Capitolo IX- Captatio Benevolentiae

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Sistemò l'ultimo vaso vicino alla finestra. Geranei di un pallido rosa volgevano il capo verso l'esterno, chini a osservare il prato sottostante.
Emeline appoggiò il vassoio sulla superficie lattea del tavolino d'avorio, riflettente sotto il tramonto delle cinque.
Il sole stava iniziando a calare ben presto, ed era già buio quando due giorni prima Julius Deerwood l'aveva fermata, chiamandola Barclay da dietro le spalle, mentre entrambi uscivano dall'aula di Biologia.
Era rimasto in silenzio per qualche secondo, prima di dirle che il cinque di settembre sarebbe stata una data favorevole, per il loro incontro.
Allora si era innalzato un coro di urla, fischi e frasi sconnesse in latino, da parte del gruppo che si portava sempre appresso.
Cunnio ¹, si erano messi a ripetere due ragazzi a braccetto. Cunnio, Cunnio.

Lei se n'era andata col favore di quella confusione, mentre Julius cercava di quietare la situazione con tutto lo sdegno nobile di cui era capace.
In quel momento, osservandosi riflessa nell'ambra del tè dentro la teiera, si chiese il perché di tutto quell'oltraggio.
Credette che fosse un problema di Deerwood; per quel poco che lo aveva conosciuto era rimasto in silenzio a osservarla, cupo e imbronciato: era plausibile che davanti alla sua schiera di seguaci avesse reagito in quel modo.
Lei di certo non se ne dispiaceva.

Aprì da sé la grande finestra del soggiorno, dopo aver ordinato all'unica cameriera che aveva a disposizione di spalancare tutte le altre. Il vento irrompeva nella sala senza trovare ostacoli, e sotto la sua spinta si muovevano le gocce di cristallo del lampadario, i fogli sul bracciolo del divano, le tende di lino scuro.

Anche la sua camicia si gonfiò di vento, ed Emeline non fece nulla per fermarla: le piaceva le sensazione del freddo tra le braccia, ad accoglierla come un vestito di gelida stoffa.
Si avvicinò al terrazzo, dove si arrampicava l'edera, e appoggiò i gomiti al bordo del balcone.

Non si sarebbero presentati.
Fulmineo, il pensiero la colse alla sprovvista, destando più delusione di quanta se ne sarebbe aspettata.
Erano le cinque e un quarto, ed era ovvio che sarebbe rimasta sola tutto il pomeriggio.
Certo.
Come aveva potuto credere di essere riuscita a convincerli, così facilmente?
Forse l'avevano addirittura ingannata, per tutto quel tempo.
Non sarebbe stata la prima volta, come ricordò con un'amara sensazione di disagio.

Il primo anno alla Vaas era stato un grande sogno febbrile, e tra la confusione e l'incertezza nell'ammettere per la prima volta delle donne all'interno del college si era creata come una moda nell'umiliare il più possibile le studentesse.
Faceva di tutto per dimenticarlo, ma credeva che una delle peggiori umiliazioni l'avesse subita proprio lei: la promessa di entrare in uno dei tanti circoli extrascolastici del dipartimento si era trasformata nel richiamo ufficiale di una professoressa, che si era trovata davanti una scena incomprensibile: una sola studentessa, seduta sulla cattedra dell'aula di astronomia fuori dall'orario scolastico, in attesa di qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
E quei due studenti forse erano l'ennesima mortificazione.
L'ennesimo scacco matto a nome di tutti gli altri che si erano divertiti nel rimetterla al suo posto.

Si staccò dal balcone, decisa a tornare dentro. Erano le cinque e venti, e nessuno si sarebbe più presentato.
Chiamò la domestica dal piano di sotto, senza risposta.
Scendendo al piano terra lo trovò silenzioso, con solo il cinguettare lontano di qualche tortora.

«Isla?» gridò, mentre camminava verso l'entrata.
«Isla, chiudi le finestre, per cortesia. Non credo.»
Poi si fermò.
Un brusio indistinto proveniva da fuori, un vociare che le arrivò all'orecchio confuso e mischiato, incomprensibile.

Si diresse verso la porta, lasciandosi dondolare,  sospesa a un braccio che teneva aggrovigliato al pilastro di pietra dell'entrata.
«Isla» provò a dire di nuovo, meno decisa, mentre sentiva il rumore di passi sempre più vicini.
Il braccio lasciò la presa, ed Emeline si trovò sbilanciata verso i gradini del giardino; guardava lo spettacolo davanti a sé, senza sapere se esserne spaventata o terribilmente divertita.

Isla, affaticata, camminava verso di lei a braccia aperte.
La seguivano Ezra, mormorante, e Julius, che si stava coprendo il viso con la giacca e a ogni passo sussultava.

«Signorina, gli ospiti che attendavate...»
Isla la guardava allarmata, mentre faceva segno a Ezra di avvicinarsi.
«Li ho sentiti gridare, erano in mezzo al labirinto. Credevo si fossero persi, ma in realtà...»

«Chi tiene un labirinto di gelsomino? Il gelsomino attira le vespe, ne avrò viste una ventina! Potevo morire!»
Julius gridava ai bossi, alla statua di Demetra coperta di muschio, agli uccelli che si innalzavano in volo sopra di loro: non era chiaro contro chi si stesse sfogando, ma Ezra cercava in tutti i modi di calmarlo, e rosso in viso si faceva strada tra gli ultimi arbusti che li dividevano dall'entrata.

«Avete avuto qualche problema?»
Emeline gli venne in contro, tranquilla e leggera nella sua gonna di broccato.
Tra le mani teneva il cappello che aveva dimenticato di mettere, e una piuma di struzzo sfiorava il granito del suolo.

«No, nessuno, davvero.»
Ezra scosse la mano, ma le parole di Julius lo sovrastarono.

«Tranne che sono allergico alle vespe! Mortalmente allergico. Mi hanno punto una sola volta da piccolo, stavo per morire di anafilassi, e il vostro labirinto è un covo infernale di vespe!»

Isla guardò Emeline, lei di rimando chiuse gli occhi. «Temo sia per via del gelsomino.
Sono molto dispiaciuta, ma non potevo sapere della vostra condizione.»

«Come farò ad andarmene da questa casa, adesso? Non posso ripassare di qui, in assoluto.»
E poi disse qualcosa all'orecchio di Ezra, che pazientemente lo ascoltò, annuendo e riferendogli una risposta mormorata.

«C'è un'altra uscita, sul lato destro della villa. Potrete passare di lì.»
Ezra le lanciò un'occhiata, ed Emeline fece di tutto per ricambiare con un sorriso teso.

«Avrei potuto morire.»
Julius le passò vicino, rimettendosi la giacca con un gesto irritato.
Emeline sorrise. «Ma non è successo, ed è un bene. Adesso possiamo accomodarci in sala. Isla ci accompagnerà e servirà il tè.»

«Sei letteralmente uscito di testa, Julius.»

«Non è vero.»

«Sì, e non posso più fare nulla per aiutarti.»Ezra salì qualche gradino, prima di fermarsi ad ammirare una grande natura morta appesa vicino al torrione della scala.

«La smetti? La mia allergia è una questione seria.»
Julius lo osservò torvo, mentre calpestavano il velluto del tappeto posto a coprire i gradini.
Si guardò intorno, alla ricerca di un qualche ritratto, non trovandone alcuno.
Le pareti erano ornate di vivaci quadri di paesaggi dai colori infuocati, incorniciati con intarsi di un brillante oro, ma c'era la completa assenza di un qualsiasi tipo di volto.
Alzò lo sguardo; il soffitto era candido, ricoperto di chiari affreschi raffiguranti sbiadite scene di caccia, illuminate dalla dolce luce proveniente dalle finestre aperte.

Era come se il piano terra fosse stato affetto da una pallida e polverosa decadenza, che tuttavia lo rendeva ancora più bello e luminoso; lo sbiadire dei colori non faceva altro che impreziosirlo.

Si vedeva il giardino anteriore alla villa, da quell'altezza, e Julius strinse la stoffa della manica del cappotto di Ezra.
«Guarda» disse. «Canarini.»
Indicava la grande serra che adombrava tutta la restante porzione di prato: candida, con vetri spessi e lucidi, al suo interno si scorgeva del movimento febbrile.
Una piccola miriade di pallide ali gialle si muoveva frenetica, dentro quella che sembrava essere una voliera.

«Dev'essere una seguace della moda di Londra.»
Julius guardò Emeline, davanti a loro.
Aveva sentito parlare spesso degli immensi giardini pensili che ormai erano diventati una necessità, nella capitale: animali esotici, meravigliosi e dai colori sgargianti; piante d'ogni tipo, giungle vere e proprie, cascate d'acqua limpida che sgorgavano da impianti d'irrigazione all'avanguardia.
La Scozia era diversa: il fascino dell'Oriente l'aveva conquistata per un brevissimo frangente vittoriano, quando ancora la gente impazziva per lo spiritismo e copriva gli specchi quando qualcuno moriva.
Quando tutti, quindi, erano affascinati indistintamente da qualsiasi tipo di stranezza.

Poi tutto era passato, forse per una mentalità diversa, forse perché nessuno voleva ammettere di essersi piegato ai costumi inglesi; eppure c'era chi invece rimaneva spudoratamente affascinato da tutte quelle novità, quei giardini da tè e quelle Indie, quegli Egitti, quegli ecosistemi in miniatura.
Suo padre non avrebbe approvato tutta quell'innovazione, ma suo padre non approvava molte cose.

D'un tratto ricordò che anche loro avevano avuto una voliera, molto tempo prima, nel corridoio che portava all'entrata della loro tenuta.
«Anche io avevo dei canarini, da piccolo.
I bracchi se li sono mangiati tutti.»
Julius salì due gradini alla volta, non staccando gli occhi da fuori la finestra.

«Non capisco come hai fatto.»

«Cosa? A lasciare che se li mangiassero?
Avevo dieci anni, Ezra...»

«No, non capisco come fai a vedere che sono canarini.»
Si sforzò di osservare più a lungo, ma Ezra continuò a non vedere nulla.
Solo qualche movimento lontano, sagome indistinte tra il verde spento irradiato di nebbia.

«Credo tu stia diventando miope.»
Julius gli rivolse un'occhiata distratta.
«Sai, anche mia madre lo è. Penso sia semplice rimediare. Basta farsi fare un paio di quegli orribili occhiali dalla montatura d'oro che vendono nelle oreficerie sulla Royal Mile.»

«Se non vedete, posso prestarvi uno paio dei miei orribili occhiali.»
Emeline si voltò nella loro direzione, sorridente.
«Non li ho presi sulla Royal Mile, ma credo possano andare bene comunque, per un giorno.»
Poi diede un ordine mormorato a Isla: quella si mosse verso l'ultima stanza del corridoio, aprendone le ante della porta.

«Non ce n'è bisogno, davvero. Vi ringrazio.»
Ezra guardava lontano. Dopo essere stato partecipe di due terribili comportamenti di Julius, preferiva delle amorfe macchie di colore lontane allo sguardo che aveva davanti.

«Captatio Benevolentiae ².» Julius gli si avvicinò, appoggiandogli una mano sulla spalla, sussurrando e ridendo.

Ezra si scostò, torvo.
«Non cerco le simpatie di nessuno» disse.
«Sto solo tentando di recuperare tutta la dignità che mi hai fatto perdere.»
Ma quando vide Julius ridere, lo seguì.

«Io sono terrorizzato, Ezra.» Lui rideva, ma sapeva per certo ci fosse un fondo di verità in quelle parole.
Si era svolto tutto con un'insensibilità e una fretta tali che era stato impossibile realizzare.

«Anch'io. Ti prego, non darlo a notare.»
Ezra si era tolto il cappotto, e sembrava che anche il suo consueto foulard di seta gli fosse di troppo. Lo sfilò dal collo.

Forse era l'adrenalina, qualche altra sostanza chimica o comunque qualsiasi cosa che potesse dare una spiegazione scientifica e razionale a quella follia, ma a un certo punto entrambi furono quasi sollevati, quasi felici di trovarsi lì, nella lattea casa della donna che, una settimana prima, tormentava i loro pensieri.
Come se fosse stata l'unica cosa che avevano sempre aspettato.

Julius non rispose, ma «potevi accettare gli occhiali» disse solo, salendo l'ultimo gradino. «Scommetto che non ti starebbero stati in maniera orribile. Almeno credo.»

Li aveva accolti in uno stranissimo salone luminoso e riccamente affrescato; le pareti erano dipinte con palme e melograni, felci e rampicanti: scene dai profondi toni di verde, che si aggrovigliavano lungo la profondità dei muri quasi ne facessero davvero parte.
Al centro luccicava un lampadario di cristallo, e il divano dove Emeline li fece sedere era di un bel velluto damascato color oliva.

Tutto aveva l'aria di una sbiadita illustrazione descrittiva, di quelle che si potevano trovare nelle enciclopedie o nei dizionari; ogni cosa sottile e rifinita, colma di dettagli e colori, con a fianco descrizioni scritte a caratteri piccolissimi.
Sul tavolino era presentato il servizio da tè, insieme a tre fette di torta alle mandorle; vicino, qualche scone ³ tagliato a metà e un barattolo ancora sigillato di marmellata James Keiller & Sons.

«Servitevi pure» disse Emeline, mentre tirava le tende della finestra dietro la poltrona.
Isla era uscita, chiudendosi dietro la porta.

«Possiamo servirci da soli?» Ezra guardava le tazzine del servizio, lo sguardo leggermente incantato.
Erano sottili, talmente sottili che pensava le avrebbe rotte con la sola pressione delle sue labbra, eppure erano bellissime, con le loro decorazioni dorate e le rose a tempera. Luccicavano sotto la luce dorata della finestra, ed Ezra credette di non aver mai visto tazzine più belle.

«Certo.» Emeline non diede altre spiegazioni, e versò il tè nella sua tazza.
Un lieve fiotto d'acqua bollente sgorgò per qualche secondo, prima che la teiera tornasse al suo posto ed Emeline aprisse una scatola di latta decorata con un'illustrazione impressionista.
L'interno si divideva in tre scompartimenti, ognuno con un tipo di tè diverso; le erbe essiccate lasciarono che il loro profumo pungente saturasse l'aria.
«Irish Breakfast» disse Emeline, indicando il primo scompartimento, quello da cui proveniva un forte odore di malto.
«Tè bianco e Earl Grey.» Continuò, mostrando gli altri due e finendo così la sua breve e annoiata presentazione.

Ezra e Julius rimasero un attimo in silenzio, poi scelsero entrambi un Earl Grey.
Ezra con limone, Julius con latte.

«Allora» Emeline aprì il barattolo di marmellata con uno schiocco sordo.
«Da pochi giorni ho trasferito nella serra gran parte dei miei esperimenti» disse, spalmando un velo di burro sullo scone.
«È lì che tengo le piante di gelsomini: quelle analizzabili, intendo. Fuori non resisterebbero all'inverno, come si noterà presto nel labirinto.»

«Ovviamente.»
Ezra stava fermo, incerto se prendere o meno la sua fetta di torta; Julius, invece, sembrava essersi adattato molto bene ai modi informali di quella casa, mentre si serviva per la seconda volta con il latte.

«Che varietà avete, di gelsomini?» chiese Ezra, sistemandosi sul posto.

Lei volse gli occhi al soffitto, cercando di ricordare.
«Ecco... gelsomino d'Arabia, qualche pianta, e gelsomino bianco, che sta fiorendo ora.
Per l'inverno tengo il nudiflorum

«Come avete fatto ad importarli?» domandò Julius, mentre faceva ruotare il cucchiaino d'argento lungo i bordi della tazza.

Lei sorrise, addentando il biscotto.
«Perlopiù li ottengo grazie a mio padre; abitando a Londra, è molto più semplice reperirne di diversi tipi, nelle serre.
Ma non visita spesso la Scozia, perciò molte volte devo recarmi io da lui. Di solito me la cavo con la scusa di andarlo a trovare.»

«Sembra che non andiate molto d'accordo con vostro padre.»
L'occhiata di Ezra lo fermò dal parlare oltre, e Julius tacque, guardando il fondo della sua tazza.

«Io adoro mio padre. La mia era una semplice battuta.»
Non lo disse con serietà, più che altro con fermezza. Emeline si chiese il perché di quell'affermazione; quasi Deerwood non comprendesse il suo senso dell'umorismo, o non fosse abituato a scherzare sulla famiglia.

«Qual è la sua professione, se posso chiedere?»Ezra si decise a prendere il suo piatto, stretto tra i polpastrelli delle dita.

«Oh, lavora come mercante d'arte. Negli ultimi tempi sta facendo trattative per diversi quadri: Degas, Pissarro, Renoir e Manet, soprattutto. La corrente del momento è l'Impressionismo. Perchè tutti lo hanno rivalutato, suppongo.» Emeline si pulì la gonna dalle briciole, sotto lo sguardo vigile di Ezra.

«Sono suoi, i quadri che tenete nel torrione delle scale?» Julius sembrava aver acquisito più attenzione.
Emeline sospirò mentalmente: forse, con l'arte sarebbe riuscita ad ammansirlo.
Almeno per un po'.
«Sì. Alcuni sono regali. Il mio primo quadro mi è stato donato quando avevo diciassette anni. Un bellissimo bozzetto di Klimt. Ma molti sono di mio padre, comunque; me li fa tenere per il tempo che trascorre a Londra, e quando torna a Edimburgo li riprende, e vengono sostituiti. Mi chiedo se l'Impressionismo continuerà ad andare di moda. Non vorrei mai che i miei paesaggi venissero rimpiazzati da qualche stranezza modernista.»

«Tenete anche arte neoclassica?» chiese Julius, osservando distrattamente le pareti, stranamente prive di quadri; rifletté sul fatto che le pareti stesse, affrescate com'erano, potessero essere le vere decorazioni.
«Purtroppo no, se non qualche busto barocco che tiene mio padre. L'arte neoclassica è decisamente difficile da reperire, in questo periodo.»

Julius sembrò sinceramente deluso da quella notizia, accartocciandosi nell'angolo del divano come una spiga piegata dal vento; la giacca gli si piegò addosso, e allora lui tornò composto. «È inusuale che non abbiate ritratti. Quando avevo quattordici anni mia madre commissionò di farmene uno.»

«Dov'è, adesso? Non l'ho mai visto, a Blackcurrant...» domandò Ezra, sottovoce.
«Dai miei.»
«È un peccato» intervenne poi il primo, rivolgendosi ad Emeline.
«Che vostro padre riprenda i quadri. Immagino ne diventiate affezionata.»

Le labbra le si stesero in un gran sorriso dolce.
«A volte, sì. Succede soprattutto con i paesaggi estivi. Mi danno l'illusione che possa fare caldo anche qui, grazie ai loro colori, e quando se ne vanno spero sempre che non vengano rimpiazzati da una tela dai toni freddi.»

Ezra, lo sguardo basso, le ciglia a gettare una sottile ombra sugli zigomi, sorrise; era incredulo, e meravigliato.
Se c'era qualcosa che non aveva messo in conto di quella strana visita, era il finire per parlare d'arte, mentre mangiava torta alle noci seduto in una stanza più simile a un giardino.

«Allora» disse Emeline, osservando la serra dietro la finestra.
«Finite il vostro tè, poi incamminiamoci verso la serra, o sarà troppo buio.»

Calpestando l'erba gocciolante, Julius ricordò una cosa.
Non propriamente qualcosa, quanto un sentimento, una sensazione: l'erba bagnata sotto i piedi nudi, gli steli di erica annodati, il raffreddore e la febbre; memorie che andavano a plasmare una malinconia dolce e soffusa.
Come una carezza lontana quei ricordi gli sfioravano la mente, facendogli visualizzare qualcosa che pensava di aver perso da tempo. Forse non era propriamente l'erba, ma qualcosa di più ampio, a farlo stare così; forse era il giardino, forse la casa stessa.
Ma guardò Ezra sorridere, e volle credere che anche lui stesse ricordando qualcosa.
Probabilmente la loro era una memoria condivisa, e nemmeno lo sapevano: d'altra parte avevano passato diverse estati insieme, da ragazzini.

La serra svettava davanti a loro, con il suo fascino limpido e i rampicanti d'un verde sbiadito a soffocarne le pareti.
Vetri luccicanti filtravano il sole come a depurarlo, rendendolo il nutrimento di quelle preziose piante; i canarini cinguettavano e frusciavano le fragili ali, in una gialla nube offuscata dalle sbarre.

Emeline teneva tra le dita un piccolo mazzo di chiavi, con il quale aprì la spessa porta di ferro battuto dell'edificio; quella cigolò appena sotto il peso della ruggine, prima di lasciare libero il passaggio.

«Lì ci sono gelsomini e altre piante che ho fatto travasare da poco.»
Emeline ancora ricordava la fatica, le unghie rotte e il sudore freddo del giorno in cui aveva deciso di sistemare la serra; Isla aveva un'età, e anche se si era impuntata di volerla aiutare aveva lamentato l'artrite dopo due vasi spostati.
L'aveva aiutata come poteva, quindi, servendole fin troppe limonate e lodando il suo spirito d'iniziativa.

«Ci si può sedere?»
Julius indicò la panchina di legno, dipinta di vernice bianca.

Emeline annuì. «Ah, certo, sì. Solo, potrebbe esserci un nido di ragni, sotto. Ma le uova non sono ancora schiuse, non vi preoccupate.»

«Certo, va bene» Julius prese a camminare, allontanandosi dalla panchina e osservando con noncuranza le piante di begonia.

«Qui, invece, svolgo gli esperimenti.»
Davanti a lei c'era una scrivania dal legno freddo e umido, sulla quale Emeline appoggiò un paio di cesoie.
Il tavolo era ordinato, anche se coperto dei più disparati suppellettili: fogli macchiati di terra, provette dal vetro opaco, ampolle vuote e una piccola pala arrugginita; al centro, spolverato e luccicante, un microscopio di ottone.
Emeline gli si avvicinò, guardando attraverso le sue lenti.
«Ecco» disse.
«Ho sezionato stelo e fiore, per ora. La foglia è difficile da analizzare, ma non credo che comunque le proprietà più importanti
si trovino in essa.»
Indicò l'esile stelo, aperto quasi stesse subendo un'autopsia, schiacciato contro le lenti del microscopio.

Ezra si avvicinò, e così fece Julius.
Osservò a lungo, mentre calibrava le lenti tenendo i polpastrelli appoggiati ai regolatori del microscopio; i capelli gli caddero davanti a viso, ma lui sembrò non farci caso.
«Immagino non siate ancora riuscita a separare i salicilati.»

«No.» Emeline teneva le mani intrecciate tra loro, dondolandosi da un piede all'altro.
«Ma credo sia possibile.»

«È possibile.» Chiarì Julius con un mezzo sorriso, mentre si staccava dal microscopio e lasciava il posto a Ezra.
«Con le calendule ci avevamo provato, ma l'esperimento non è mai andato a buon fine. Presumo fosse per le proprietà delle molecole stesse.»

«Coi salicilati del gelsomino potrebbe funzionare proprio grazie alle loro proprietà.» Emeline si staccò dal vetro del muro, avvicinandosi agli altri.
Scontrò con la guancia la foglia di un'edera rampicante, e si ritrasse.

Ezra annuì, mentre continuava a guardare dal microscopio,. Poi alzò il viso, incontrando quello di Julius.
«Sono in grado di formare legami glicosidici. Perciò si potrebbero raggruppare le molecole desiderate...»
«E creare i legami. Sì.» Julius annuì; tra le mani teneva il fiore di una begonia, a cui stava uno ad uno strappando i petali, come un ragazzino romantico.
«I salicilati non sono solubili in acqua, però.» Lo punse Ezra, ma lui scacciò quell'ostacolo come un insetto fastidioso.

«Anche se sono esteri, possono essere estratti con un solvente, nella la fase organica.
È piuttosto semplice separarli dalla fase acquosa.» E diede un'occhiata alla gabbia dei canarini; uno sguardo strano e spaventato, quasi non avesse mai più visto canarini da quando era bambino e loro erano morti e sanguinanti nella bocca di un bracco dal pelo lucido.

«Ho saputo che siete molto portato negli esperimenti pratici» disse Emeline, e per la prima volta, da quando lo aveva conosciuto, vide della timidezza correre sulle sue labbra.

«Presumo di sì.»

«Credete di poterci provare? Di provare a separare le molecole ed estrarle?»
Lei ci aveva provato, ma aveva sempre saputo di essere una persona più teorica, suo malgrado.
Lei pensava, razionalizzava, progettava ipotesi che si rivelavano perlopiù corrette; le era sempre piaciuto creare sulla carta, immaginare come sarebbe potuto essere.
Ma seppur si fosse sempre dimostrata competente negli esperimenti, tutta quella precisione si spegneva in laboratorio, quasi le sue idee fossero troppo grandi, e gli strumenti a disposizione troppo pochi.

«Sì, credo...» Poi un bagliore lievemente preoccupato, quasi ansioso, gli scorse tra gli occhi; Julius lo ricacciò subito indietro, annuendo. «Credo di farcela.»
Emeline sorrise.
«Molto bene.» Guardò Julius saltellare da una parte all'altra della serra parlando di soluzioni e distillazioni, contento e sorridente, mentre Ezra mormorava qualcosa tra sé, pensoso, e credette che si potesse fare.
Forse aveva trovato ciò che le mancava.
La teoria aveva finalmente incontrato la pratica.

Glossario

¹Cunnio: Donnaiolo.

² Captatio Benevolentiae: Conquista della benevolenza.
Parte dell'oratoria che puntava a conquistare la benevolenza degli ascoltatori.

³ Scone: dolci tipici scozzesi nati a metà del diciannovesimo secolo. Generalmente accompagnatori di tè, possono essere serviti con confetture, miele o clotted cream, e vanno sempre serviti tagliati a metà.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro