8 - EVA, il bucaneve

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"L'Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;

se ce n'è uno, è quello che è già qui,

l'inferno che abitiamo tutti i giorni,

che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne.

Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno

e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e

apprendimento continui: cercare e saper riconoscere

chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno,

e farlo durare, e dargli spazio."

Italo Calvino


Quarta ora: figura modellata


Esodo di gruppo fino al secondo piano. Trasportiamo lo stiratore lungo i corridoi, migriamo nell'aula di Figura modellata dove la plastilina serve per i bassorilievi e non per addobbare i soffitti. Cammino coperta da una tavola di compensato cento per settantacinque centimetri e mi accorgo che il sessantottino del consiglio d'istituto mi tampina.

Esclama: «Neri terza A!».

Sobbalzo. Devo tenere in equilibrio anche lo zaino sulle spalle e il rotolo di fogli ruvidi, non posso guardarlo.

Lui parla ancora: «Senti, sto organizzando un gruppo di lavoro per il comitato dell'autogestione e ho pensato che potresti farne parte anche tu».

«E come mai lo hai pensato?»

«Beh, sei al sedicesimo posto su novecento. Di sicuro sei secchiona, metodica, disciplinata.»

Continuo a camminare, «Ti sbagli. Studio a malapena i testi programmati. Ma grazie del pensiero».

Poi il mio stiratore levita. Lui lo afferra e se lo carica per guardarmi in faccia o per essere ruffiano, non mi è chiaro.

Senza il fardello davanti alla faccia la visuale si apre sull'esodo e con la coda dell'occhio percepisco la figura del Magnetico in avvicinamento, non so come sia possibile ma mi sento addosso quegli occhi che attraversano. I miei muscoli si tendono all'istante.

Il sessantottino dice: «Non è vero, Vamp, hai la media del nove in tutte le materie.»

«E smettila di chiamarmi Vamp!»

Sbianca e si guarda intorno. Ha paura di me anche lui. Infatti cambia atteggiamento, ora ha quello del leccapiedi.

«Ti prego, sono solo due settimane, vogliamo fare un lavoro come si deve per portare avanti la battaglia dell'integrazione».

Certo, lo immagino.

Possibile che il Magnetico ci stia ascoltando?

Insiste: «In cambio ti do una classe».

E questo arresta la mia marcia e mi induce a osservarlo.

«In che senso una classe

Il magnetico mi sfiora e prosegue, e la sua, potrei giurarlo, è una scia elettrostatica.

Il sessantottino si gonfia, ne va fiero, non lo so, di essere un distributore di classi.

«Puoi insegnare quello che vuoi.»

Sospiro forte.

«Insegnare?», è impazzito?.

«In autogestione si fanno come sempre le materie didattiche, non è che non si fanno, ma si organizzano le lezioni tra di noi, senza interferenze dei professori, e poi ci sono materie extrascolastiche come recitazione, musica e canto, abbiamo a disposizione il teatro Castello per quelle lezioni. Se sei particolarmente brava in qualcosa puoi insegnare. Se il direttivo è d'accordo. E si da il caso che io sono il vicepresidente del direttivo, quindi... .»

La cosa più assurda che abbia mai sentito: io, Eva lo spettro, la cadaverica, davanti a una classe. Verrebbero solo per guardarmi. Distribuirebbero il numeretto all'ingresso. Diventerebbe un business. Però devo ammettere che questo secchetto anni settanta ha un'energia da fare invidia a una mandria.

Torno in me e ho davanti il professore di Modellato fermo sull'uscio dell'aula che mi fissa con il registro aperto tra le mani.

«Devo entrare!»

Strappo lo stiratore dalle braccia del sessantottino vicepresidente del direttivo degli sfollati e mi lancio verso l'aula prima che il prof mi metta una nota.

Sono l'ultima a entrare e il prof Guidi è proprio alle mie spalle che blatera: «Neri, se anche tu mi caschi nella spirale degli anarchici d'istituto significa che è morta anche l'ultima speranza».

Se gli dicessi che non sono cascata da nessuna parte sembrerei una ruffiana, per cui sto zitta e mi scelgo il posto vicino al finestrone.

Questa è una della aule più grandi della scuola, una specie di piazza d'armi, da qui evito lo sguardo strafottente di quelli che pensano di usarmi come bersaglio solo perché sono incapaci di fare qualsiasi altra cosa.

Mi siedo sullo sgabello e piazzo la tavola sul cavalletto e mi accorgo che sul retro del piano di compensato c'è attaccato un foglio piegato. Strappo lo scotch che incolla le estremità e lo tiro via dal mio stiratore.

Virginia, sempre vicino a me come una guardia del copro, inizia a stendere la plastilina con la spatola e sbuffa, «Lascia perdere il comitato d'istituto, è composto per lo più da professori, ti ritroveresti a studiare pure durante l'autogestione», fa un cerchio e lo riempie, sembra una pizza.

Mi osservo il foglio tra le mani e prima di aprirlo ho l'istinto di guardarmi intorno. Vedo risolini scomposti, chi si china sull'orecchio di qualcuno per bisbigliare qualcosa, impossibile che stiano tutti aspettando che io apra un pacco bomba perciò tiro il fiato e cerco di rilassarmi. Anzi decido di metterlo via e di non aprirlo.

«Che schifo, senti che odoraccio!»

Virginia si lamenta sempre perché dice che la plastilina unge e puzza. In fondo non posso darle torto, è grasso di balena.

Mi chino per lasciar cadere il foglio di lato, accanto al sacco con i libri.

«Comunque non mi interessa nessun gruppo di lavoro, io all'autogestione non ci sarò proprio, altro che comitato.»

«Non ci provare», fa il sorrisetto stupido di quando sta per sfottere, «tu devi fare la maestra al fico!» e col mento indica il Magnetico, laggiù, vicino alla porta.

«Non me lo ricordare.»

«Cos'è quello?»

Mi osservo il foglio nella mano e mi odio per essere così tremendamente lenta.

«Non lo so, niente.»

«È una busta a sorpresa, c'è qualcosa dentro.»

Lei è già eccitata e io invece ho una paura fottuta.

«Dai aprila!», mi spinge.

La odio quando fa così.

Gliela passo, «No, aprila tu».

L'afferra senza troppi convenevoli, «Sei proprio la peggio», ride di me.

Con un gesto secco apre in due la pagina piegata e poi spalanca gli occhi.

«Che c'è, cos'è?», allungo il collo, «Dai, fammi vedere».

Lei nasconde la busta dietro la schiena, «No, prima mi dici dove l'hai presa».

«Era attaccata al mio stiratore.»

Lei mi mette il foglio sotto al mento, «Non ho idea», dice, «di dove possano aver preso questo fiore. È un bucaneve, non ce ne sono mica in giro, cresce a grandi altitudini. Poi va be', hanno inventato le serre, ma i fiorai non ce l'hanno.»

Osservo il fiore bianco, lo stelo lungo, i petali sottili. Essiccato e attaccato al foglio.

«Come sai che è un bucaneve?»

«Ne sono strasicura. Ti ricordo che quella di Ornato Figurato ci ha fatto disegnare fiori per un intero semestre l'anno scorso, e a forza di cercarli sull'enciclopedia mi sono fatta una cultura.»

Me lo fisso tra le mani.

«C'è una scritta nascosta, guarda», indica il retro del foglio, proprio sotto al fiore essiccato.

Fissiamo la scritta con le teste attaccate e gli occhi assottigliati come fossimo due guerce.

«Ma che roba è? Sono rime?», chiede confusa.

Provo a leggerle piano, una parola per volta: « Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec' io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch'i' cominciai come persona franca».

«Ma è Dante!», esclama lei.

E io che conosco a memoria questi versi perché ci siamo stati sopra un mese, dico: «Secondo canto dell'Inferno».

Il professore urla: «Non avete ancora cominciato? Volete un due collettivo?».

E nessuno replica. Ci guardiamo tra noi, disorientati come idioti, non ha posizionato nulla al centro dell'aula, non ha portato oggetti oggi.

«Autogestitevi. Vediamo cosa inventate.»

È una provocazione, la sua, proprio non gli va giù la storia dell'occupazione. E ora devo trovare qualcosa da scolpire prima che passi a controllare.

Mi volto in tutte le direzioni alla ricerca di una qualunque fonte d'ispirazione e mi imbatto di nuovo in lui, il nuovo arrivato. È in piedi, in prima fila, con le mani piazzate sui bordi dello stiratore.

Mi osservo di nuovo il fiore essiccato tra le mani e mi domando se—

«Secondo te chi te lo manda?», bisbiglia Virginia.

Lo chiudo e lo infilo nella tasca dello zaino.

«Secondo me non è un regalo, è uno scherzo, magari sopra c'è un veleno che presto mi ucciderà».

«Ma l'ho toccato pure io!»

Mi fa sorridere, «Per questo cita Dante, perché mi farà finire all'Inferno».

Io mi trovo divertente ma lei mi osserva attonita.

Per la prima volta non riesco a concentrarmi sul compito.

Cinque minuti.

Venti.

Quaranta.

Vorrei evitare ma non posso impedirmelo, l'occhio cade laggiù, sul Magnetico.

C'entra lui?

No, impossibile. Non mi conosce, perché dovrebbe? E poi finora non ha mai guardato da questa parte, l'avrebbe certamente fatto se fosse stata una sua idea; invece sta lavorando, è l'unico che lavora.

Non riesco a smettere di fissarlo. Ma che sta ritraendo? Cerco di capire dove orienta lo sguardo quando prende le misure per calcolare le dimensioni, ma non lo capisco.

È finita la prima delle quattro ore di Modellato e io non ho ancora fatto niente.

Impugno la miretta e piazzo la mia sigla vpdm in fondo allo stiratore, poi alzo la mano.

«Che c'è, Neri?», chiede il professore.

«Posso andare in bagno?»

«Vai. Ma veloce.»

Guidi non manda mai nessuno in bagno a meno di vederti stramazzare dal mal di pancia o col vomito in faccia, ma me sì, perché sono l'unica studentessa che abbia mai preso un dieci con lui. Così dice. E comunque non devo andare in bagno, è che non mi è venuto in mente un altro modo per passare accanto al Magnetico e sbirciargli la tavola.

Cammino quatta verso di lui e non bado alle risatine che mi girano intorno mentre passo, ignoro gli zaini che mi ficcano tra i piedi apposta per farmi inciampare, sono a pochi metri da quello stiratore di legno e non vedo l'ora di scoprire chi sei, Manuel Remis.

Faccio lo slalom tra i cavalletti sparpagliati e le tavole ancora immacolate dei miei compagni incapaci e più mi avvicino, più da quella sporchissima tavola s'intravede qualcosa che impressiona davvero; ancora uno, due, tre passi verso di lui e mi accorgo che ha impalcato un bassorilievo, il mezzobusto del professore che legge il giornale, ci sono persino le incisioni sui titoli; non riesco a crederci, è un mostro di bravura, ma allora è vero che è un gen--

Metto il piede in fallo, qualcosa ha bloccato la caviglia, inciampo e precipito in avanti. Finisco contro il suo sgabello e sbatto per terra.

Faccio un botto che pare lo scoppio di una bomba.

Ridono tutti.

Nel volo mi sono trascinata dietro le sue mirette, le sue spatole e tutte le sue stecche si sono riversate lungo pavimento e rimbalzano col frastuono del legno che si sparpaglia di colpo e finisce per roteare tra piedi e sgabelli. Le ascolto piroettare lentamente senza respirare, con la faccia a terra e immobile.

Non ho il coraggio di alzarmi e di guardarlo in faccia.

Non è stato un incidente, è stata una catastrofe. Io sono quella che gli farà da maestra? Io? Io morirò prima. Per mano mia. Ora mi conficco una delle sue spatole nel cuore e la faccio finita.

«Neri?», mi chiama il professore. «Ti alzi o ti fai un pisolino?»

Sta peggiorando la situazione con le sue battute! Passo in un attimo da donzella da salvare a cretina da deridere.

Intorno a me si accavallano risatine e commenti divertiti. Cose tipo ce la fai ad alzarti o chiamiamo la forestale? La cadaverica è inciampata nella sua ombra? Fate spazio, è caduto un fantasma!

Ho lo stomaco contorto. Ora è ufficiale anche per Manuel Remis appena arrivato dalla succursale che io sono lo zimbello albino della centrale.

Mi metto in piedi e mi accorgo che è stato facile, quasi senza sforzo. Me ne accorgo perché la mano di Remis stringe il mio fianco e si carica del peso quasi inesistente del mio corpo.

Gli finisco a un palmo dal viso. Ha uno sguardo così impenetrabile che mi pare d'aver vibrato al suo tocco.

L'adrenalina mi corre dentro. A un centimetro di vento dal suo zigomo mi accorgo che è diafano solo per mettere in risalto il magnetismo di due pietre nerissime che luccicano mentre mi fissano. Se gli occhi fossero lance ora mi avrebbe attraversata. E mi convinco che la sua espressione è preoccupata. Non credo sia per la mia caduta, sono quasi sicura che sia disgusto. Ha tra le mani una carta da lucido e lo so perché subito allenta la presa come temesse di strappare l'involucro che avvolge questa tipa luminescente che gli è piombata addosso.

«Scusa», dico piano.

Lui non la smette di osservarmi rapito e non risponde, l'ho proprio sconvolto.

Se solo le mie guance potessero arrossire. Se per un attimo i miei capelli finissero in ombra e perdessero luminescenza. Dio, se solo fossi un'altra, una normale, con i colori, ora potrei sorridergli e presentarmi e sembrare persino simpatica. Invece peggioro la gaffe con l'imbarazzo e indietreggio a occhi bassi. Sono la perfetta soggetta da prendere in giro. Per giunta secchiona. Sono anch'io un fottuto cliché.

Ora vado in bagno. E ci resto.

Mi lancio verso la porta e me la chiudo dietro. E quando sono spalle al muro in corridoio scivolo per terra, avvinghio le ginocchia contro il petto e ci ficco dentro la faccia.

Remis non ha detto una parola. Nemmeno un non ti preoccupare. Devo averlo proprio inorridito, non la smetteva di fissarmi.

Ma poi perché mi preoccupo? Ma chi lo conosce, quello? Magari è un cretino che presto farà parte del giro dei molestatori della scuola e inizierà a lanciarmi in testa la plastilina per vedere il manto bianco diventare a pois!

La porta dell'aula si apre.

Virginia mi raggiunge e si china su di me. Tenta di sdrammatizzare con una specie di risatina e non capisco cosa ci sia da ridere. Nemmeno mi muovo.

La sento dire: «Guidi mi manda a vedere che fine hai fatto».

Mi pareva strano che l'avesse fatta uscire.

Parlo ovattata nelle ginocchia: «Niente. Tutto bene. Arrivo».

«Oh, comunque hai fatto colpo, Eva!» dice lei, il tono eccitato da matta.

Mi decido a guardarla, è troppo euforica per essere ignorata.

Lei sorride come un'ebete.

«Manuel Remis, quando sei uscita, ha chiesto al professore se poteva venire a vedere se stavi bene. E il professore gli ha detto Neri non ha bisogno del cavalier servente, rimettiti al lavoro, Remis. E tutti hanno riso. E, lo sai, lui è arrossito. Dico, ti rendi conto?».

Beato lui che arrossisce.

Però non le credo. Cioè, di sicuro non è così che quel dialogo va interpretato. Lei salta subito alle conclusioni perché nella vita vede tutto in rosa, ma la figura che ho fatto è stata talmente umiliante che posso solo pensare che quella del Magnetico fosse compassione.

Mi aiuta a mettermi in piedi, quasi le piombo addosso, sono tutta un tremore, mi vergogno a morte pure a rientrare in classe ma non ho scelta.

Rientriamo e io le cammino dietro con gli occhi al pavimento, così evito di inciampare di nuovo.

Torno al mio stiratore senza alzare lo sguardo e ignoro occhiate sadiche.

Però adesso devo sapere, devo capire. Non ce la faccio a restare col dubbio, mi sta logorando.

Ci penso un attimo: dietro di me c'è il cavalletto di Mara Bini che mette in mostra la mercanzia come una cubista e non capisce niente di disegno ma di uomini sì. Decido di rivolgermi a lei, mi detesta, non mentirà.

Le sussurro: «Bini? Senti, quando sono uscita, dopo che gli sono caduta addosso, che ha detto quello nuovo?», fingo di chiederlo infastidita, non posso mostrarle il fianco e darle una ragione in più per sfottermi.

Mara mi lancia un'occhiata obliqua, sembra sorpresa che le abbia rivolto la parola. Ma subito dice: «Secondo me hai un ammiratore, bianca. Anche se sembra incredibile», sghignazza.

Non so perché ma avverto di nuovo quella fitta allo stomaco. Forse Ginni ha visto giusto!

Ma lei continua: «Il pallido ha chiesto al professore di uscire per vedere se ti serviva aiuto e lui gli ha detto che a te non serve mai aiuto. Mi sa che Guidi ti porterebbe a letto molto volentieri.»

Il corteggiatore, quindi, sarebbe il professore di modellato? L'idea dello scultore sessantenne che puzza di grasso di balena e mi trascina nel suo letto mi sposta indietro come un getto di aria bollente.

La sua è una versione opposta a quella di Virginia, dovevo aspettarmelo. Detto così in pratica Remis ha pensato che fossi una poveraccia e il professore mi ha difesa.

Mi deprimo e intanto Guidi compare davanti alla mia tavola e storce il mento.

Dice: «Neri, oggi non hai combinato niente. Sei stata mezz'ora in bagno e chiacchieri con Bini».

Immagino che la cosa che accetta meno sia di vedermi parlare con l'ultima nella sua materia.

«Direi di cancellare questa lezione prima di cambiare la mia valutazione su di te, Neri» aggiunge.

Come potrà questa giornata andare peggio? Beh, sarebbe peggio se Guidi mi chiedesse di andarci a letto. Magari nell'aula di matematica, con Claudio che guarda e Mara Bini che applaude.

La campanella suona come un'ossessa, tutti a casa, la tortura è finita.

Infilo ogni cosa addosso e dentro e sopra e sotto alla velocità del fulmine, voglio scappare, evaporare, volare fuori da scuola a costo di planare.

Mi carico tutto e Ginni cerca di corrermi dietro ma la stacco in velocità e faccio a spallate lungo il corridoio per sparire il più in fretta possibile dalla figura di merda che ho fatto oggi e poi, come in un incubo dei più terribili, una mano stringe il mio braccio e mi costringe a rallentare.

«Aspetta, posso parlarti un attimo?»

Non è possibile! È la voce di Manuel Remis e ora spero che gli Inferi mi risucchino perché non ho il coraggio di girarmi.

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