Capitolo VII- Mens et Verbum

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La Capitolium era vuota, malinconica nelle sue colonne annerite, nella sua entrata spoglia, senza nessuno che la oltrepassasse.
Come se avesse vita propria, quella biblioteca sembrava trasmettere la sua sacralità e la sua stanchezza, il peso che portava lungo i secoli spesi a contenere e cullare centinaia di libri dentro di sé.

Julius scese i gradini a due a due, un dizionario nascosto dietro il braccio sinistro, la giacca abbandonata su quello destro.
Dei fogli tempestati d'inchiostro e macchiati di tè gli svolazzavano tra le mani.

«Hai finito la tesina di Duncan?»
Ezra, davanti all'entrata, si era posizionato sotto uno dei pochi raggi di sole filtranti dalle nubi di quel funereo pomeriggio grigio.

«Non essere così cinico.»
Julius si fermò per allacciarsi la stringa di una scarpa.
«Alla fine era messo meglio di quanto pensassi, con Cicerone. Ha solo avuto bisogno di qualcuno che gli mettesse la fretta necessaria per lavorare.»

Ezra teneva una mano in tasca, a scostargli il bordo della giacca.
Era domenica, nessuno indossava l'uniforme, e tutti coloro che durante la settimana erano stati un grande stormo di bianchi aironi, nel weekend si trasformavano in cupi corvi di tweed.
«La finirà, secondo te? La tesi, intendo.»

Deerwood scacciò un sasso con la punta della scarpa, distratto.
«No, non credo proprio.»
E rise, seguito dall'altro.
Distese le labbra in un sorriso da bambino, a mostrare gli incisivi luccicanti e leggermente storti.
«È così» ammise.
«Riesce a lavorare solo con me. E non ho intenzione di stargli dietro per tutto il semestre. Cui prodest? Solo a lui, suppongo. Ho già troppi corsi per conto mio.»
Guardava a terra, poi alzò gli occhi verso il cielo, lasciandosi illuminare dalla sua luce spettrale.
«Questo sabato è stato terribile» disse solo.

Ezra si voltò, il vento ad annodargli i capelli.
«Sei stato a Blackcurrant?» chiese.
Al pronunciare quel nome gli tornarono alla memoria ricordi che pensava di non possedere più: l'acqua tiepida delle sponde del lago, il profumo dolce della marmellata di ribes; i dipinti dalle cornici d'oro alle pareti e l'acre odore di stantio della sala grande.
Sentirla nominare era completamente diverso dal nominarla, e quella casa sembrava reclamarlo, dopo tutto il tempo in cui lui non aveva più varcato la sua soglia.

«Sì, ho portato qualche valigia. Ma è stato orribile, davvero: da solo, con l'ansia per gli esami, senza nemmeno il tempo di uscire di casa. È una fortuna che la vetreria dei liquori sia ancora vuota, altrimenti mi sarei attaccato a qualche bottiglia di scotch o whiskey.
Non sono ancora andato al parco, puoi crederci?»
Poi si zittì d'un colpo, come se alla sua mente fosse affiorato un pensiero a cui non aveva dato peso fino ad allora.
Tirò sul col naso, ancora raffreddato da quel vecchio arrendersi alla pioggia.
«E ho pensato a lei. Di continuo.»
Schioccò la lingua con disgusto, quando si accorse di quanto potessero essere fraintese le sue parole.
Pensava a lei come a una spina in gola, un tormento eterno, e stare da solo in quella villa immensa aveva solo ampliato la drammatica soggezione che gli incuteva la sua figura.

«L'ho rivista, a Chimica. È nel mio stesso corso. Parlava con Duncan e Irving. Immagini cosa abbiano potuto dirgli di me?» bisbigliava frasi singhiozzate, facendo brevi pause tra l'una e l'altra.
Era come se avesse pensato a quella domanda per tutto il sabato, masticandola di continuo, senza avere la possibilità di sputarla al suolo.

«Al massimo le avranno detto di quanto tu sia un incredibile genio» ironizzò Ezra, tra le dita un bottone della giacca.
Lo osservò, finché non si staccò dal fine filo che lo teneva legato alla cucitura.
Sbuffò. «Ascolta» disse.
«La prossima volta che la incontriamo, la fermo. Non mi interessa cosa farai tu»aggiunse, osservando l'espressione atterrita dell'altro.
«Io voglio parlarci.»

Tutti dicevano che il silenzio della Cattedrale facesse pensare più del dovuto.
Era una quiete talmente densa e compatta che sembrava inglobare ciò che si pensava, per rispedirlo indietro incessantemente, finché quell'idea, o quel pensiero, non ti abbandonava più.
Come tante delle ingenue leggende della Vaas, anche quella nascondeva un senso figurato piuttosto veritiero: camminare per le lunghe navate della cattedrale aveva instillato in Ezra l'obiettivo di conoscere quella figura che ormai, come un simbolismo, riempiva le sue giornate. E i muri cosparsi di stemmi, i profondi torrioni delle scale, i passi riecheggianti nel buio dei corridoi non facevano che aiutare quel graduale processo d'ossessione.

«No, non ci penso nemmeno.»
Julius incurvò di poco le spalle, mostrandosi più intimidito di quanto volesse apparire.
«Non voglio parlarci. Voglio solo scordarmi della sua esistenza il prima possibile.»

Ezra si portò due dita alla radice del naso.
«Julius, pensaci. Se qui a tormentarti senza fare nulla, quando inconsciamente anche tu vorresti parlarle.»

«Piuttosto la cicuta.»

«Julius!»

Lui scoppiò in una risata nervosa, prendendo a camminare lungo il viale alberato dell'ala di Lettere.
Le querce, e sotto di loro le ginestre, oscillavano sotto la spinta del vento con una furia febbrile; le panchine erano occupate da studenti affiancati dai libri.

  A pochi passi dal dipartimento di Scienze Naturali, l'ala di Lettere Antiche era da sempre stata un motivo di vanto per il college.
Veniva definita "innovazione scolastica" il fatto che la scuola possedesse sia una sede umanistica che scientifica, dando così un senso letterale al suo imperioso motto:
Mens et verbum, praeteritus posterumque.

La Mente e la Parola, il Passato e il Futuro, tutto in una sola, eccezionale scuola.
O almeno questo era ciò che piaceva ripetere a studenti ed insegnanti, tutti ugualmente infatuati dello sfuggente, magnetico fascino della Vaas.

«È da giorni che parliamo solo di lei.»
Ezra rimase a guardare un gruppo di ragazzi: seduti sull'erba, ripetevano versi dell'Inferno di Dante.
«Non ti sei accorto di che giorno è, oggi?»chiese poi, volgendosi verso Julius.

Lui rimase in silenzio, e allora Ezra parlò ancora:
«È il ventinove di Agosto. Domani è il primo del mese, Julius. A quest'ora, il mese scorso stavamo parlando da ore dei nuovi sviluppi.»

«Questo mese abbiamo ritardato l'incontro.
E non parliamo solo di lei.» si giustificò Deerwood, a mezza voce.

«Sì, è così. Sta assorbendo le nostre giornate. Quanto sei andato avanti coi tuoi studi sulla calendula, in questi giorni? Sii sincero, davvero.» Lo guardò dritto in volto, attendendo un responso che sapeva già lo avrebbe deluso.

«Dovevo prepararmi agli esami.»

«Siamo ad agosto, Julius. Dio, hai tutto il tempo del mondo!»

Lui scosse la testa, e ciocche castane gli caddero sugli zigomi.
«Ne ho troppi, d'accordo? Devo comunque darli tra poche settimane.»

«Ammettilo» esclamò Ezra, esasperato.
«Lo sai anche tu che lei ti ha distratto. So che è così, perché lo ha fatto anche con me.»
Si fermò davanti a una panchina vuota, ma non si sedette.
La occupò interamente Julius, sdraiandocisi sopra con le gambe accavallate.
Chiuse gli occhi, abbandonando un braccio a sfiorare la terra, stanco e sottile come lo stelo di un papapavero.
«Non le parlerò comunque. Sei impazzito.»

Ezra inspirò, e insofferente annuì, arrendendosi definitivamente.
«A te la scelta. Domani a che ora hai Biologia?»

«Alle undici» rispose lui, aprendo un occhio, sospettoso come un segugio da caccia.

«Perfetto» l'altro si mosse verso la panchina.
«Allora la aspetterò davanti all'entrata dell'aula magna.»
Deerwood sibilò un Diosanto sommesso, mentre si passava una mano sul viso.
«Sei impazzito, Ezra.»

«La smetti di ripeterlo?» Lui lo spintonò con debolezza, scoccandogli un'occhiata innervosita.

Julius rispose con una ginocchiata, soffocando una risata divertita.
«È la verità. Può succedere di andare fuori di testa, così all'improvviso... guarda Claudio.»

«L'imperatore?» chiese Ezra, scettico.

«Impazzito d'un tratto per la paranoia. Trovo delle somiglianze.»

«Al Diavolo» Ezra rise, prima di scansare le gambe di Julius senza delicatezza e sedersi vicino a lui.
Gettò la testa all'indietro, osservando lo spettacolo dei rami di quercia intrecciarsi, la luce filtrare loro attraverso.
I suoni del parco gli arrivavano offuscati, mentre pensava.
Doveva mettere fine a quella situazione, o non sarebbe stato in grado di continuare con le ricerche.

Pensava di aver raggiunto un esile punto di svolta, quando era arrivata lei, a rubargli la concentrazione con il suo mistero, e adesso sapeva che l'unico modo era parlarle, renderla cosa tangibile: solo così sarebbe diventata vera, perdendo la sua natura spettrale.

«A cosa stai pensando?» chiese Julius, un filo d'erba tra le dita.

Lui non rispose.
Voltò il viso verso il prato: gli studenti di Dante ora ripetevano versi che lui già conosceva, come una reminiscenza di qualche studio remoto.

Me ne l'ultima bolgia de le diece
Me per l'alchìmia che nel mondo usai
Dannò Minòs, a cui fallar non lece

«A niente.»

«Quindi, le specie non sono immutabili, ma variano nel tempo.
La selezione naturale agisce sulla variabilità individuale. La selezione, inoltre, agendo sui singoli individui, è in grado di far evolvere le popolazioni: ecco i due principi cardini della teoria dell'evoluzione per selezione naturale.»

Emeline sfogliava la sua copia de L'origine della specie; le pagine erano candide e avevano quel particolare profumo dei libri nuovi.

Sottolineò placidamente qualcosa a matita, la testa appoggiata sul palmo di una mano, il piede a muovere la punta dello stivale.

«Quando gli individui di due popolazioni, sottoposte a diverse forze selettive, si differenziano significativamente, si ha la generazione di due specie diverse.»
A parlare era Walter Reid, un professore di biologia sostenitore della teoria del ciclo biogeochimico che aveva un rapporto conflittuale con i gessi per lavagna, i quali si spezzavano appena provava a scrivere qualcosa.

Emeline espirò sulla finestra, osservando la condensa espandersi sul vetro, mentre Reid chiedeva a quelli della prima fila se avessero visto il panno per cancellare.
Lei aprì la borsa che teneva ai piedi, sfiorando un quaderno più piccolo degli altri, a cui lanciò una breve occhiata di sfuggita.

«Per cortesia, andate a chiedere al primo piano se hanno un panno nuovo» ordinò Reid. «Possibile che scompaiano in continuazione, in questa classe...?»

«Vado io» disse Deerwood.

Emeline si voltò, inconsciamente attirata da quel timbro che aveva imparato a conoscere. Julius si alzò, e dopo aver sistemato la giacca scavalcò le prime due file.
Uscì senza dire niente: non sembrava insofferente, ma nemmeno tranquillo.
Era pensieroso, forse addirittura assente, ed Emeline riuscì a intuirlo perché era esattamente come lei si sentiva.
Quel coesistere distaccato stava diventando insostenibile.
Come due vecchi nemici costretti a convivere, passavano le loro quotidianità con l'angoscia di scambiarsi uno sguardo, di parlare e farsi notare, di incontrarsi in corridoio.

Emeline si sistemò sulla sedia, e prese a guardare il parco sottostante: offuscato dallo spesso strato di brina della finestra appariva come una scheggia di vetro colorato, con le sue forme vaghe e i bordi sfuocati.

Vide un'ombra sotto i pini silvestri.
Qualcuno che aveva saltato lezione, preferendo quella quiete a qualche spiegazione complicata. Emeline lo osservò, e invidiò la sua tranquillità: da giorni la sua le era stata rubata, e se ne rendeva conto solo allora.

Non aveva mai invidiato qualcuno per non pensare.
Eppure in quel momento tutto ciò che voleva era avere la mente sgombra da quelle occhiate e quella voce.
Ite, missa est.

La messa doveva finire.

Il vento si stava alzando.
I pini smossero le loro cupe chiome verdi, e l'erba del prato si piegò, ubbidiente, al volere della corrente.

Quando il vento gli percorse le braccia sotto la camicia, Ezra rabbrividì.
Quella settimana si era fin dal primo giorno annunciata come rivoluzionaria, decisa a cambiare le sorti del bel tempo, e un grande banco di nuvole aveva adombrato il parco.

Ezra si alzò, guardando verso le finestre dell'edificio di Scienze Naturali.
Aveva saltato l'ora di latino con la promessa che Julius gli avrebbe rispiegato la lezione, tutto per presentarsi davanti all'aula magna e chiarire le cose.
In quel momento, fermo sotto i pini e con il gelo a contorcerlo di brividi, vacillò all'idea di farlo davvero.

Non aveva nemmeno pensato a cosa dirle. Poteva fermarla, ma non voleva risultare aggressivo; poteva aspettare che lo notasse, ma non voleva rischiare che ciò non accadesse.

Aveva preso una decisione, il giorno prima: giurami che non mi metterai di mezzo, gli aveva ordinato Julius, attorcigliando il braccio contro le sue spalle. Giuramelo.
E lui lo aveva giurato.
Non avrebbe ricevuto il suo aiuto, lui non si sarebbe fermato per dargli sostegno nella discussione: sarebbe stato da solo. 

Sei impazzito, sentì Julius dire.
Ora quell'affermazione gli tornava in mente più di quanto avesse voluto.
Forse era davvero così, forse era solo una questione di sola, semplice paranoia. Altrimenti perché avrebbe dovuto avere così tanta paura di parlare con una studentessa come lui?

«Ezra!»

Si voltò.
Verso di lui correva un ragazzo senza giacca, coperto solo da una camicia; le maniche si gonfiavano come ali, mentre avanzava nella sua direzione.

«Ezra, mio Dio, che cosa stai facendo?» chiese, senza fiato, mentre cercava di infilarsi il cappotto.

Lui lo guardò senza dire nulla, disorientato.

«Allora? Ti stavano per segnare assente, quando Mcleod ti ha visto dalla finestra. Cosa diavolo stai facendo?» domandò di nuovo, incredulo, gli occhi sbarrati.
Era disperato, ma quasi sul punto di ridere per l'assurdità della faccenda.

«Stavo-»

«Ha detto Mcleod che se non ti presenti entro i prossimi cinque minuti lo metterà a verbale» esclamò l'altro.

«No, cosa?» Ezra si voltò, spaesato, in cerca della giacca.
Non aveva mai saltato una lezione, ma aveva sempre avuto la convinzione che si potesse fare, solo per una volta.
Nel New Hampshire era tutto diverso.
«No, dille che arrivo» disse allora.
«Arrivo subito!»
Recuperò il cappotto e la borsa; tra i denti teneva gli appunti dell'ora prima.

Il ragazzo annuì, scendendo lungo la collina.
«Aspettami« gli urlò Ezra.
«Non voglio entrare in classe da solo!»

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