Capitolo VIII- Odi et Amo

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«Come ti è saltato in mente di sdraiarti sotto i pini?» Julius lo guardava con quei suoi occhi grandi ed espressivi, mentre mangiava more pescandole dal piccolo gruppo che teneva tra le mani.

«Lasciamo stare, d'accordo?»
Ezra stava accomodato contro un tronco di faggio.
I boschi della Vaas non erano mai la scelta preferita dai suoi studenti per ritrovarsi: tutti preferivano il parco, che era sempre vivo ed affollato.
Era stata un'idea di Julius, spostarsi nelle campagne quando il cortile era troppo caotico.

«Non sapevo che non si potessero saltare delle lezioni.»
"in America fate così?" Aveva chiesto McLeod quando Ezra era entrato in aula, boccheggiante e stropicciato dal vento.
"A volte" gli aveva risposto, sinceramente. Aveva capito poco dopo che quello usato dal professore era sarcasmo, e che dopo tre anni alla Vaas non gli si sarebbe più perdonata nessuna mancanza dovuta alla sua provenienza oltreoceano.
«Ma certo che si può» Julius mangiò un'altra mora, le sue labbra chiare e sorridenti tinte di un'ombra viola.
«Solo devi avere un valido motivo. E stare sotto i pini a guardare il nulla non lo è.»

Ezra abbassò lo sguardo, Julius tornò a parlare.
«L'ho fatto anch'io, molte volte.
Ma devi annunciarlo la mattina presto, dicendo che stai male. Ti fanno stare in camera a riposo forzato, ma se vuoi uscire comunque devi passare dal retro e poi dal corridoio interno del piano terra, dove c'è l'aula di geografia. Sperando di non incontrare nessuno, è ovvio.»

Ezra pareva ascoltarlo, guardandolo a volte negli occhi, con interesse; ma quando parlò, il viso di Julius sembrò ghiacciarsi, brinandosi di pallido.

«Quando potrò parlarle, secondo te?»
chiese infatti Ezra, prima di sedersi su uno dei muschiosi blocchi di pietra che costituivano le macerie di una vecchia casa, un tempo situata sotto quel colle di sottobosco.

Julius lo guardò con la coda dell'occhio, le ombre dei faggi che gli si dipingevano, scure, in volto.
«Non è più necessario» disse.

«L'hai fatta fuori?» chiese Ezra, sarcastico e noncurante.

«No, peggio» Julius gli porse qualche mora, lui rifiutò. «Ci ho parlato.»

«Che cosa?»
Lo guardò con un lieve sconcerto, il tono flesso da una punta di sgradita sorpresa.
Come se quel gesto fosse stato quasi un tradimento, come se avesse dovuto essere lui a doverle parlare per primo, disse: «perché lo hai fatto?»

Julius incurvò le sopracciglia. Il suo viso era sorridente, appena risentito della tensione che si stava creando.
«In realtà è stata lei a parlare con me.»

Le labbra dischiuse, lo sguardo sgranato, le guance infiammate di rosa: Ezra gli stava fermo davanti, mentre l'altro si crucciava di aver finito le more che teneva in mano.
«Cosa ti ha detto?» sillabò, le ciglia che sfarfallavano lente e ritmate.

Julius inspirò, quasi dovesse annunciare la più rivoluzionaria delle affermazioni, ma rimase in silenzio.

«Julius!»

«Niente è più facile di parlare» acconsentì allora lui, con quella citazione di Terenzio con cui si faceva coraggio quando temeva di non essere in grado di descrivere ciò che provava.
«Sai, stavamo uscendo dall'aula, io ero davanti a lei.» Poi si fermò, di colpo.

«Julius, Dio, si può sapere cosa ti ha detto?»

«Mi ha chiesto il permesso per passarmi avanti.»
Poi alzò lo sguardo, le labbra serrate nel disperato tentativo di trattenere una risata.

Ezra lo guardò a fondo, poi schioccò la lingua, insofferente.
«Ti odio» disse, e calpestò le more che Julius aveva raccolto e radunato a terra.

Lui si alzò, «Odi et Amo ¹, Ezra! Sei così fissato con quella che stavi per mettermi le mani addosso!» disse, e rise.
La sua risata echeggiò lungo le fronde degli alberi, scacciando qualche pettirosso timoroso. E quando vide che Ezra si era allontanato, lo seguì lungo il sentiero di ortiche che portava alla Vaas, incurante di ferirsi le mani pur di stare al suo passo.

Li scorse lungo le scale.
Camminavano, uno distanziato dall'altro, come se per qualche assurdo motivo temessero di farsi vedere insieme; non c'era niente di sospetto in due studenti che scendevano le scale d'entrata uno a fianco all'altro, ma loro era evidente che pensassero il contrario.

Emeline guardò prima Deerwood, con il suo gilet a quadri e una sigaretta consumata nascosta dentro il palmo della mano.
Poi posò lo sguardo sullo studente che gli stava a debita distanza, ma con il quale ogni tanto si lanciava qualche tagliente occhiata: Felix, slanciato nei suoi candidi pantaloni dal taglio elegante.
Aveva il volto magro e teso, e si scrocchiava le dita con frenesia, mentre saliva le scale.
I mocassini che portava avevano una lieve macchia d'inchiostro sul davanti, ed Emeline restò ad ammirare quel dettaglio per diverso tempo.

La superarono, scorrendole accanto come due Zefiri intenti a rincorrersi senza mai riuscirci. Vagarono per un po' tra gli altri, inquieti, prima di scomparire dietro a una delle grandi aule di chimica organica.

Sapeva che quella non era la loro destinazione finale, ed Emeline si chiese quindi se l'avessero notata.
La parte più osservatrice di sé annuì, analizzando gli sguardi nervosi che i due si erano scambiati dopo averla vista dietro di loro: da quel momento erano improvvisamente diventati frenetici, terrorizzati da qualcosa di invisibile. 

Si fermò davanti all'aula di chimica, attendendo un segnale che forse non sarebbe mai arrivato.
Anche se ostinava a negarlo, sentiva una saetta percorrerle la mente quando pensava all'eventualità che uno dei due potesse fermarla, e chiederle finalmente perché li stesse seguendo ovunque.
Avrebbero preso a parlare, in qualche modo, e quando lei infine avrebbe detto loro dei suoi studi, tutto sarebbe stato in discesa...

Si udì un bisbiglio, subito interrotto.
Non poteva saperlo, non aveva le basi per dirlo, ma Emeline fu certa che Deerwood, dall'altra parte della porta, stesse aspettando il momento opportuno per sfuggirle.
E Felix... ebbe la fulminea certezza che stesse a osservare l'esterno dal buco della serratura.

Se ne andò dopo poco, lasciandosi dondolare con fare annoiato.
Diede qualche rapida occhiata alla porta dietro di lei anche quando ne fu talmente lontana da perderla quasi di vista.
Ed eccola aprirsi: una mano sottile e pallida sbucò, incerta.
A seguire, dei mocassini macchiati di inchiostro.

«Non guardarti troppo alle spalle.»
Camminava veloce, un passo frenetico dopo l'altro, voltando e scomparendo dietro gli angoli dei corridoi, il mantello dell'uniforme che gli oscillava sulla schiena come quello di un giovane oratore in giro per il foro.
Si fermò soltanto quando Ezra lo tirò per la manica, facendolo voltare e rallentare.
Julius lo guardò, contrariato.
«Non voglio che ci veda.»

Ezra sgranò gli occhi, i tratti marcati dall'ombra dell'arcata sopra di lui.
«Cosa t'importa? Credi che sia dappertutto? Onnisciente?»

«No. Potrebbe seguirci, però.»

Lui gli scoccò un'occhiata preoccupata.
«Non lo farà» disse.
«E anche se fosse, sarebbe la volta buona che riusciamo a parlarci.»

Julius rise: risa singhiozzate e prive di divertimento, che nella sua lingua stavano ad indicare il più profondo scherno.
«Continui a ribadire quanto tu desideri parlarci, ma non sono stato l'unico a nascondermi quando l'ho vista.»

Ezra non rispose.
«Controlla che non ci sia nessuno, al primo piano.» Cambiò discorso, mentre scendeva le scale incerto, guardando in basso con una cauta attenzione: un gatto in cerca della sua preda, o un topo che sperava di potergli sfuggire.

«Irving e Duncan. Oddio. Cosa le avranno detto? Ezra, le avranno detto qualcosa su di me, sono sicuro.»
Julius gli stava affianco, il petto che si innalzava sotto il peso di respiri irregolari e spaventati.
«Le avranno detto di quanto io sia terribile nel corso di Matematica, di come tutta l'ala di Fisica mi odi. Mi detesterà ancora prima di conoscermi» drammatizzò, i lineamenti contratti in una rassegnata espressione ansiosa.

«Sembri una comparsa di Shakespeare. Ti prego, smettila.»
Ezra si allungò oltre il torrione della scala, sporgendosi a toccare il marmo dello scorrimano con lo sterno, controllando che il corridoio del primo piano fosse libero.
«Dio» disse. «C'è la Forbes.»

Julius si sciolse in uno sbuffò, gettando il viso all'indietro; porzioni dei suoi capelli scuri ricaddero nel vuoto. «Non deve vederci.»

«Lo so.» Ezra scese di qualche scalino, puntando l'insegnante con lo sguardo: stava controllando dei fogli che teneva tra le mani.
«Passiamo.»

Erra si buttò in mezzo al corridoio, i passi attutiti con cautela, la fretta nei movimenti; Julius sgranò gli occhi, sibilandogli di tornare indietro.
Quando si accorse che era inutile si guardò intorno, indeciso.
«Cristo» mormorò, prima di staccare le suole delle scarpe dall'ultimo gradino della scala.

Percorse il corridoio con tre ampie falcate, senza guardarsi alle spalle; temeva la Forbes, la temeva con tutto il cuore, da quando aveva presenziato alla selezione per la certificazione di Algebra dove era arrivato penultimo, con un totale di venti punti su ottanta.
Ancora ricordava la sua espressione sconvolta quando era passata dietro il suo banco mentre lui risolveva una disequazione semplificando una x al denominatore.
Lei aveva emesso un piccolo sbuffo, lui era raggelato; e quando il compito gli era stato riconsegnato, aveva visto la calligrafia ordinata della Forbes vicino ai suoi scarabocchi, a formare un grande, precisissimo "no".
Lo aveva addirittura sottolineato.

«Cosa state facendo?»

Dio.
Julius chiuse gli occhi, fermandosi di colpo. Dio, Dio, Dio.

Si voltò.
La Forbes aveva tolto gli occhiali da vicino per osservarlo.

«Ho dimenticato un libro.»
Quando avrebbe smesso di usare quel patetico tipo di scuse? Non in quel momento di certo. Era troppo comodo per essere abbandonato: la carta vincente in momenti disperati.

«Un libro» ripeté lei.
Dietro la Forbes, com un'apparizione, Ezra stava fermo.
Gli occhi sbarrati, la testa che si muoveva in segno di diniego.
Pronunciò delle parole mute, e le sue labbra di mossero in un "ahia" che tentava in tutti i modi di non essere divertito.

«Sì, il libro di Biologia.»
Julius si sciolse in un sorriso cordiale, il più cordiale possibile.
Aveva caldo, un caldo terribile addosso, e sentiva le gambe fremergli dal desiderio di allontanarsi.

La Forbes gli rivolse ancora un'occhiata, prima di volgergli le spalle.
«Si sistemi la mantella, per cortesia.
Le uniformi vanno indossate correttamente.»

«Subito.» Julius si coprì le spalle con il lino bianco della cappa, e lei si diresse verso le scale.

Lui sospirò, guardandola scomparire dietro il muro; pensò alla terribile disgrazia che non tutte le professoresse di matematica fossero come quella di geometria che insegnava al primo e secondo anno; una signora simpatica che rispiegava i procedimenti infinite volte.
Ciò che serviva alla sua mente disordinata, poco compatibile con lunghi e confusionari calcoli.

«Mio Dio» Ezra gli si avvicinò.
«L'incontro col Basilisco» sussurrò, ed entrambi scoppiarono in risa sommesse.

«Sistemati l'uniforme» disse Julius, ironico, prima di accelerare il passo e lanciare ancora un'occhiata furtiva dietro di sé.

«Fermati qui.»
Ezra fermò Julius, bloccandolo con un braccio all'altezza delle costole.

La porta di ciliegio era socchiusa, davanti a loro, illuminata dalla fredda e debole luce delle tre.
C'era lo stesso silenzio del solito, eppure entrambi, per la prima volta, ne soffrirono.

«Ezra» Julius lo guardò negli occhi.
«La porta...» esitò, prima di passarsi una mano sporca di gesso sulla guancia.

«Ho sentito qualcosa.» Ezra fece qualche passo diretto verso la porta di ciliegio, avanzando con un'imperiosa leggerezza dei movimenti.
Si fermò a pochi centimetri dall'entrata, come se non volesse continuare da solo.
Richiamò Deerwood con uno sguardo, e lui lo raggiunse, sporgendosi sulla punta dei piedi per osservare il piccolo squarcio di stanza che proveniva dallo spiraglio della porta aperta.

«Dio, Julius, se hai lasciato qualche appunto sul tavolo, giuro che...»
Spalancò la porta, prima di zittirsi di colpo. Rimase impietrito davanti all'uscio, immobile e fiero come un candido busto di Apollo.

«Chi siete.» Non era una domanda.
Squadrò la donna davanti a lui, passando bruscamente al voi.
Nei suoi occhi da gatto strisciava il sospetto e la paura primordiale di essere scoperto.
Sentì i polmoni chiudersi di getto, l'aria fermarsi nella gola; lei lo guardava senza dire niente, illuminata e chiarissima.
I capelli le doravano sotto la luce tingendosi di profonde sfumature di rame, a incoronare il viso come l'aureola di un qualche personaggio di un mosaico bizantino.
Ezra pensò a lei come a Teodora; adornata di fili d'oro, portava addosso la sua stessa ipnotica e scaltra regalità.

Deerwood fece qualche passo incerto, camminando raso al muro, fino a sedersi sul freddo bordo di marmo della finestra.
Dietro di lui un rosone di vetro colorato era cupo e tremendamente polveroso.

«Barclay, dall'ala di Biologia. Ci conosciamo.»
Emeline se ne stava seduta sulla cattedra; gli stivali a dondolare contro il vuoto, le braccia incrociate in una posa riflessiva che assumeva senza pensarci.
Il cuore le batteva nel petto come un corvo intrappolato in una tagliola, che si contorceva, sbattendo le ali e perdendo piume: allo stesso modo l'organo palpitava, irrequieto.

Guardò Deerwood.
Era evidente fosse terrorizzato, ed ancora più evidente era che l'avesse riconosciuta nell'esatto momento in cui l'aveva vista. Nemmeno lui era esente dai sogni, dai pensieri che riguardavano quei casuali incontri.

«Non credo» rispose Julius.
Sapeva di star mentendo.
Ancora ricordava la fiamma di terrore che lo aveva colto quel pomeriggio al terzo piano, e quel venerdì in aula magna, e tutte le volte che l'aveva vista.

«Siete nel mio stesso corso. Forse non mi avete mai notata, visto che tendete a sedere sempre nelle file in mezzo. Passate i pomeriggi sotto i pini silvestri, e ammetto che siete decisamente portato per le poesie di Catullo.»

Seguì una quiete incredula e tesissima.

Julius sembrò quasi boccheggiare, scioccato. Scoccò un'occhiata all'altro.
«Ezra...» soffiò, in una preghiera timorosa e un ordine al contempo, aggrappandosi al bordo con più forza.
Batteva un piede sul muro, in un movimento nervoso e fastidioso.

Ezra tossì; lo guardò di rimando, e si scambiarono uno sguardo incerto, perso: era evidente che non si aspettavano, nemmeno lontanamente, nulla del genere.
Per tutto quel tempo si erano creduti più nascosti di quanto, effettivamente, fossero mai stati.

«Come avete trovato quest'aula?» Julius prese a cercare qualche traccia di appunti dimenticati sopra alla cattedra sulla quale sedeva Emeline.
Setacciò i cassetti.
Febbrile, non trovandone alcuno, prese a rovistare nell'armadio.

«La porta era socchiusa.»
«Impossibile» sibilò Ezra, dando un colpo di tosse. Gli tornarono in mente le risate di Julius, le loro menti soprappensiero e la leggerezza che avevano provato l'ultima volta che si erano ritrovati in quella stanza; una giornata fresca e piovosa. Aspettavano solo di sedersi sotto il portico del cortile, a leggere e riposarsi.
Per quanto cercasse di ricordare, Ezra non ricordava di aver chiuso la porta, come faceva sempre.
Un fulmine di consapevolezza gli percorse lo sguardo.
Osservò Emeline, sprezzante dall'alto del suo viso lievemente asimmetrico, mantenendo quel contatto mentre si chiudeva la porta alle spalle.

Lei inarcò le labbra in sorriso cordiale e gelido, tanto arido da personificare quelle terre brulle e secche di cui Edimburgo era accerchiata.
Si voltò, in cerca di qualcosa nella cartella di cuoio, e quel sorriso scomparve.

  Slegò la cinghia di metallo, e mentre era alla ricerca, persa in quella miriade di fogli, Deerwood cercò lo sguardo dell'altro.
Lo punse con gli occhi di catrame, in attesa di attenzioni.
Quando finalmente le ebbe mosse le labbra, impercettibile.
Mormorò, in labiale:
«Perché?»

A quale scopo quella studentessa li aveva seguiti, osservati, tormentati per tutti quel tempo?
E quindi per quale ragione si era poi introdotta nella loro aula, guardandoli con sufficienza e attendendo qualcosa di incomprensibile?

Ezra non rispose.
Scosse solo la testa, dalla quale ricadde qualche ciocca fine e bionda.
Ora che l'aveva davanti, non voleva più parlarle. Di colpo.
Era troppo. Ritiro tutto...

«Questi» disse Emeline, voltandosi di scatto. Teneva tra le mani un quaderno perfettamente rilegato.
Si staccò dalla scrivania con un colpo di reni, atterrando sul pavimento di legno in un suono sordo e scricchiolante.
Aprì il libro, lasciando che fosse visibile agli altri.

«Cosa sarebbe...» mormorò Ezra, quasi fosse solo un suo pensiero personale.
Si avvicinò, sfogliando qualche pagina per puro diletto.

Julius lo seguiva, negli occhi un luccichio di desiderio: prese il quaderno tra le mani, tenendolo sopra il polso, sotto lo sguardo vigile di Emeline.

Entrambi gli studenti si sporsero per guardare, passandosi quel libro, rubandoselo per osservare il suo ipnotico contenuto.

«Gelsomini?» Ezra era sbiancato di colpo. Sbatteva le palpebre con nervosismo, mentre leggeva sotto voce un paragrafo scritto vicino all'illustrazione di una foglia sezionata.

«Cosa significa?» domandò Deerwood, allarmato, mentre osservava per la centesima volta quella pagina.
Prese a sfogliarle tutte, con violenza, prima che Ezra chiudesse di colpo il libro; Julius ritirò le dita arrossate a sé.

«A quanti incontri avete assistito?»
Ezra si avvicinò alla libreria di mogano che giaceva inutilizzata.
Volumi su volumi andavano a comporre quel fitto e ammuffito domino.

«Cosa?»

«Tutte queste ricerche. Ci avete sentito parlare, giusto?»
Emeline rise. «Solo una o due volte» confessò. «Così ho deciso di consultarvi. Ma svolgo le mie ricerche in solitaria, da due anni.»

«Due anni?»

«Sì.»

Julius fece roteare gli occhi in un movimento colmo di irritazione.
Si staccò dalla finestra, affiancandosi a Ezra, quasi non potesse parlare se non gli era vicino.
«Noi non abbiamo solo teoria» disse.

«Nemmeno io.»
Emeline osservò la divisa sporca di gesso di Julius, la cravatta allentata di Ezra: disordinati, sì, ma nella splendida maniera in cui potevano esserlo persone sofisticate come loro.

«Quello che ci avete mostrato è teoria»
Ezra fece schioccare le dita della mano sinistra.
«Avete mai fatto esperimenti direttamente sulla pianta?»

«Sì, certo.»

«Vorremmo vederli.»
Emeline annuì, e Julius le scoccò un'occhiata spaventata, quasi volesse comunicarle di smetterla, in nome di Dio. Di lasciarci stare, lasciarmi studiare per i miei esami.

Emeline rise. «Non li ho qui, ovviamente»chiarì, sorpresa che potessero solo pensarlo. Gente come loro probabilmente era abituata a credere di dire sempre cose sensate e intelligenti.

«Allora non possiamo credervi, mi dispiace» intervenne Ezra, poco dispiaciuto.
Tra tutte le cose che aveva teorizzato, quella era la più assurda: mai avrebbe pensato che la spettrale ragazza che tormentava le sue giornate li stesse seguendo solo per mera curiosità. Ne rimase deluso.

«Ci dispiace» ripetè Julius, annoiato.
«Ma gradiremmo che non ci seguiste più.»

Emeline inarcò le sopracciglia, contrariata.
«Io non vi ho mai seguito. Ho trovato l'aula per caso.»
Julius scoppiò in una risata dolce e singhiozzante, fuori luogo.
«Allora come spiegate tutte le volte in cui ci siamo incontrati?»
La osservò, gli occhi perennemente tristi illuminati di rosso dalle luci del mosaico.

Emeline sorrise, incredula e severa.
«Ci ho riflettuto a lungo anche io, ma, sapete, siamo letteralmente nello stesso dipartimento» ironizzò, amara.
Li guardò fissarla ancora per qualche secondo, poi incrociò le braccia, stanca.
«Sentite, so perfettamente quali siano i soggetti dei vostri studi...»

«No, non potete saperlo.»
Julius scosse la testa; rabbrividì quando uno spiraglio di vento gli si insinuò dentro il colletto della camicia.

«Cellule ringiovanenti.»
Emeline vide Ezra rivolgerle l'attenzione di scatto, come se fosse all'improvviso caduto in uno stato di felina allerta.
«Cercate di estrarle dalle piante di calendule, ma non ci siete ancora riusciti, o forse non funziona. Col gelsomino è possibile teoricamente, e sono convinta potrebbe esserlo anche nella pratica; solo, non ho ancora capito come realizzare l'esperimento.» Poi si fermò qualche secondo, volgendo lo sguardo verso la finestra.
«Mi sono rivolta a voi perché studiate i miei stessi argomenti, e ricercate il mio stesso fine ultimo; pensavo avreste potuto essere un aiuto prezioso, ma evidentemente la vostra superbia precede il vostro talento. È un peccato, davvero.»
Non si aspettava che cogliessero quel sottile sarcasmo; in verità non si aspettava che cogliessero più nulla di quello che avrebbe voluto dir loro, in quel momento.

Ma Ezra sbuffò una risata, -così diversa da quella di Julius, molto più mite e sincera, più stanca e quasi affannata- e le si avvicinò.
«Forse ci siamo fatti tutti prendere troppo dalla paranoia» ammise, con un tono cordiale e una leggera pronuncia blesa, che si mostrò a tradimento con quella frase articolata.

Julius si staccò dal muro, insofferente.
Ezra si stava mettendo in ridicolo.
Parlare di paranoia, in quel momento, quando la sua stava diventando una sincera ossessione?
Il suo animo si era messo a dormire solo grazie a tutti i sonniferi che quell'incontro gli aveva fatto ingerire.
I rimproveri di quella donna erano stati l'unico modo per quietarlo davvero, e lui ora si mostrava come il più ragionevole?

Julius gli scoccò uno sguardo, convinto di volerlo prendere a schiaffi.

«Bene, allora.» Emeline si stirò, con la soddisfazione di un gatto sotto a un mattutino sole tiepido.
«Ho davvero delle prove pratiche dei miei esperimenti. Possiamo accordarci per una visita al mio indirizzo?»

Julius guardò Ezra; lui, di rimando, annuì. «Certo» disse, e l'altro lasciò cadere le braccia ai fianchi, esterrefatto.
«Non ci posso credere» sibilò.

«Perfetto.» Emeline si alzò, ricordando di mantenere ancora per qualche minuto quella calma essenziale.
«Emeline Barclay, allora» stese la mano verso Ezra, e notando che tremava la strinse a pugno per qualche secondo.

Lui sorrise, e dopo un attimo d'esitazione ricambiò la stretta. «Ezra Felix.»

Julius gli stava vicino, le mani dentro le tasche dei pantaloni di velluto; guardava a terra, come un bambino a cui è appena stato vietato di giocare, ma le si avvicinò comunque, ricambiando la stretta che Emeline gli aveva porto.
«Julius Deerwood» disse.
La sua mano era fredda e sporca di gesso; la ritrasse dopo pochi secondi, nascondendola di nuovo tra la stoffa della tasca.

Era strano, vederli vicini.
Emeline se ne accorse quando li osservò uno accanto all'altro, in tutta la loro brillante noncuranza.
Erano figli della Vaas, con quegli sguardi affilati e i fermagli delle uniformi a luccicare intorno al collo, i capelli annodati dal vento e le unghie sporche d'inchiostro.

  E tra tutte le volte i cui gli si erano mostrati dinanzi, credette che in quella apparissero più spettrali che mai: le erano vicini, tangibili, ma qualcosa in loro li faceva sembrare privi di materia; quasi si fossero rivelati solo per mostrarle com'erano stati in vita.

Forse erano state le sue parole, ma si accorse ben presto di quanto le loro indoli fossero cambiate, capovolte, quasi: Ezra le sorrideva, adesso.
E anche se Julius rimaneva in silenzio, la stava osservando con un'espressione diversa, in cui allo spavento iniziale aveva aggiunto una curiosità profonda.

Emeline sorrise mentalmente, pensando alla paranoia che era riuscita ad instillare in entrambi, e quanto fosse stato banale riuscirci, grazie alla considerazione spettrale che avevano già nei suoi confronti.
Era davvero divertente giocare la parte del fantasma che le avevano inconsciamente assegnato, e che lei, più razionalmente, aveva assegnato a loro.

«Allora, vi prego di lasciarci l'indirizzo.»
Ezra abbandonò la cartella sulla cattedra, e aprendola ne tirò fuori un foglio a righe, su cui aveva annotato a matita solo qualche breve appunto di mineralogia.

«Ferchar street. Dovete salire per la prima strada a destra, è in pendenza, ma riescono a passarci carrozze e automobili. C'è una sola casa, sulla collina, è la mia. Non potete non trovarla, è preceduta da un labirinto.»
Scrisse le coordinate principali, poi restituì il foglio, piegato a metà.
«Mi troverete ogni pomeriggio, dalle tre alle cinque. Se volete venire per l'ora del tè mi occuperò di servirvene una tazza.»

«Grazie» Ezra, distratto, rileggeva le indicazioni. «Verremo in settimana.»

Julius stava fermo, intento a osservarsi le suole delle scarpe.

«Se preferite venire nel weekend per via dello studio» disse Emeline. «Non c'è alcun problema.»
Guardandolo, Julius Deerwood non sembrava più il giovane latinista giudicante e terribilmente sfrontato che pensava di conoscere; come se tutta la sua confidenza si fosse suicidata nel momento esatto in cui si erano incontrati, in quel momento a risaltare era quella sua parte fatta di occhiate timorose e presenza fragile, che in aula sembrava costantemente scomparire.

Lui sbottò in un sorrisetto tra l'infastidito e il rassegnato. «No, non è necessario» mormorò.
«Exequatur ², allora. Che sia fatto.»
Sibilò, passandosi una mano tra le onde dei capelli e lasciandole cadere vicino agli occhi.

Ezra sospirò, sollevato.
Fece per accendersi una sigaretta, quando Emeline si avviò alla porta.
«È interessante, che vi riuniate una volta al mese. Adesso dovrei dire Kalendae

Lui diede un colpo di tosse, Julius sembrò sbiancare.
Entrambi sorrisero, trasognati e terrorizzati, e lei li salutò.
Scomparve dietro la porta di ciliegio bianco con la sicurezza che stessero già rimpiangendo tutta quella discussione.

«Mi serve dell'acqua» mormorò Ezra con un filo di voce, buttando a terra la sigaretta. Tossiva, e in cerca d'aria buttò il busto oltre la finestra aperta, le dita a stringere il marmo del traverso.

«Dio, lo sapevo» Julius gli si avvicinò, senza toccarlo.
«Era incredibile che fossi così tranquillo. L'asma ti tradisce sempre.»
Rideva, spaventato e divertito, soddisfatto di non essere stato l'unico ad aver avuto paura.

«Non è per quello» negò lui, trascinando le parole tra un respiro rotto e l'altro.
«È la polvere.»
Si sbottonò la mantella, premendo con una mano la trachea in un movimento inconscio, mentre con l'altra cercava l'appoggio di una sedia.

Julius annuì. «Sicuro.»
Non lo contraddisse, ma lo diresse verso la cattedra.
«Adesso siediti, non devi morire proprio qui, dove non dovremmo essere. Io verrei espulso, e tu saresti morto. Terribile, non trovi?»


Glossario

¹ Odi et Amo: Odio e Amo.
Incipit e titolo del Carme 85 di Catullo.

² Exequatur: Letteralmente "che esegua".
È un'espressione con cui si convalida l'ordine di esecuzione di un atto pubblico.
Si può utilizzare più generalmente per dare il via a un'azione qualunque.

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