4 - EVA, la prigione dorata

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"Nessuno si fa grandi teoremi su quelli come me, ma molti mi evitano."


Sono tornata a casa in autobus anche se la mia zona è collegata malissimo, con la metro avrei impiegato un'ora in meno ma la sola idea di tornare là sotto dopo che quella ragazza si è suicidata davanti ai miei occhi mi devasta.

Io vivo nel rione Ripa, su via di Porta Lavernale, proprio in cima al colle Aventino, nell'ultima villa a sinistra, quella su tre piani che affaccia su mezza Roma. Uno spreco di mattoni, per una prigione.

Supero il viale d'ingresso e mi lancio su per le scale senza salutare.

Mollo lo zaino sul letto e sfilo camicetta e gonna. Dabbasso sento chiamare il mio nome tre volte, nemmeno il tempo di lavarmi le mani, è colpa mia, sono arrivata tardi, mi punirà.

Mi presento a tavola in short e canotta e subito mia zia Uga, la sorella di mia madre ospite a vita da noi, fa una faccia contrariata.

«Sei pallida come un morto e secca come un paletto, Eva. Forse dovresti coprirti».

Non è che dice forse dovresti mangiare, fare una visita dal dottore, no, dice che se mi copro è meglio.

«Come mai questo ritardo?», chiede mamma a voce alta.

Alzo le spalle, chi lo sa, il destino.

Lei non insiste, sono sempre puntuale, per una volta fa un'eccezione, e poi ha di meglio per punirmi: mette in tavola una pirofila di lasagne fumanti e verdi. So già che darò di stomaco.

È vegetariana a metà, il pesce è consentito, ma l'odore della carne la fa svenire e piuttosto che assistere a certe scene da film drammatico ci adattiamo. Tanto gli hamburger me li mangio di nascosto al fast-food con Virginia.

Mio fratello Marco ha la camicia aperta sul petto e le scarpe Vans slacciate, non si siede, passa e afferra una fetta di pane, poi prosegue verso il terrazzo del salone.

«Vieni a sederti!», ordina mamma. «Mi sono rotta di vederti mangiare in piedi come i cavalli!»

Mio fratello ha ventidue anni e sta al quarto anno di università, studia filosofia. Lo sappiamo tutti che è solo un modo per perdere tempo, non diventerà mai Aristotele. Lui siederà alla destra del padre, nostro padre, sarà il suo figlio eletto e cambieranno il mondo insieme: il mondo delle macchine agricole e industriali che oggi ruota intorno alla mia famiglia come il Patto di Varsavia ruotava intorno a Varsavia.

«Vedi, mamma», Marco risponde masticando dalla portafinestra, «cerco di canalizzare le energie vitali del sole di maggio sul cibo che ingoio. In questo modo ottengo forza anche dagli elementi della natura».

Non è davvero così, lo fa apposta. Odia zia Uga come e più di me ed è carnivoro come e più di me. Evita le riunioni di famiglia come la peste, una specie di sistema di sopravvivenza che adotta per non farsi massacrare dalle sorelle degli spinaci: una per volta va bene, ma insieme.

Mia madre afferra un mestolo e va verso di lui.

Glielo agita davanti e blatera sonora: «Entra e siediti a tavola. Altrimenti chiamo tuo padre».

Altrimenti chiamo tuo padre è un anatema da evitare, una sorta di ultimatum nefasto.

Mio padre è assente, non conosce il dialogo, si limita a prendere per buono tutto quello che gli dice mamma e poi formula la sentenza: non esci per una settimana, non puoi telefonare per un mese, niente gita scolastica, niente fast-food per un semestre. Meglio stare alla larga dalle sue sentenze, se gli gira storto puoi beccarti un mese di reclusione per un ritardo a cena di cinque minuti, perché la mamma quando si lamenta esagera. Se deve dire mangiava pane in veranda, dice tutto quel pane sbriciolato ovunque che attira le cornacchie sul terrazzo e nostro figlio ci ignora come non fosse parte della famiglia e lo dice piagnucolando, quasi guaendo. È normale che poi mio padre, stabilmente residente in Emilia Romagna per lavoro, pur di non farsele rompere al telefono lanci la più inclemente delle punizioni. E infatti Marco si è già seduto a tavola e finge persino di gradire la lasagna verde.

Alza il pollice in segno di approvazione e fa l'occhiolino alle sorelle degli spinaci dicendo: «E mi raccomando: sempre forza magica».

Tutti masticano e va bene così. Ma poi le cose precipitano.

Marco dice: «Avete sentito della ragazzina che si è suicidata sotto al treno, stamattina?».

Un boccone di lasagna mi si ferma a metà tra le trachea e l'esofago e scoppio in una tosse terribile. Riesco per miracolo a sputare prima di morire soffocata.

Mia madre di certo lo interpreta come un brutto presagio, lei è cartomante, sì, è anche questo, e subito si incazza con Marco.

«Stiamo mangiando! Ti pare il momento di parlare di morti?».

La zia le fa eco: «Marco, vuoi farci andare per storto il pranzo?».

Ma lui stavolta affronta a viso aperto le sorelle, segno che ha qualcosa di serio da dire, dato che rischia il confinamento a vita.

«Certe cose non si possono ignorare, sapete? Quella ragazza aveva sì e no l'età di Eva e si è buttata sotto a una metropolitana in corsa! Secondo me è il malcontento generale tra i ragazzini di oggi, si sentono vittime, reietti, discriminati per il colore della pelle o per qualche chilo in più o in meno, si credono diversi e non c'è nessuno che gli spiega che sono nullità come gli altri, che non hanno niente di meglio o di peggio» poi ride, «che sono coglioni e basta».

«Marco! Sei pregato di evitare polemiche sterili e turpiloqui!», esclama mamma.

Lui ride sottecchi, le prende in giro, fa il finto filosofo, ma io non mi diverto per niente, sto sudando freddo, mi contorco, lo stomaco mi si contorce. Sembrava parlasse di me.

Farò anch'io quella fine? Sceglierò di arrendermi? Mio fratello la fa facile: sentiti banale. Come se ogni cosa poco interessante fosse normale. E come se fosse logico sentirsi poco interessanti.

Attorciglio le mani sotto al tavolo, mi si è chiuso lo stomaco.

Sfotte me, parla lanciandomi occhiate divertite: «Dico solo che dovrebbero organizzare corsi di autostima nelle scuole per abbassare la statistica di suicidi adolescenziali.»

Mamma gli passa un tovagliolo e sorride falsa: «Come secondo piatto ho preparato una misticanza a base di alghe, caro, vedrai che ti piacerà e ti alzerà l'autostima».

Ed è tutto quello che replica lei davanti a una storia che personalmente mi devasta più delle alghe.

Ore 17.00 P.M.

palestra

La mia giornata tipo: scuola, pranzo nauseante a base di erba di prato, palestra tra le Fiere dantesche e ritorno alla prigione con la nausea permanente. Non ne posso più ma non ho la forza di cambiare le cose. Ormai sono come anestetizzata, sembra che questa vita ingrata io la meriti, che non possa pretendere di più.

E rassegnata e vigliacca, arrivo in palestra come sempre a un minuto dall'inizio della lezione di posturale. Io odio stare un'ora a tenere dritta la schiena, stendere le gambe, abbracciare pioli come fossero amici fraterni che riporteranno la mia spina dorsale da goffa a meno goffa con due sedute a settimana per un anno. Ma mia madre ha deciso che sono storta, e anche se l'ortopedico le ha spiegato che la mia è una scoliosi lieve e che potrei fare qualunque altro sport, mi obbliga a fare questo.

Le mie compagne di corso hanno una media di vent'anni più di me e mi occhieggiano come si fa con il cibo scaduto, quindi non ho un dialogo con nessuna di loro. Questo è un club esclusivo, frequentato da milionarie che passano le giornate a giocare a tennis e a farsi le unghie e l'unica cosa che condividono con me è lo spogliatoio.

Cerco di rubare più minuti possibile alla tortura fingendomi sempre in ritardo e trafelata a causa del traffico, lo studio, la debolezza. Ma stavolta sono davvero in ritardo, sono arrivata a piedi.

Corro, salto, mi stendo e mi distendo. Corro, salto, mi piego e mi ripiego e passa un'ora.

Sono la prima a mettere piede nello spogliatoio. Non faccio nemmeno la doccia, mi cambio e basta, voglio uscire da qui.

Infilo la felpa, è storta come la mia schiena e la mia giornata. La sfilo e la rinfilo.

Una signora in mutande ma con tre chilogrammi di oro sul braccio civetta: «Avete sentito al telegiornale della ragazzina morta alla fermata della linea A? Il fidanzatino non ha ancora testimoniato perché è sotto choc, dicono».

Allaccio le scarpe da ginnastica alla velocità del razzo.

«Pare che la ragazza avesse diciassette anni appena compiuti» aggiunge e mi fissa attraverso la specchiera dello spogliatoio.

«Certo che sono proprio dei complessati, questi adolescenti!», risponde una che si spruzza il deodorante sotto le ascelle e mi lancia sguardi allusivi.

«Che poi uno pensa che abbiano tutto, musica, cinema, libri, sesso», interviene un'altra appena uscita dalla doccia che condivide le occhiate con le amiche che mi spiano. «E invece non gli basta mai, sembrano sempre depressi!»

«Vabbè, ma tu che ne sai?» dice un'altra che guarda prima me e poi il suo culo nello specchio come non lo avesse mai visto, «Magari era povera o brutta», si tasta sconfortata, «o senza fidanzato. Si sa, i giovani non hanno mezze misure: o si sposano o si impiccano ».

Ho di nuovo i conati. Esco. Di corsa.

A cento metri dalla palestra c'è la mia solita cabina, devo telefonare a Virginia, ma ho la tessera quasi scarica, speriamo di fare in tempo a comunicarle che penso di aver preso una decisione storica.

Quale decisione? Chiede lei, due minuti dopo.

Mi restano cinquanta secondi di autonomia, sarò diretta.

«Sto pensando di scappare di casa. Basta verdura, basta posturale, basta orari da carcerato, io me ne devo andare».

Bello! E so anche dove potresti dormire! Dice lei tutta euforica.

E io che pensavo che mi avrebbe consolata, dissuasa, invitato a cena e offerto una bistecca.

«Dove?», sospiro.

A scuola! Conto alla rovescia, mancano tre giorni! Poi ci aspettano due settimane di autogestione e occupazione! Significa che la scuola è nostra! Ci possiamo anche dormire!

«Io non ci dormo in quel palazzone che puzza di plastilina e di marijuana!», dico.

Eva, ma che dici, saranno due settimane epiche! Non penserai alla puzza quando Claudio passerà la notte con te a guardare le stelle dalla finestra dell'aula di matematica!

Finisce il credito. La comunicazione cade e per la prima volta ne sono felice. Io e Claudio a contare stelle di notte come fossero pecore? Neanche nei mie sogni scartati.

Non lo vedo da un po', la sua sezione è stata trasferita in succursale. Siamo stati insieme l'anno scorso per un mese, poi mi ha lasciata. Diceva che baciarsi e basta non era un modo per fare sul serio, ma io non me la sono sentita di perdere la verginità con lui. È un figo, lo so, ma crede che Picasso sia un quadro.

Si è fatto buio. Torno a casa con un'ora di ritardo e mia madre è di nuovo sul piede di guerra. Immagino che a questo punto mi punirà e mi segregherà per due settimane perché lei l'occupazione non la concepisce e ha appena trovato la scusa giusta. Da una parte mi sento sollevata: eviterò di finire nel tritacarne della bolgia anarchica o in un'aula con Claudio. E fornirà a me il movente: scappata di casa per ennesima ingiusta punizione inflitta da una madre veggente e vegetariana a metà.

«Santo cielo, Eva! Cosa fai, perdi le corse? Come mai oggi non hai fatto che tardare? Ho telefonato pesino a tuo padre e lui voleva prendere il treno per venirti a cercare».

È la cosa più assurda che le abbia sentito dire perciò non è vera. Papà il treno non lo ha mai preso in vita sua e aspetterebbe almeno quarantotto ore prima di venirmi a cercare, ha troppo da fare. Mamma non è in aria di punizione ma di disperazione, altrimenti mi avrebbe già rinchiusa in camera, forse mi ha letto nel pensiero e ha capito che sto per scappare. O glielo hanno detto le carte? Ma certo. Magari ha visto la mia morte sotto a un ponte e ora preferisce trattarmi bene. Ma non ha senso, farebbe prima a chiudermi dentro.

Sono troppo avvilita per inventare una scusa, «L'autobus non passava».

«L'autobus?», ha il tono di chi ha sentito una bestemmia. Ora non è più disperata, c'è voluto poco.

«Ma, dico, sei matta?», chiede arcigna. «Perché non hai preso la metro?»

Se esce fuori un'altra volta la storia del suicidio giovanile urlo.

«Tesoro», si finge comprensiva, «se hai finito i soldi della paghetta, basta che lo dici. Non c'è bisogno di mettere a repentaglio la tua vita per qualche spicciolo».

Mettere a repentaglio perché ho preso l'autobus? E se le racconto che la gente presa dal panico stava per travolgermi e calpestarmi, sotto alla metro, allora?

«Mamma, non ho fatto la doccia in palestra. Posso andare a farla?»

«Non hai fatto la doccia e hai preso l'autobus. Ma che ti sta succedendo?», è indignata.

«Posso andare?»

Come non sapessi trovare il bagno da sola, mi fa strada. Virgilio. Sulla sponda dello Stige osserva Dante e si chiede cosa mai gli dica il cervello per volere attraversare l'Inferno mettendo a repentaglio la sua vita invece di prendere una metro confortevole e farsi una comoda doccia presso il Master Gold Sporting Club.

Poi, miracolo, finalmente mi chiudo dentro e mi libero dei suoi occhi impietosi.

Sciolgo i capelli, queste lunghissime liane bianche e spesse. Corde. Mi fanno sentire talmente inadatta, fuori luogo, come una che vive sul pianeta sbagliato. L'albinismo in alcuni paesi è considerato una maledizione, in altri una benedizione; per fortuna io sono nata a Roma e qui è considerato solo strano. Nessuno si fa grandi teoremi su quelli come me ma molti mi evitano. Se c'è una che può capire cosa stanno passando in Africa sono proprio io: anche un bianco troppo bianco è discriminato, come se esistesse un bianco standard approvato dalla CEE e il resto fosse ghettizzabile.

Apro l'acqua e ci casco letteralmente dentro, infilata in pieno sotto al getto potente, e mi riempio le orecchie col suo scrosciare così acuto che riesce ad annullare tutto, meno che i ricordi. Come un mantra che mi assale quando abbasso la guardia ecco che mi torna in mente quella volta in aereo. Con i miei rientravamo da una conferenza sui trattori agricoli a Milano, due palle mostruose. Comunque, un ragazzino, avrà avuto undici anni, poco meno di quanti ne avessi io allora, mi ha guardata con occhi spalancati, gli facevo impressione, gli facevo schifo, e si è messo a piangere. Strillava, sputava saliva dalla bocca e mi frignava in faccia disperato con i genitori che tentavano di trattenerlo e di scusarsi, e non con me, si scusavano con i miei.

Ma non ci piango. Non più.

Passo una mano sullo specchio, oltre il vapore appare il mio corpo sottile, seno da coppetta gelato mille lire, bianco. Di marmo. Vorrei spiegare a quell'arpia della professoressa di chimica che non tutto si può colorare. Su di me, per esempio, nessuna tinta attacca, ho provato a farmi scura e sono diventata rosa; nessuna reazione chimica, io resterò così per sempre. Non ho melanina, non l'avrò mai. L'unica cosa che posso colorare sono le mie labbra e io adoro colorarle di rosso porpora, ma devo farlo di nascosto, mia madre mi ucciderebbe se mi vedesse truccata. Secondo me lei pensa che io sia un abominio e se usassi rossetto sarei un abominio col rossetto. 

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