3 - MANUEL, More than words

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Saying I love you
Is not the words I want to hear from you
It's not that I want you
Not to say, but if you only knew
How easy it would be to show me how you feel
More than words is all you have to do to make it real
Then you wouldn't have to say that you love me
'Cause I'd already know...

(More than words)


Questo era un Sol. Ne sono sicuro.

Eccolo che arriva: Si bemolle.

Diesis, no, questo era un fa.

Mi sento bene, posso farcela, sono talmente euforico che non riesco neanche a concentrarmi sui suoni della strada, sto cercando di capire quale rumore campionare ma nessuno somiglia al mio stato d'animo.

Me la faccio a piedi dall'Ara Pacis per raggiungere scuola a Villa Adriana, e con i motori, i clacson, le sirene, l'eco della gente e le parole nell'aria ho composto in mente nove righe di pentagramma, strada facendo.

Assesto meglio l'involucro della chitarra sulla spalla destra e attraverso al semaforo, di fronte alla fortezza di Castel Sant'angelo; manca poco.

Arriva da sinistra, eccola che sfreccia sul lungotevere: l'ambulanza che suono ha? L'hanno tarata per spaccarti i timpani e ti passa accanto con due note ripetute e ipnotiche. Potrei usarla come unità di misura per la ritmica del nuovo pezzo ma diventerebbe tecno, e io per il singolo voglio comporre una ballad.

Affretto il passo lungo il ponte degli Angeli. Le statue in fila mi osservano dall'alto, di pietra, mi indicano, e sono tutte così impegnate con la loro missione: il sudario, la croce sulle spalle, i chiodi, i dadi e la lancia; ognuna di loro ha qualcosa da fare, da finire, ed è stata bloccata nel mentre, col gesto sospeso per aria. Sarebbe fico mettere tra le loro mani la mia chitarra elettrica, cazzo che sinfonia se iniziassero tutti insieme a suonarla! Angeli che suonano dalla pietra al cielo.

E una goccia di pioggia mi colpisce la fronte. Affretto il passo.

Mio fratello si sbraccia da lontano. Mi arriva incontro di corsa e tra un po' si perde la valigia con la tastiera.

«Ho parcheggiato in culonia. Oh, senti, frate', ripensaci», dice. «Non mi va che ci separano, finisce che manco ci incontriamo nelle pause.»

«A che ora hai prenotato la sala prove?».

Meglio cambiare argomento, lo sa che non sono uno che discute due volte della stessa cosa.

Sospira, «Al solito, dopo pranzo. Ma stai ancora lavorando su quella canzone? Perché ti sei fissato a voler mettere una cover nella playlist del concerto?».

«Tu fidati di me, so quello che faccio. More than words è il brano giusto, dobbiamo suonarlo in apertura durante il LIVE, devo solo riscrivere la partitura per gli archi che inserisco.»

Tre gocce. Tra poco pioverà.

Siamo arrivati alle spalle dell'edificio e aggiriamo il muro.

Lui mi lancia un'occhiata storta, insiste: «Senti, sul modulo scrivi B, dai, ma perché cazzo vuoi andare per forza in quella sezione di pariolini? Almeno in B c'è Fabrizio, ci sono i writers!».

Superiamo il portone e nell'androne incontriamo il bidello della centrale, uno che non conosco ma, per come ci saluta, sa chi siamo.

Apre le braccia nel suo camice azzurro, «Ragazzi! Grandi! Vi trasferite, mi hanno detto».

Massimo gli stringe subito la mano come una star, «La succursale era troppo affollata», strizza l'occhio.

«Piacere, io sono Ovidio», dà la mano anche a me. «Certo, però, pure voi, arrivare a due giorni dallo scatafascio!»

Mi acciglio: «Cioè?».

«L'autogestione», dice affranto. «La centrale diventa terra di nessuno», poi si anima «Ma voi durante 'sta fiera suonerete, vero? Ho visto tutti i vostri concerti dal vivo, siete bravissimi! Meglio di quelli lì, come si chiamano, gli U2!».

Io e Massimo ci scambiamo un'occhiata perplessa.

Mio fratello fa il prezioso: «Non lo so, qui l'acustica fa schifo, sembra di stare in chiesa, le pareti sono troppo alte e le sale troppo ampie, il suono rimbalza».

«Con l'amplificazione, poi, sai che bordello», rido.

«Venite», dice Ovidio, «Vi accompagno di sopra dal preside», poi osserva i nostri strumenti e li indica, «Quelli non ve li fanno tenere a scuola. Dovete trovargli un posto».

Lo ignoriamo. Non c'è un altro posto, non c'è nessun posto in cui lascerei la mia chitarra.

Facciamo due rampe di scale dietro di lui che già arranca.

Lungo il primo corridoio imbrattato di graffiti e ostacolato da una lunga fila di cassettiere addossate alla parte, c'è un esodo che arriva verso di noi. Deve essere il cambio dell'ora e le classi passano da un'aula all'altra.

Il bidello ci fa cenno di fermarci di lato e di farli passare.

Massimo li osserva divertito e sussurra a me: «Magari becchiamo Fabrizio».

«No, questi sono più piccoli. Sarà un terzo.»

Finisco di dirlo e qualcosa mi scatta dentro, il terzo? Ora li osservo anch'io. Li studio uno dopo l'altro: niente punk, niente dark, niente creste, sembrano usciti da un collegio di monache con quelle camice stirate e abbottonate, e nessun pearcing, e non vedo tatuaggi, cazzo è la sua classe!

Salto un respiro, ne faccio due e li ingoio.

L'esodo ci passa addosso, intorno, di lato.

Massimo torna a sussurrare: «Mi sa che questi sono i decerebrati con cui hai pensato di farti mettere in classe.»

Non lo sto a sentire, l'ho vista. È lei.

Le pieghe di quella gonnellina scozzese sembrano i tasti di un pianoforte, si muovono leggere una dopo l'altra e le sue gambe così esili, così pallide, cammina guardando per terra. Porta ogni cosa, la cartellina, i fogli arrotolati, lo zaino, tutto come fosse un fardello da tenere stretto per evitare di inciampare su se stessa.

Si avvicina, sta arrivando. Tre, due, uno, eccola che mi passa accanto e non mi nota.

Il suo odore mi solletica le narici, sa di pulito, di candido; e io lo faccio apposta, non resisto, allungo due dita e le sfioro una ciocca di capelli sfuggita a quella coda lunghissima e bianca come fili di lino grezzo, li intrappolo tra il pollice e l'indice e scorro fino alla punta e poi la lascio andare via.

Lei muove la chioma, non ha il coraggio di scoprire a cosa s'era impigliata, prosegue goffa, l'amica che le sta vicino mi lancia un'occhiata fugace e torna a parlottarle nell'orecchio. Ma lei è irreprensibile, prosegue senza mai girarsi.

Io mi osservo i polpastrelli, li strofino, ho toccato quei fili d'angelo, è stato come sfilare su una delle corde della mia chitarra. Nessuna aveva mai avvicinato quella sensazione, nessuna persona reale.

Risatine, brusio monocorde, ci fissano tutte. Tutte ma non lei.

Massimo c'è abituato, sorride a ogni sorriso e intanto mi parla vicino alla faccia.

«Dammi retta, Manuel, fatti mettere in B. Le sezioni uguali fanno le stesse gite, i terzi e i quarti vanno insieme. Se stai in A non faremo un cazzo insieme.»

Parla troppo, mio fratello, lo so che si preoccupa per me. Ma io ho sentito un suono al suo passaggio, era un accordo; se c'è stato un accordo nella mia anima, non potrà essere un inferno, non è possibile, l'ho sentita suonarmi dentro.

È successo l'anno scorso, eravamo in sala prove, per la sesta volta Massimo aveva suonato l'aria d'apertura del brano con cui partecipavamo a un contest internazionale. Non riusciva a piacergli, lo suonava e lo suonava.

Io e Fabrizio ce ne stavamo di lato, appoggiati allo schienale di un divano logoro a respirare balle di polvere e puzzo di lana di vetro stantio, lui col blocco sulle gambe e la matita in mano, io con la chitarra in braccio, staccata, a strimpellare sulle corde metalliche senz'audio. È stato in quel momento che l'ho vista per la prima volta, che ho visto la ragazza di zucchero.

Una corda mi aveva tagliato di netto il pollice e la ferita aveva iniziato a sanguinare, mi ero innervosito, avevo succhiato via il sangue e nell'attimo di disagio e rabbia avevo lanciato un'occhiata veloce al foglio aperto sulle gambe di Fabrizio: due occhi a mandorla sotto a un cappello di lana e ciocche bianchissime sulle spalle mi avevano provocato una lieve scossa e mi era parso che per un attimo la ferita avesse bruciato di più.

«Non c'è contrasto, nessuna ombra, sembra una faccia fatta di zucchero. Disegni dee, adesso?», avevo chiesto sotto a un tappeto di archi campionati che mio fratello ripeteva e ripeteva fino alla nausea.

Fabrizio aveva scosso la testa senza staccare la mina dal foglio: «Ma che sta' a di', no, è un compito, lo devo consegnare domani. Quel fissato del prof di Figura vuole che portiamo un ritratto.»

Col dito ancora in bocca e il sapore di ruggine, avevo commentato: «E allora mica puoi disegnare a fantasia, devi ritrarre qualcuno dal vero

«Infatti è dal vero, questa è l'albina del secondo A.»

Quella risposta mi aveva mandato fuori di testa e non avevo idea del perché ma immaginare che una simile bellezza ultraterrena fosse reale mi aveva agitato.

Fabrizio aveva aggiunto: «L'ho abbozzata a ricreazione, lei manco se n'è accorta, mi pareva un soggetto interessante».

Tutto quello che ero riuscito a rispondergli era stato: «Lo dicevo che dovevo venire in centrale, non ci sono queste bellezze in succursale.» Ma era stato solo un modo per chiuderla lì, per non fargli capire che dal giorno dopo l'avrei cercata, perché la ragazza di zucchero io dovevo vederla dal vivo. Ne avevo fatto una specie di missione, poteva diventare fonte di ispirazione, poteva solleticare la mia mente, essere la musa delle mie canzoni, non lo so, ma nei mesi successivi l'ho osservata a distanza, e ad oggi non riesco ancora ad attribuire una nota alla fitta che ho provato quando l'ho vista per la prima volta.

«Venite», chiama il bidello.

Il corridoio s'è svuotato, proseguiamo fino alla stanza del preside.

Ovidio bussa tre volte con la stessa intensità e poi ci spinge avanti, «Il dottore va poco in succursale, immagino che non lo abbiate mai incontrato prima, ma state tranquilli, è uno tollerante. Alberto Stampelli è anziano ma molto rispettato, è diventato il preside dopo che gli hanno diagnosticato un principio di Parkinson e il tremore alle mani gli ha impedito di seguitare la sua carriera, è stato uno dei massimi esponenti della scultura contemporanea--».

Avanti!, sentiamo.

La biografia del preside s'interrompe e il bidello ci saluta con un cenno della mano.

Dopo venti minuti di fogli da firmare e di raccomandazioni, Stampelli e i suoi baffi folti come chiavi di basso al pantone studia il mio modulo e lo fa scuotendo la testa.

Non si rivolge a mio fratello, nemmeno lo guarda, parla subito a me: «Non posso garantirle che qui in centrale di idioti non ve ne siano, ma farò di tutto perché lei trovi un ambiente sano e diplomatico, non consentirò che si ripetano disordini nel mio istituto.»

Sento tamburellare gocce di pioggia sempre più frequenti contro i vetri di questa finestra allungata. La premessa che ha imbastito il preside sembra il preludio a una brutta notizia, e stringo le nocche sotto al tavolo.

Stampelli continua, inforcando meglio le lenti sul naso: «Tuttavia, signor Remis, sulla richiesta ha scritto sezione A; non la posso mettere in terza A. Sono già in troppi. La posso mandare in C. La sezione sperimentale gode di materie didattiche di primo livello--».

Rimuovo all'istante questa informazione e anche la proposta che fa in alternativa. Per farlo mi agito un po'.

Mentre parla il tono baritonale della sua voce si sgretola e produce dieci secondi di caos dentro di me, si imbriglia al suono sincrono della pioggia e diventa una musica che gira intorno e mi spinge.

Non so neanche a che punto del discorso sia arrivato quando dico: «Se non le dispiace, signor preside, io insisto: vorrei andare in A».

Lui smette di parlare e mi fissa perplesso. Anche il tamburello d'acqua per un istante sembra essersi sopito come la pausa nella partitura prima del presto con fuoco.

Poi riprende la cantilena insieme al tamburo contro il vetro: «Senta, Remis, io sono davvero costernato per quello che le è successo in succursale, sono stati deplorevoli e li abbiamo sospesi tutti, comprendo la vostra decisione di cambiare scuola, ed è ovvio che io voglio venire incontro sia a lei che a suo fratello ma capitemi, siamo alla fine dell'anno, i professori della A non gradiscono che si arrivi senza conoscere il loro programma e--».

E di nuovo la sua voce si strappa e si replica, e il temporale si allarga e sbatte e ora è folle, corre, ringhia, accende, lampi, tuoni, non così, non così in fretta. Avverto un capogiro.

Massimo mi appoggia una mano sul ginocchio, ha paura che mi prenda una crisi ma non ha il coraggio di mettersi in mezzo.

Stampelli non la smette e come lui nemmeno la dannata pioggia; cazzo, un metronomo! Le consonanti mi danzano intorno e io le posso addirittura contare, volano basse, non sono minori sono diesis e si stampano una sull'altra e tutto diventa una chiazza nera sulla partitura e mi provoca nausea.

«Voglio andare in A, signor preside.»

Sospira.

Mio fratello stringe la presa su di me.

Il preside intreccia le mani nodose davanti a sé, tremano, sono diapason.

«In quella sezione non sapranno apprezzarla, Remis. Gli studenti della terza A sono notoriamente poco inclini alla tolleranza e vengono spesso ammoniti; inoltre non sono presenti colleghi che si siano occupati di un caso come il suo, non saprebbero come aiutarla se avesse una crisi. Invece nella sezione sperimentale abbiamo inserito perlomeno materie più adatte al suo background; leggo qui che lei ha un diploma di conservatorio e una specializzazione in composizione che le hanno fatto perdere due anni, e il programma della C è più avanti e conforme alle sue conoscenze; lei non avrebbe dovuto nemmeno entrare in terzo, con gli esami da privatista sarebbe già diplomato, non capisco perché invece voglia per forza--».

«Per favore, signor preside, dimentichi quello che sono, mi tratti come uno qualunque, mi metta in A.»

Finalmente Stampelli si tace.

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