7 - MANUEL, sinfonia

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Succede quando non riesci a dare il volto giusto alle cose, succede che facciano paura. Io provo a metterle in musica, se le suono non mi spaventano più, cambiano dimensione, diventano innocue. Però non è sempre così, ci sono cose che faccio finta di ignorare perché pesano come massi e schiacciano senza pietà.

«Professore, posso uscire? Devo lasciare un certificato in presidenza.»

«Vai, Remis.»

Mi porto dietro la chitarra, non posso lasciarla in classe, tra cinque minuti suonerà la campanella e dopo la ricreazione migreremo in un'altra aula.

Me l'assesto sulla spalla, allaccio il sacco con i libri e mi chiudo la porta alle spalle. Quando le sono passato accanto al banco non l'ho guardata di proposito, ho capito che la metto in soggezione. Dovrò porre rimedio, dovrò farlo.

Attraverso piano il corridoio, manca poco alla ricreazione, c'è già odore di pizza bianca, la compra il bidello, si mette col banchetto giù nell'atrio e la vende a mille lire al pezzo.

Devio il percorso, in presidenza ci passo dopo, ora devo fare in fretta.

Procedo a passi lunghi, non voglio essere intercettato da qualche disturbatore, l'ora non è finita ma la gente fuori c'è sempre, chi esce per bere, chi per fumare o perché non sa stare in classe fino alla fine, e voglio evitare rotture. Ho cambiato scuola ma le persone sono le stesse, in pratica mi sono solo spostato di cinque chilometri da dov'ero e non l'ho fatto per quello che mi è successo, l'ho fatto per lei.

Alla fine mi sono reso conto che le persone non sono davvero cattive, anche se fanno delle grosse cattiverie, è che agiscono senza pensare, che sono spaventate, per questo diventano egoiste; hanno paura dei mostri sotto al letto, nell'armadio, dentro al muro, dietro al mobile, sopra al soffitto, e diventano aggressive, s'incattiviscono perché pensano che così facendo faranno scappare i mostri. Se uno urla più forte vince, no?

Arrivo al bivio tra le porte dei bagni del secondo piano e l'aula di matematica del quarto D e mi fermo con le spalle contro la parete. Sento il battito che si fa potente nel petto, mi sto agitando, devo calmarmi.

«Remis!»

Sbuca dalla porta e interrompe i miei pensieri, ha la faccia distrutta, pallida, non lo vedo da tre giorni e sembra sparito nei suoi stessi pantaloni.

Gli do la mano, me la stringe, dico: «Che fai, lo sciopero della fame?».

Carlo alza le spalle e si osserva quei vestiti da rivoluzionario, fa un mezzo sorriso, «Mi piace vestirmi largo. Sto comodo».

Non è vero, sei dimagrito.

Mi allunga un pezzo di carta, «Qui ci sono l'indirizzo della chiesa e le coordinate del sagrato per piazzare gli strumenti, arrivate in sagrestia e vi dice tutto la suora».

A mia volta tiro fuori il foglio ripiegato e lo passo a lui. «Questo è il brano, ma la strofa non suona, dobbiamo rifarla. Cioè, la devo riscrivere, questo adattamento non mi soddisfa. Lo vuoi lo stesso?»

«Anna voleva questa. È More than words degli Extreme, no?»

«Certo. Ci apriremo anche il concerto dell'autogestione per la serata di commemorazione con quelli del Ripetta.»

«Grandi!»

«Mio fratello non sa niente, sceglie sempre lui i brani della scaletta ma stavolta mi sono impuntato. Crede solo che mi ci sono fissato.»

Prende il foglio, lo apre e inizia a studiarsi la partitura come fosse in grado di leggerla. Indica la prima riga di pentagramma, «Questi segni a matita che sarebbero?».

«Sono legature. Servono ad aumentare il valore delle note. In pratica--».

«Lascia stare», m'interrompe, «tanto sei te il compositore, io mi fido. Anzi grazie, sei un amico. Comunque il funerale è domani pomeriggio, non lo so, ma ce la fate?»

Sospiro, «Come fatto. Nessun problema».

«Il prete non era d'accordo, dice che le chitarre ce l'ha il coro suo, pensa te, ho dovuto pagarlo, quello spilorcio.»

Distolgo lo sguardo, «Ho saputo che hanno riaperto il tunnel e hanno tolto i sigilli.»

«Di che ti stupisci? La vita continua. I mostri quando te ne liberi si dimenticano in fretta.»

I mostri.

La campanella suona e le porte si spalancano. Ressa, spallate, tutti che corrono verso l'atrio per arrivare alla pizza prima che finisca. Voglio evitare che mi riconoscano, mi volto con la faccia al muro e Carlo mi si piazza davanti.

«Inutile, ormai lo sanno tutti che tu e tuo fratello vi siete trasferiti, non ti puoi nascondere, le femmine ti daranno la caccia», ride. Poi sbuffa, «Senti, adesso devo andare, ho la riunione col consiglio d'istituto, quest'anno sono vicepresidente, è una grossa rogna, non faccio in tempo manco a farmi una canna in bagno.»

«Mi raccomando mangia. E non ti imparanoiare, non aiuta.»

Lui scuote la testa, «Manuel, sto in una fase di rifiuto. Devo pure organizzare il gruppo di lavoro per l'autogestione, vogliono creare un parallelismo tra l'apartheid e non so quale girone dantesco, una cosa da farsi venire il mal di testa, e ti ci ho messo anche a te, mi servivano nomi, non mi dire di no.»

«No.»

«Ti prego, Ma', fallo per me.»

«Non c'ho tempo, Carlo. Devo fare un mare di verifiche per rimettermi in pari, mi hanno già assegnato a una ragazza per le ripetizioni, e poi ho la sala prove tutti i giorni.»

«Faccio includere anche lei, chi è ? Chi te le dà le ripetizioni? Dai, lo fate nelle aree adibite, due piccioni co' 'na fava.»

Abbasso gli occhi, non so perché il nome mi esce in un fiato, quasi trovassi sacrilego violarlo, «Non la conosci, Eva Neri».

«Ma chi, l'albina? Neri terza A!»

Lo esclama con un tale entusiasmo che mi stranisce all'istante.

Riprende, «Dentro anche lei. Tanto già mi era venuta in mente. Non mi sorprende che te l'abbiano assegnata, lo sai che è la sedicesima su novecento nel punteggio scolastico?».

Non credo di aver capito cosa intenda ma ho capito che non voglio, non la voglio in mezzo ai comitati, non voglio che le facciano del male, che la prendano in giro, non voglio essere costretto a—

Manuel!

Un do-re maggiore spezza la tensione e mi fa scattare col viso a un gruppetto di ragazze che ci arriva incontro in velocità. Altre note urlate, Manuel Remis! Dai, sei tu, oh Dio!

Carlo mi fa l'occhiolino, «Le vado a parlare subito, alla Neri, tu intanto firma un po' di autografi.»

«No, fermo un attimo, non t'ho detto di sì--»

Ma lui s'infila nella bolgia e la bolgia mi assale. In meno di un secondo mi ritrovo circondato da suoni assordanti, affondato in un canone inverso da cui tento di fuggire con parole di circostanza e finti saluti e sorrisi che non mi riescono bene.

Manuel, io ho visto tutti i vostri concerti, sei bellissimo.

Manuel mettiti con la mia amica, ti ama da morire.

Levati, cretina, l'ho chiesto prima io.

Gli vado dietro da tre anni, c'ero prima io!

E spostati, stronza.

Mi stanno dietro e stridono mentre mi faccio il corridoio in velocità per bloccare quel pazzo di Carlo.

Non sono abituato a stare al centro dell'attenzione, quando siamo sul palcoscenico siamo soli, è paradossale ma ho sempre avuto l'impressione di suonare in solitaria, anche se stavo davanti a tutta la scuola. Ma da quando siamo diventati delle specie di idoli è cambiato tutto, e non riesco a farci l'abitudine.

Manuel Remis! Oh Dio, i Pride!

Una ragazza con la treccia di lato mi arriva addosso e blocca la mia marcia.

Anche quest'anno farete il Festivalbar? Me lo sono registrato, me lo rivedo tutti i giorni, lo sai?

Cerco di liberarmene, rispondo senza guardarla, «No, quest'anno no».

È iniziata l'anno scorso: il nostro gruppo ha vinto il contest nazionale organizzato da Emergenza-Rock ed è stato invitato a partecipare a due puntate del FestivalBar come gruppo ospite emergente; per noi che non eravamo nessuno è stato un traguardo davvero importante, abbiamo ottenuto il primo vero contratto con un'etichetta discografica indipendente, ma questo ha creato intorno a noi un'attenzione inaspettata e ora sembriamo delle star , per come ci braccano, e non si può tornare indietro.

Fate concerti? Resterete qui in centrale? Suonerete durante l'autogestione? Posso venire a sentirvi in sala prove? Ma la ragazza ce l'hai?

Dico , dico no, dico certo, ma non so a cosa sto annuendo e per cosa sorrido. Non le sto a sentire, devo raggiungere Carlo prima che le parli, gli dirò che va bene, che io ci sarò, ma che Eva Neri non deve coinvolgerla.

I gradini in salita e di corsa non sono il mio forte, con tutta questa roba addosso e tutte queste note stonate nelle orecchie finisco contro due di loro e quasi ci cappottiamo in tre sulla scala. Sono due bionde che non la smettono di ridere e di toccarmi, una mi accarezza il viso, ma la mia preoccupazione va alla chitarra, mi studio subito l'involucro per vedere se si è ammaccato.

Non riesco più a capire cosa dicono, le loro voci si sovrappongono e quando di suoni ce ne sono troppi entro in crisi. Faccio uno sforzo enorme per controllarmi.

Troppi suoni. Troppi, troppi suoni. Vedo annebbiato.

Un tipo alto e massiccio che non conosco sale su per la scala sorretto al corrimano e mi osserva minaccioso: «Oh, stronzo, ce sei venuto dalla succursale a rubarti le donne degli altri? Ti spacco la chitarra!».

Lo stesso tono, le stesse parole. Rivivo quel momento, quello della crisi seria di sei mesi fa, mi torna addosso come un'onda sonora e non riesco a fermare le immagini che m'annegano all'improvviso.

«Ti spacco la chitarra!», aveva urlato.

Era un sabato, faceva freddo, era dicembre. Stavo suonando in fondo al corridoio, seduto per terra, durante l'ora di buco. Stavano tutti in giro, chi faceva casino, chi si faceva una canna, io suonavo. Era l'ultima ora, poi tutti a casa.

Loro, un gruppetto di skinhead, non gradiva la mia musica, per loro era rumore, solo rumore. In effetti non stavo suonando melodico, a orecchie profane potevo risultare fastidioso, ripetevo e ripetevo sei accordi essenziali, mi servivano per l'apertura di un'opera leggera che cercavo di comporre da settimane, che non riuscivo a far decollare. Avevo pensato a lei, alla ragazza di zucchero, volevo che quelle note fossero per lei, per i suoi capelli come fili d'angelo, per quella pelle che sembra di un altro pianeta, volevo scrivere per lei ma non ci riuscivo. Ero come bloccato sempre sulle stesse note che non suonavano come volevo.

Quei tizi, rasati, tatuati, incattiviti mi erano arrivati intorno. Io stavo sul pavimento e loro mi scalciavano come una cartaccia da gettare, Hai rotto il cazzo co' 'sta merda, avevano detto, adesso ci suoni qualcosa degli Iron Maiden, fai uno show per noi, altrimenti ti facciamo pentire di esistere. Se sai suonare veramente, li sai suonare.

Non li ho mai amati, mancano di tecnica, ma dirlo non sarebbe servito, non volevo perdere tempo.

Avevo risposto distratto, Imparate ad ascoltare la vera musica, senza considerare che quelli non aspettavano altro che una buona provocazione per liberarsi di me.

Uno aveva detto Manco li conosci, tu, coglione, non li sai suonare!

Avevo ribattuto Troppi riferimenti a Satana e riff assolutamente prevedibili.

Non c'aveva visto più, mi aveva sollevato a forza e tirato con le spalle contro il muro. La chitarra mi stava scivolando e mi ero spaventato all'idea che cadesse, non mi ero controllato e d'istinto gli avevo assestato una capocciata centrandogli in pieno il setto nasale. M'aveva lasciato ed era andato indietro con le mani in faccia.

I suoi amici mi erano arrivati addosso, mi tenevano fermo e mi avevano strappato di mano la chitarra.

«Mollatela subito, non la toccate!», avevo urlato.

Non mi importava di essere picchiato ma non potevo sopportare l'idea che toccassero lei.

Erano così eccitati nel vedermi sconvolto, più io soffrivo più loro godevano, glielo leggevo negli occhi, e l'avevano sbattuta contro il muro una, due, tre volte. Lei emetteva suoni scoordinati e stonati, stava morendo, e avevo perso l'equilibrio a sentirla spaccarsi. Osservare le corde che saltavano mi aveva come mandato in coma mentale, non capivo più niente. L'avevano calpestata fino a ridurla in pezzi, li vedevo al rallentatore, tutti intorno a lei, le loro gambe che scalciavano, le ginocchia sollevate che si piegavano e poi affondavano, i piedi che schiacciavano, il legno che scricchiolava e si incrinava e poi si spezzava insieme al mio cuore. Era stata come una stilettata feroce, l'agonia inarrestabile di assistere alla sconfitta innocente di qualcosa che ti aveva fatto bene, ti aveva dato tanto e non meritava di finire in quel modo orrendo.

La mia chitarra è l'espressione dell'altra parte di me. La mia mente non si comporta come le altre, viaggia costantemente su due binari, la realtà che mi circonda e la mia realtà, una sorta di universo parallelo in cui mi rifugio automaticamente. Da piccolo vivevo distaccato dalle persone e dalle cose e l'unico modo che avevano trovato per mettermi in contatto con questo mondo era stata la musica. Suonare mi aiuta a tenere uniti questi due aspetti, a non far deragliare i binari. E in quel momento, quel giorno, qualcosa si era rotto fuori e dentro di me. Ero andato in collisione con me stesso e non sapevo se mi sarei ripreso.

A un certo punto avevo smesso di reagire.

Mi avevano preso di peso, per le braccia, le gambe che si trascinavano, la testa china, arreso, e scaraventato nel bagno, quello con le sbarre alla finestra, al pianterreno, vicino al magazzino, dove non c'era mai nessuno, una specie di cella con l'orinatoio, un rettangolo preciso.

Avevano urlato: qua ce resti fino a lunedì, bastardo. Buon weekend!

Mi avevano chiuso dentro.

La campanella era suonata, la scuola si era svuotata, nessuno mi avrebbe tirato fuori.

Faceva un cazzo di freddo e non avevo niente per coprirmi, non potevo chiamare aiuto, cercare qualcuno, e la mia mente andava alla chitarra spaccata contro quel muro e su quel pavimento.

Avevo iniziato a prendere a calci la parete e a prenderla a pugni, le nocche sanguinavano e io non la smettevo, ero in piena crisi.

Erano passate delle ore, mi ero disperato fino a smettere di muovermi e forse di respirare, ridotto a un vegetale, chiuso dentro.

Era sceso il buio, s'era fatta notte.

Era chiaro che sarei rimasto in gabbia fino a lunedì. Mi ero sdraiato su un fianco, stretto a me stesso, tremavo e non so per quanto non mi ero più mosso e avevo ripensato alla mia chitarra distrutta. Ero in lutto.

Era calato il buio e aveva gettato ombre sinistre nel rettangolo di maioliche e calce.

Dalla finestrella avevo sentito arrivare un suono, era probabilmente un allarme ma quel suo lento ripetersi mi aveva aperto gli occhi. Spalancati. La nota. L'aumento. Aumento di nota. Suono due, poi tre, salgo e il ritmo si fa serrato, mi avvicino all'apertura. Sì. I binari si erano allineati.

La luce proiettata dai lampioni della strada attraverso la feritoia era fioca a quell'ora di notte, ma io mi ero messo a tastoni lungo il pavimento, inginocchiato a cercare un pezzo di pietra, un gesso, qualcosa di acuminato, dovevo assolutamente scrivere quello che mi stava assillando la mente, non potevo più contenerlo.

Avevo trovato un frammento di graffite appuntito e per tutta la notte e per tutto il giorno seguente, senza sosta, senza bere, senza mangiare, senza dormire, avevo composto la mia opera su quel muro del gabinetto, incidendolo con i segni rudimentali di una partitura improvvisata. Le mani incidevano, le braccia spingevano, la mascella serrata e gli occhi stretti, componevo e sentivo la musica suonarmi dentro, i suoni e le note mi turbavano, riempivano i sensi, potevo sentirle, potevo cantarle, ballarle, battevo il tempo, erano nitide e andavano insieme come in una danza perfettamente sincrona, legate oppure spezzate, unite e poi solitarie, ferme e poi di nuovo in movimento; il corpo non si era stancato, ero preso da una frenesia inarrestabile. Avevo inciso esaltato, senza riuscire a fermarmi. Era stata un'estasi, un amplesso che mi aveva rapito completamente i sensi e trasformato in un essere capace di suonare la musica con la calce.

Ore, un giorno, un sole di alba e uno di tramonto avevano attraversato quelle sbarre proiettandosi sulle mie incisioni.

E poi era diventata di nuovo notte.

Mi ero accasciato esanime. Le mani sanguinavano. L'opera era finita.

Il lunedì mattina era stato uno di loro ad aprire la porta prima che il bidello se ne accorgesse. Mi aveva trovato mezzo addormentato, la schiena contro il muro, ma non era stato questo a sconvolgerlo, aveva urlato, Correte, cazzo! E tutti i suoi amici erano arrivati dietro di lui. Si erano guardati intono con le bocche aperte e gli occhi increduli.

Avevo riso, non ero riuscito a trattenermi, Ragazzi grazie, vi sono grato, ho composto la mia opera grazie a voi e avevo riso e riso al punto che si erano imbestialiti.

Uno aveva detto Come cazzo spieghiamo 'sto muro rovinato al preside? Non potevano cancellarlo e né distruggerlo, avevo inciso ogni nota nell'intonaco.

Erano incazzati neri, mi erano arrivati addosso, Bastardo autistico di merda, mostro! e mi avevano preso a calci. Tutti insieme. Io ero chiuso su me stesso ma ne avevo prese talmente tante che alla fine ero svenuto. Ma ero felice, la mia opera era completa.

Mostro, avevano detto. Uno di quelli che fa paura.

Certe cose hanno un nome e io lo metto in musica così non mi spaventa ma a volte pesa lo stesso.

Riprendo la discesa dalla scala, scanso il tipo massiccio con una spallata e un'occhiata eloquente, tocca la mia chitarra nuova e ti ammazzo, lui indietreggia, io proseguo e ignoro chiunque mi arrivi incontro, donne, mani, occhi.

Adocchio Carlo che va verso le ragazze della mia classe, tra loro c'è lei. Devo raggiungerla, impedire che Carlo le parli del comitato.

Affretto il passo e intanto penso che un giorno quell'opera lei l'ascolterà , la ragazza di zucchero l'ascolterà.

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