sai perché non ti ho mai rimandata a settembre, vero?»

Certo che so il perché, mi ha sempre concesso il sei politico. Ma non rispondo neanche stavolta, so che vuole dirlo lei.

Ghigna: «Perché godo a vedere la tua media abbassarsi grazie a me che voglio bocciarti dal primo anno di corso».

Non capisco come fa a essere soddisfatta per così poco, forse non ha una vita.

Il mio silenzio la infastidisce e ora alza la voce.

«Non basta saper disegnare. La chimica non è finita per caso, in questo corso di studi. Un vero artista conosce la composizione chimica dei liquidi e delle vernici che usa, per dirne una. Può farne di proprie, se sa gestirle. Almeno le basi dovresti averle, a meno che tu non stia qui solo per imbrattare tavole sapendo che tra qualche anno sarai dietro alla cassa di un supermercato.»

Mi sta facendo innervosire, non farò la cassiera solo perché non saprò farmi i colori da sola.

«Neri, dimmi la formula del bicarbonato di sodio o ti metto tre», sentenzia.

Nessuno me la suggerirà.

«Non la so, professoressa. Immagino contenga acqua e un sale, perché è salato. Almeno mi sembra salato se lo bevo. Quindi la formula potrebbe essere na ci ... .»

Mi fissa accigliata, severa.

«Ma brava, Eva Neri, e così fai ragionamenti quando non puoi affidarti alla conoscenza, cerchi di arrivarci con l'intuito. Peccato che la chimica non si possa immaginare.»

Sta per scrivere un tre sul registro quando Virginia alza la mano. Nemmeno lei gode della simpatia della De Santis ma in chimica se la cava molto meglio, specialmente se ha il libro aperto sulle gambe.

La professoressa le dà la parola a malincuore.

«Beh, però ha intuito bene, professoressa. La formula del bicarbonato di sodio è Na acca ci o tre, aveva quasi ragione Neri.»

E si becca un tre anche lei per il solo fatto di avermi difesa.

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