Capitolo VI- Extra Chorum

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La seduta di legno scricchiolò appena quando Emeline l'aprì per sedervisi: scomoda, rigida, la causa di quei mal di schiena che la coglievano di soppiatto quando tornava a casa e, sdraiata sul prato, le facevano mancare il respiro per il dolore alle reni.

Montgomery pregava tutti di prendere posto il più velocemente possibile, perché quella mattinata avrebbe dovuto impiegarla nel dar loro le -troppe- direttive per la giornata in laboratorio della settimana successiva.
Da mesi una banalissima separazione dei pigmenti della clorofilla veniva rimandata, sotto obiezione di tutti; ma sebbene fosse un esperimento assurdamente semplice in confronto a quelli che avevano già attuato, Montgomery sembrava ancora provato dalla disastrosa fine dell'ultima calibrazione di Zinco.
Si schiarì la gola, prese a dire quanto fosse necessario che tutti seguissero le sue istruzioni, mentre veniva adocchiato con poco interesse e molta perplessità.

Emeline si sistemò sulla seduta, sbuffando di fastidio.
Diede un'occhiata alle sedute vicino a lei, rassicurata come al solito nel trovarle vuote: nessuno voleva mai l'ultima fila dalla parte esterna, dove le lunghe finestre semiovali irradiavano le postazioni con i loro algidi sospiri.

«E lasciami stare, idiota...» Qualcuno, dietro di lei, stava ridendo.
Abbaiando, più che altro, nelle sue risa soffocate e stridule.

«Ormai ti metti qui... no, non mi interessa.»
Altre risa. «Ormai ci mettiamo qui.»

Emeline premette le labbra una contro l'altra, affondando nel doloroso legno dello schienale quasi ne volesse diventar parte.
Due ragazzi -uno dai capelli di una strana sfumatura di biondo ramato, l'altro dinoccolato, con il fare di un cane randagio- fecero per sedersi vicino a lei.

«Sono libere?» chiese uno dei due, lanciandole un'occhiata da cui non era riuscito a nascondere la perplessità.
Forse era sorpreso di vederla lì, in mezzo a tutte quelle spalle larghe, quelle giacche di tartan e quei gruppi vivaci e chiassosi e maschili, suppose lei. 

«Da sempre.» Emeline li osservò. Mai visti. Portavano addosso il profumo del freddo dell'esterno, e non avevano alcun libro se non un dizionario.

Si sedettero, ringraziando uno dopo l'altro con la classica cortesia spiccia che gran parte degli studenti della Vaas adottava con gli sconosciuti.

«E, per favore, quando andremo nell'aula di laboratorio vi chiedo di calibrare ogni elemento con la maggior cura possibile, onde evitare spiacevoli incidenti di cui già siamo a conoscenza.»

«Ma che diamine è?» mormorò quello col fare da randagio, divertito da quella confusione.

«Non ne ho la più pallida idea.»
L'altro si guardò un po' intorno, quasi cercasse qualcosa.
«Lo vedi?» chiese infatti, alzando in mento in direzione delle prime file.

«No, non capisco dove si sia messo.
Non potevamo aspettarlo fuori?»

«E perdere un'ora a impazzire su questo aoristo? Non ci penso nemmeno.»

Studenti di lettere.
Emeline collegò il tutto, confermando la sua tesi quando guardò i loro volti contrarsi in assurdi ghigni divertiti appena Montgomery prese a snocciolare parole quali "cromatografia su carta" e "etere di petrolio".

«Senti, fa' un giro per l'auditorium e vai a cercare Deerwood» disse uno dei due, per poi portarsi una mano alla fronte e accennare a Montgomery.
«Solo sentirlo parlare mi mette il mal di testa.»

Emeline si fermò.
La pagina degli appunti rimase incompleta, l'inchiostro del pennino a diffondersi sulla carta.
«Deerwood?» chiese, quasi riferendosi a se stessa.

I due si voltarono, insieme, l'uno a sbirciarla da dietro l'altro, i gomiti appoggiati ai braccioli della sedia.

«Lo conoscete?» chiese quello più vicino a lei.

«No.» Emeline avrebbe voluto mentire, dire che lo conosceva bene, ma non sapeva nemmeno il suo nome; troppo rischioso, troppo difficile mentire fino in fondo.
«Di vista.»

«Dov'è seduto?» chiese il biondo, facendo volteggiare il braccio da una parte all'altra dell'aula.

«Nelle file centrali.» Emeline li seguì con lo sguardo, incerta sul da farsi: erano una fonte preziosa, lo aveva capito.
Non poteva lasciarli andare così, dopo aver loro indicato Deerwood con un dito, lasciandosi sfuggire l'inestimabile occasione di conoscere finalmente qualche suo dettaglio.
«Non potete alzarvi, non adesso.»

Il randagio si voltò. «Perché, no?»

«È vietato. Di solito nessuno si alza mentre c'è una spiegazione, è una regola non scritta.»

I due si guardarono, come a scambiarsi consiglio con lo sguardo: evidentemente nell'aula di latino o letteratura non vigeva la stessa regola.

«Va bene» disse il biondo. «Tra quanto finisce la lezione?»

Emeline diede un'occhiata all'orologio di fine argento che teneva al polso.
«Quaranta minuti.»

«Al Diavolo...» sibilò lui, buttando a terra il dizionario di greco in un impeto di insofferenza.
Quello tuonò sul pavimento, facendone vibrare le assi con la forza di una piccola scossa di terremoto.

  Rimasero in silenzio per diverso tempo, tutti e tre; Emeline chinata a scrivere, i due a osservarsi intorno con noia e circospezione, il mento abbandonato sul palmo della mano.

«Voi sapete il greco?» chiese all'improvviso il randagio, che Emeline aveva intuito da spezzoni di discorsi sussurrati si chiamasse Duncan.

«Assolutamente no» rispose lei, non staccando gli occhi dagli appunti.
Sapeva a malapena il latino.
Il solo pensiero di dover studiare il greco le metteva la nausea.

«Voi non fate greco, nel vostro corso?»

«È un dipartimento scientifico, quindi presumo non serva.»
Continuava a scrivere, senza guardarlo in viso.

Duncan doveva esserne molto offeso, perché deglutì, poi tossì, facendo di tutto per scacciare quel groppo d'irritazione che gli serrava la gola.
«Ma studiate il latino...»

Lei intinse il pennino nella boccetta d'inchiostro.
«Perché è il linguaggio della maggior parte dei testi scientifici.»

L'altro si scostò, come ritirandosi dalla battaglia.
Stette a pensare per un po', assorto a sfogliare le pagine del dizionario che aveva raccolto da terra. Era alla lettera H quando chiese:
«Julius svolge il vostro stesso corso di latino?»

Julius.
Emeline staccò il gomito da sopra la pagina del quaderno, fermando il suo pizzo di scure lettere liquide.
«Sì. Svolge il mio stesso corso.»
Sentì il cuore accelerarle di qualche battito. Stavano iniziando a parlare, finalmente.

«È decisamente fuori luogo» esclamò il biondo.
«Julius è un genio.»
Emeline, rimasta a guardare davanti a sé per qualche frazione di secondo, si voltò verso entrambi.
«Un genio?» riuscì solo a chiedere, trattenendo a stento una risata.
Era bravo nel latino, è vero, ma mai aveva considerato di descriverlo con un appellativo simile.
Nel suo immaginario era lo studente che svolgeva sotto pagamento le verifiche degli altri e che rideva quando qualcuno confondeva un ablativo con un genitivo; quell'individuo crudele, a tratti -ricordava di quando una studentessa di lettere gli avesse scritto una poesia in latino, e di come lui l'avesse rispedita indietro, tappezzata di correzioni in penna rossa- e decisamente superbo, sempre pronto alla critica o ad alzare la mano per dare risposta.
Lo disprezzava. Non perché fosse bravo, ma perché ne era profondamente consapevole, e ne faceva la sua arma di superiorità.
I due studenti si guardarono, e risero; sembravano ritenere assurdo che Emeline non credesse, come loro, al genio di Deerwood.

«Si è iscritto a Scienze Naturali perché è il suo talento naturale. Stechiometria, costruzioni di elementi, esperimenti pratici; tutto gli riesce con la stessa naturalezza con cui si versa del tè» affermò il biondo, mimando il gesto di riempire una tazzina.

«Ma è un classicista mancato» disse Duncan. «Prima frequentava il nostro corso di latino, l'ala di lettere aveva accettato di fargli seguire quello anziché il vostro. Poi ha abbandonato, l'anno scorso, per iscriversi a matematica, che era nello stesso orario.»

Il biondo confermo con un mezzo cenno d'assenso.
«Faceva anche il nostro corso facoltativo di metrica, ma lo ha lasciato per via di un piccolo diverbio su Andronico.
Continua ad aiutarci sempre nella stagione degli esami, comunque... è perché sa il greco e il latino come fossero lingue madri, anche se non ama che lo si sappia sul greco.»

«Penso di aver copiato da lui più della metà delle versioni che ho fatto in questi tre anni. Ce le traduce sempre, se glielo chiediamo; le conosce già, o ce le detta sul momento.»

Duncan fulminò l'altro con un'occhiata, quasi non volesse approfondire troppo quell'argomento.
Si volse di nuovo verso Emeline, e con fare sicuro aggiunse:
«Ma d'altra parte penso faccia parte della famiglia. I Derwood hanno il sangue fatto di declinazioni e accenti gravi.»

Tutto ciò le faceva serrare lo stomaco.
A sentirli parlare, dare così tante informazioni in una sola volta, Emeline si sentì irrigidire, improvvisamente insofferente a tutta quella situazione.
Eppure chiese:
«Chi sono, i Deerwood?» senza il coraggio di mettere fine a quel vortice di idee e di considerazioni ipnotizzanti.

Duncan sbarrò appena gli occhi, e, le sopracciglia inarcate, disse:
«Non li avete mai sentiti nominare?»

«No, mai.»
Era già decisamente arduo far parte della vita sociale della Vaas per il minimo indispensabile; prima d'allora non si era mai interessata alla vita di, addirittura, le famiglie degli studenti. Sapeva che quella sua attitudine stava lentamente cambiando.

«Nobili.» disse il biondo.

«Decaduti» lo corresse Duncan.
«Credo siano stati nobili fino al diciottesimo secolo, quando vennero privati del titolo dopo l'insurrezione giacobita.»

«Questa te la sei inventata tu!»

«Assolutamente no. Lo dicono tutti, alla Vaas. Erano dalla parte del Giovane Pretendente

«Non hanno perso il titolo lì, idiota, semmai é per via della loro continua eresia.
Quelli vanno contro la Chiesa semplicemente esistendo...»

«Perché sono così famosi?»
Emeline spezzò quel veloce scambio di battute, avvicinandosi alle loro sedute.
Di famiglie pseudo-nobili ce n'erano anche troppe, tra i corridoi e nelle aule magne, quindi perché così tanto scalpore per una qualunque tra loro?

Forse era il suo animo borghese, ma non aveva mai compreso l'aurea di mistica venerazione che tutti assumevano quando pronunciavano nomi aristocratici. "I Livingstone" "I Gordon" e infine "I Deerwood": ogni famiglia rigorosamente annunciata come se ve ne si facesse parte.

«Perché sono... extra chorum ¹.
Assurdamente anticonformisti» ammise il biondo.

Duncan si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Tutti atei, tutti rigorosi, devoti al classicismo e alla ragione in un connubio assassino. Seguono il calendario romano, hanno spostato i figli da una scuola all'altra per "incompatibilità di pensiero" con i professori e passano gli inverni chiusi nel loro maniero nelle Highlands.
Qualche anno fa hanno regalato a Julius una villa qui nelle campagne, ma a tutti è sempre stato chiaro il vero intento dietro questa gentilezza.»

L'altro gli andò dietro, scoccandogli un'occhiata.
«Non lo vogliono tra i loro. Ogni volta che si riuniscono e c'è anche lui, immancabilmente insorge una rivoluzione.
Ti ricordi di quella volta, a fine luglio, quando tornò prima dalla pausa estiva e dovette fermarsi alla Cattedrale?»

Duncan annuì, improvvisamente più serio. «Eravamo tutti così confusi. Arrivò al campus di sera tardi, e per tutto il resto dell'estate non lo vedemmo praticamente mai uscire dalla Cattedrale.
Quando ricominciarono le lezioni sembrò che non fosse successo nulla; era come sempre, ma non ci raccontò più di come fossero state disastrose le battute di caccia con suo padre.»

«Non ce ne sono state altre.»
Si scoprì a dire Emeline.
Aveva intuito qualcosa, qualche piccolo dettaglio che confermasse il suo presentimento, ma solo in quel momento comprese la situazione in cui Julius si trovava. Era la nera macchia in un panno asetticamente candido.

«No, presumo di no.»
Poi Duncan sembrò ricordare qualcosa, all'improvviso.
«Quell'anno fu strano. Se n'erano andati tutti d'estate, anche quell'Americano, quello che sta sempre alla Cattedrale.»

Emeline si morse l'interno della guancia, trattenendosi all'ultimo dal porgere una domanda di troppo.
Lui non poteva conoscerlo, non agli occhi degli altri. 

«Felix. Sì, è vero» annuì l'altro.
«È dall'inizio del primo anno che lui e Julius sono inseparabili.»

«Animae duae, animus unus ²» garantì l'altro, ed Emeline non seppe dire se dietro al suo tono si nascondesse del disprezzo o della gelosia.

«Eppure quell'estate non li vidi mai insieme, praticamente.»

«Si conoscevano già da prima?» domandò Emeline, ed entrambi la guardarono, forse sospettosi riguardo tutto quell'interesse.

Duncan fischiò. «Da sempre. Sono arrivati alla Vaas uno l'anno dopo dell'altro, ma Julius afferma si conoscano da quand'erano bambini.»

«Non capisco uno come lui cosa ci faccia qui, a Edimburgo... con tutte quelle giacche su misura e i suoi modi di dire del New Hampshire.»

«Credo abbia uno zio vicino a Glasgow. Ma non parla mai con noi, quindi non ne avremo mai la certezza.»

Il quadro iniziava a comporsi, con tutte quelle sfumature che da pastellate diventavano sempre più vivide ad ogni parola, ad ogni fatto che andava a completare quel dipinto di retroscena.
E adesso che quei due sembravano aver intenzione di voler parlare a ruota libera, Emeline sentì l'impulso di incominciare con le domande: quelle che le sorgevano ogni volta che vedeva Deerwood e Felix.

I loro incontri erano stati fugaci, la maggior parte inconsapevoli da una delle due parti, ma Emeline li ricordava con vivida chiarezza: Julius che ripeteva una sequenza di amminoacidi, le spalle contro il muro del portico; l'Americano, -Felix-, che strappava le foglie di un cardo mentre sedeva su una delle panchine del cortile: scene vive, come fotografie che aveva scattato con un battito di ciglia, conservandole nei ricordi per riviverle quando le tornavano alla mente.

«Eccolo, si è girato!»
Duncan spintonò l'altro con un gomito, gli indicò le file centrali, ed entrambi presero a sbracciarsi in direzione di Julius per attirarne l'attenzione.
Lui dapprima non li notò, preso a spiegare al suo vicino qualcosa che aveva scritto su un foglio volante.
Quando si rese conto della loro vivace, appariscente presenza gli scoccò un'occhiata torva, serrando gli occhi in un "cosa volete?" mimato.

Uno dei due gli indicò il dizionario di Greco, cercando disperatamente il modo per comunicargli la parola "aoristo."

Emeline scivolò lungo lo schienale della seduta, confusa sul perché non l'avesse ancora notata. Sembrava assorto nel contemplare i gesti che i due classicisti gli rivolgevano, esasperati, nel tentativo di farsi comprendere.

«Non capisce... non possiamo proprio alzarci?»chiese Duncan, ed Emeline scosse la testa.

«Dio Santo, Julius, a-o-r-i-s-t-o.»
Riprovò, ma lui ormai sembrava guardare altrove.
Lo sguardo vagante, quasi non volesse soffermarsi su un solo punto: timoroso, forse, se la sua espressione non gli conferisse già un'aria malinconica. 
Guardava Emeline, e lei se ne accorse quando i loro occhi s'incrociarono per sbaglio, un solo istante prima che entrambi puntassero subito la vista altrove.

Dopo tutto ciò che aveva saputo su di lui, vedere che la osservava, realmente davanti a lei, la spaventò.
Quasi il Julius dei racconti, del passato, fosse l'unico esistente: un'ombra lontana, che non viveva più in quel tempo.
Eppure eccolo lì, voltato verso di loro, con la giacca spiegazzata sulla schiena e i capelli oscillanti sugli occhi.

«Siete sicura di non conoscerlo, vero?» chiese Duncan, ed Emeline non fu certa della risposta.

Ormai non poteva più affermare di non conoscerlo: bastava solo che lui si avvicinasse, che mostrasse di non essere solo uno spettro della sua immaginazione.
Bastava poco.
Bastava che le parlasse, che le scoccasse un'altra occhiata, e lo avrebbe conosciuto.

Glossario

¹Extra Chorum: fuori dal coro.
Sta a indicare persone che agiscono in maniera propria e anticonformista.

² Animae duae, animus unus: due vite, un'anima sola.

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