Capitolo X- Habens cor cervi

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Qualcuno era scivolato sul viale principale della Vaas.
Uno stormo di studenti gli si era accerchiato intorno, sussultante e frenetico come il pubblico di un rituale pagano.
Il viale a settembre finiva sempre per coprirsi delle foglie marce che si staccavano, una dopo l'altra, dalle querce; cadevano producendo qualche debole scricchiolio, arrendendosi alla loro prematura morte con un'inquietante indifferenza.
Con la pioggia si scioglievano e si fondevano alla terra e al granito della via, creando una poltiglia colorata d'autunno su cui era molto semplice scivolare.
Lo studente caduto stringeva quelle foglie marce tra le dita, arricciate e fameliche di terra come artigli che affondavano nella carne.

Doveva essere uno del primo o secondo anno; un ragazzo dai vestiti sporchi di fango e lacrime a solcargli le guance pallide e scosse da tremiti. Guardava davanti a sè, ma  si rifiutava di posare lo sguardo sulla sua caviglia gonfia e storta verso l'esterno.

«L'ha distorta. Lussata, se gli va male.»
Ezra guardava la scena da lontano, tra le dita una sigaretta alla quale Julius aveva insistito per fare un tiro.
«Mio padre saprebbe cosa fare.»
Osservava il ragazzo, il suo dire che non aveva battuto la caviglia a terra, ma l'aveva storta nel tentativo di non cadere di schiena.

«Dovresti saperlo anche tu, per osmosi.»
Julius gli scoccò una sottile occhiata divertita, ma Ezra sembrò prendere quella battuta seriamente.
«Non sono portato per la medicina» ammise solo, prima di inspirar una lunga boccata di fumo.

Riesci a camminare? Aveva chiesto uno studente del gruppo, le sue scarpe a sprofondare tra le foglie. Lui scosse la testa.

Julius si volse dall'altra parte, con uno sbuffo; forse non aveva voglia di guardare, forse la situazione aveva semplicemente iniziato ad annoiarlo.

«Vorrà vedere i nostri esperimenti pratici»disse all'improvviso Ezra, mentre anche lui si voltava, rivolgendo lo sguardo verso l'orizzonte di infiniti campi che contornava la scuola.

Julius alzò gli occhi verso il cielo in un movimento rapido e lievemente irritato. Quando era infastidito -non troppo infastidito- adottava sempre i metodi più espliciti per mostrarlo.
Con le cose che gli stavano davvero strette era un altro conto.
«E se non fosse così? Se aspettasse solo una nostra ricomparsa?»

«Non credo. Ormai-»

«Potremmo fare finta di niente. Potremmo fare finta che non sia successo nulla e non chiederci mai più nulla.»
Aveva esagerato, e Julius se ne rese conto quando, nel suo tentativo di prende la sigaretta di Ezra tra le dita, lui scostò il braccio.

«Ormai abbiamo preso una scelta.»
Ezra terminò la frase.
«Non possiamo più tirarci indietro, non adesso, non dopo essere stati a casa sua. È...poco corretto» mormorò le ultime parole, e Julius sbocciò in un sorrisetto.
«Da quando sei così inglese?» chiese, sarcastico, prima di afferrare comunque la sigaretta.

«Sei tu ad essere schifosamente vigliacco.»
Non c'era vero astio nel suo tono.
Ezra si strinse a sè, quando una corrente fredda di vento gli si insinuò lungo gli intrecci del maglione.

«Habens cor cervi ¹.» Le labbra di Julius tremarono appena in una risata incerta.
«Lo sai che ho un cuore di cervo, Ezra.»
Buttò a terra la sigaretta, spegnendola con la punta consumata delle Oxford.
«Diciamole di venire nell'artis aula.»
Propose infine.

«Non teniamo gli esperimenti pratici lì, lo sai bene.» Ezra lavorava nella sua stanza, alla Cattedrale, arrangiandosi come poteva in quei pochi metri quadrati, chino alla sua scrivania nelle notti più placide.
Julius teneva tutto a Blackcurrant.
«E non possiamo farla salire alla Cattedrale.
È vietato.»

«So dove vuole andare a parare.» Julius appoggiò entrambe le mani a terra, sedendosi sull'erba umida.
Ezra lo seguì.
«Non possiamo fare altrimenti. Prendila come una cortesia, farle visitare Blackcurrant.»Strinse debolmente le ginocchia al petto, poi Ezra si voltò verso l'altro.

«Allora l'hai deciso» disse Julius, criptico.

«Cosa?»

«Che fa parte del gruppo. Hai già deciso.» Glielo leggeva negli occhi, e nel modo che ne  aveva di parlare; come se tutto fosse già concordato.
Odiava ammetterlo, ma Julius ebbe l'impressione di essere stato tagliato fuori da quella decisione allo stesso modo di una rosa marcita, potata per non rovinare la pianta.

«Non ho detto questo.» Ezra sembrò irritato per la prima volta, e dopo tutte quelle risposte neutre la sua voce si flettè in un tono più freddo.
«Non fa parte del gruppo; dovremmo solo terminare questo scambio culturale. Altrimenti perché abbiamo accettato il suo invito?»

Rimasero entrambi in silenzio, per qualche attimo.
Poi Julius si sciolse in un sospiro esausto.
«Solo se glielo chiederai tu, però.  A me è largamente bastata l'ultima volta. Ora tutto il corso di latino crede che mi incontri con la Barclay... che mi incontri con lei. Invitarla a Blackcurrant segnerebbe il mio declino totale.» Tagliò corto, ed Ezra rise.
«A me non darebbe fastidio» esclamò.
«Che lo pensassero.»

Julius gli scoccò un'occhiata; qualche secondo speso a osservare il suo sorriso svanire, prima di affermare:
«Beh, a me sì.»

Emeline appoggiò la cartella contro il muro di pietra del portico, lasciandola cadere con uno sbuffo sollevato.
Al suo interno gravava il peso dei libri di astronomia e chimica, latino e fisica.

Si sedette sul bordo del portico, guardando lo strapiombo sottostante con un vago senso di vertigine; sotto di lei si stendeva una breve porzione di prato, dove tutti si riunivano quando il tempo era troppo brutto per allontanarsi verso il parco o il cortile interno. Gruppi di studenti attendevano la lezione successiva mentre leggevano o riposavano sdraiati lungo le lastre di marmo, le giacche sul viso e le braccia nel vuoto. 
Ragazzi del quarto giocavano a dama, avendo allestito una piccola partita con la scacchiera di cui disponeva la biblioteca; alcuni stavano in gruppo, a parlare e scherzare ad alta voce, altri si dicevano le cose con più riservatezza, lontani dal corridoio e seduti lungo le gradinate di granito.
Emeline aprì la cartella, nella speranza di non aver dimenticato a casa la sua copia ingiallita de I fiori del Male.
Le piaceva leggere le poesie di Baudelaire nelle pause tra una lezione e l'altra; erano forti, scandalose, ipnotizzanti.
E quando alzava gli occhi da quelle pagine e incontrava il paesaggio del prato, con i suoi visi allegri e le sue risate, si sentiva trasportata in una realtà talmente diversa da far quasi male.

Trovò il libro in fondo alla cartella: un volumetto tascabile, dalla copertina arricciata per l'umidità.
Prese a leggere, tornando alla poesia che aveva lasciato a metà durante l'ora di geografia, segnata da un pezzo di pagina di quaderno come segnalibro.

«Avete un momento?»
Una voce, dietro di lei, la fece voltare.
Lasciò il libro con le pagine aperte, capovolte; poi, con un'espressione sorpresa in volto, si lasciò quasi sfuggire un sorriso.

Davanti al lei, Ezra Felix stava fermo, tra le dita una sigaretta ancora da accendere.
Teneva su un braccio la mantella, e vestiva un completo dal corpetto scuro, sotto il quale sbucava una camicia stropicciata dal colletto alla coreana.
Sembrava si fosse appena svegliato, o che non avesse dormito affatto.
Teneva stretta tra le dita una copia del libro di botanica.

«Certo.» Emeline si staccò dal bordo del portico, atterrando a terra in un suono sordo. Ezra prese dalla tasca della giacca un portasigarette d'argento, e facendolo scattare gliene offrì una.
Emeline scosse la testa.
«No, grazie» disse, senza rifletterci davvero.

Lui ritrasse la mano, prima di accendere con un fiammifero la sigaretta.
Il suo rosso acceso gli illuminò i lineamenti per qualche secondo, quando inspirò la prima boccata di fumo.
«Io e Deerwood riteniamo giusto che voi possiate esaminare i nostri esperimenti pratici» mormorò, per quando il filtro tra le labbra gli consentisse di farlo.
«Dopo il vostro invito, ci farebbe piacere ricambiare.»

Emeline sì allentò di poco la cravatta di seta.
«È gentile, da parte vostra» ammise.
Era sorpresa.
Immaginava che sarebbero svaniti esattamente come erano apparsi, intimoriti e decisi a non rivolgerle più la parola.
Invece ecco Felix, a sorridere come se lei fosse stata uno dei suoi tanti amici d'infanzia, che non vedeva da tempo e che stava invitando per un pranzo nella sua raffinata villa nelle campagne.
«Julius sarà felice di ospitarci nella sua Blackcurrant» esclamò, e all'inizio Emeline non capì; comprese dopo che stava parlando di una casa.
«Si trova nei colli di South Queensferry. Anche se può sembrarlo, non è molto lontano.»
Poi scomparve per un attimo dietro a una voluta di fumo, che andò presto a confondersi con la nebbia sopra di loro.
«Posso mandare una carrozza al vostro indirizzo. O un'auto, se preferite.»

Emeline gli scoccò un'occhiata; non aveva mai capito la vera natura della condizione sociale di Ezra, e si chiese se tutte quelle sofisticate esagerazioni che gli sfuggivano dalle labbra non fossero che una trovata di Julius; eppure aveva una sicurezza tale nel parlarne, che non seppe darsi una risposta.
«Una carrozza andrà bene.»
Calò su di loro una fitta e pungente pioggia leggera.
Le gocce, come tantissimi aghi di pino trasparenti, le si conficcavano sulle guance, ed Emeline si sporse verso il bordo del portico per riprendere la cartella.

Raccolse per ultimo i fiori del Male, ed Ezra assottigliò le labbra in un gran sorriso.
«Les Fleurs du mal» disse, con un'ottima pronuncia francese.

«Pensavo che fosse Deerwood, il poliglotto.»Emeline fece qualche passo verso la grande arcata vicino alla porta d'entrata.

Ezra rise.
«So il francese e basta. E solo perché mi hanno forzato a impararlo in collegio.»
Poi lanciò un'occhiata alle pagine aperte del volume, che Emeline teneva stese tra due dita.

«Car j'ignore où tu fuis, tu ne sais où me vais,
O tuoi que j'eusse aimée, ô toi qui le savais! ²»Recitava con naturalezza, eppure mancava della vitalità di Julius.
«A una passante. Molto bella.»

Emeline sorrise, chiudendo le pagine su cui teneva il segno.
«L'avete imparata in collegio?» chiese.

«No... no.» Lui scosse la testa, quasi imbarazzato.
«Non studiavamo Baudelaire... ovviamente

A quell'affermazione, Emeline si rese conto di quanto insensata fosse stata la sua considerazione. Eppure c'era qualcosa, nella puntigliosità di Ezra, che l'aveva pizzicata d'irritazione ugualmente.

«Julius dice che le sue poesie non lo affascinano, che c'è troppo caos e poco equilibrio, che si vede che sono furiose.
Io gli dico sempre che i carmi di Catullo o le orazioni di Cicerone non sono meno febbrili, ma lui semplicemente non mi vuole ascoltare.»
Si sciolse in un breve sorrisetto, prima di voltarsi a guardare il prato sotto di loro.

Non sapeva perché lo avesse detto, e perché proprio a lei; Emeline credette che gli fosse ingenuamente sfuggito di bocca: un pensiero pensato troppo intensamente, che a tradimento aveva trovato spazio tra le corde vocali.

Rimasero entrambi in silenzio, prima che lei dicesse: «Per che giorno avete concordato, l'invito?»

Ezra mosse la testa, emettendo un mh disinteressato.
«Oh, quando vuole. Non credo che Julius riceva altre visite.»

La campana di fine pausa scoccò tre profondi rintocchi; i gruppi iniziarono a staccarsi ai muri per avviarsi verso le grandi porte d'entrata, le pedine della dama furono rimesse impilate dentro al porta scacchiera, i gruppi si salutarono con un ultimo cenno divertito.

«Dopodomani andrà bene» disse Emeline, mettendosi in spalla la cartella.

Ezra fece qualche passo verso le scale dietro di loro.
«Perfetto, allora.» Poi spostò la sigaretta da una mano all'altra, per stringere quella di Emeline.
«Io passo di qui. Devo raggiungere l'aula di Botanica» esclamò, prima di salutarla e togliersi la mantella per usarla come ombrello improvvisato.

Emeline lo guardò andare via, e capì finalmente perché l'aveva sorpresa tanto quando le si era mostrato davanti.
Passando dalle scale dietro di lei, si era avvicinato silenzioso e cauto, con il passo felino di qualcuno indeciso fino all'ultimo della sua decisione.

Aveva passato il giovedì nel vuoto più totale, nell'attesa ripetitiva ed estremamente noiosa del venerdì: i libri quella mattina gli sembravano ancora più pesanti, le parole confuse, quasi fossero state rimischiate come dadi a formare un nuovo alfabeto.
La Buchanan leggeva Seneca, e le sue parole si confondevano nel vuoto dell'auditorium, come una strana ninna nanna latina, un carmina intonato da una madre per mettere a dormire i figli.
Non stava seguendo, ma Emeline percepiva quasi discorsi con un'attenzione velata, mentre appoggiava il mento al palmo della mano e guardava le file centrali, dove Julius stava attento, fermo e con il viso fisso sulla sua copia del De brevitatae Vitae.
Si volse solo una volta a guardare le ultime file, dove lei stava accasciata contro la finestra; ma non disse nulla.
Inclinò solo il capo per qualche secondo, quasi nella sua lingua potesse significare qualcosa, prima di tornare con gli occhi puntati al testo.

Non intervenne molto.
Accennò a qualche esempio di officia, quando la Buchanan lo interpellò.
«Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per timore del giorno» aveva detto a un certo punto, il suo tono giovane flesso di severità.
Emeline aveva staccato la testa dal palmo, irradiata per qualche secondo da quella citazione; poi tutto era tornato statico, e nella sua mente si era affacciato un pensiero nuovo: quello era il primo giovedì in cui non aveva temuto di incontrare lo sguardo di Julius, ma anzi lo aveva ricercato per tutta l'ora.
Sapeva che lui avrebbe dovuto dirle qualcosa, qualsiasi cosa per concordare il loro incontro; era a casa sua, dopotutto.
Avrebbe voluto parlare con lei, prima, almeno solo per una volta, solo per fare finta di conoscerla.

«Qual è la prima figura della galleria degli occupati?» chiese la Buchanan, incrociando le mani davanti a sé, intrecciando le dita tra loro come rampicanti d'edera.

«Augusto» Julius. «Apparentemente l'esempio massimo di felix nel conseguire tutto ciò che i negotia potevano offrire.»
Sorrise appena alla parola felix, poi schiarì la gola, e continuò.
«Eppure tutte le guerre, gli intrighi, la pesantezza della vita pubblica lo avevano reso insofferente al potere, tanto da desiderare il ritiro. Diventò quasi nauseato dalla sua carica, sentendosi intrappolato nei meccanismi del senato, e avrebbe voluto poter vivere nell'otium

La Buchanan annuì. «Esatto» disse solo. 

Emeline non aveva mai veramente compreso se Harriet ammirasse o meno Julius, ma rimaneva sempre molto neutra nei suoi confronti.
Quasi non la colpisse la sua conoscenza, o desse per scontato che dovesse averla.
Rifletté sulle parole di Duncan: i Deerwood l'avevano nel sangue, il talento per i classici.
La loro predisposizione forse era davvero una cosa scontata e dovuta.

L'orologio appeso sopra le due grandi lavagne sporche di gesso diede cinque rintocchi, che, rimbombando lungo l'auditorium, segnarono la fine della lezione.
E mentre tutti raccoglievano le penne e le boccette d'inchiostro, Emeline rimase ferma, in attesa di qualcosa.
A Julius si erano uniti tre ragazzi; parlavano a bassa voce e avevano appoggiato dei fogli sulla porzione di banco davanti a loro.
Lui sfogliava quegli appunti, segnava qualcosa con la sua stilografica, parlando molto poco, annuendo ogni tanto.
«L'ultimo pezzo è completamente sbagliato. Quintiliano non ha mai detto che un giovane dovesse studiare solo il greco. Dovrà farlo prima di studiare il latino, che assimilerà comunque. C'è differenza.»
Aveva addosso la puntigliosità di un professore, mentre sbarrava con la penna i punti sbagliati, riscrivendo a lato la correzione corretta.
Vederlo era quasi divertente, con il volto giovane e le parole precise e meticolose a scorrergli tra le labbra.

I due ragazzi lo ringraziarono.
Uno di loro guardò il suo foglio corretto, esclamando: «rimpiango ogni giorno che tu te ne sia andato dal corso.»
Julius non disse nulla; il volto basso, gli occhi puntati sui libri che stava mettendo dentro alla cartella.

Quando i due se ne furono andati, Emeline scese le scale dell'Auditorum.
Non si aspettava che Deerwood l'avrebbe fermata per parlarle, e difatti quando gli passò davanti si scambiarono solo un pallido segno di saluto.
Ma «Barclay» l'aveva richiamata, scandendo bene il suo cognome, appena l'aveva vista scomparire dietro la porta d'uscita.

Emeline si voltò, metà del viso nascosto dietro l'anta sbucciata della porta.
Julius mise la cartella in spalla, ma rimase fermo davanti al banco.
Le sue dita tamburellavano sulla superficie nodosa del legno, impazienti.
Poi d'improvviso si sporse per raccogliere un foglio abbandonato a terra, ed Emeline  si avvicinò, riconoscendo i suoi appunti di matematica. Lui li aveva guardati per qualche secondo, e nei suoi occhi era baluginata l'ombra breve di un senso di disprezzo.

«Grazie» disse Emeline.
«Per l'invito.» Specificò poi, ma Julius rimase calmo.

«Portate i vostri appunti, domani.»
Le suggerì solo, i respiri che si notavano sotto il gilet.
Poi la superò, svanendo per primo nel corridoio.

Una spettrale spirale di fumo si stendeva nel fosco del panorama, flessuosa e curva come un inconsistente punto interrogativo.
Le nubi la accolsero, quando raggiunse la punta del cielo; scomparve tra loro, divenendone parte.
Emeline la osservò a lungo, dalla sua nascita da dentro il comignolo di pietra, fino al suo dissolversi tra i rami delle betulle.
Quando fu infine svanita, distolse lo sguardo e lo puntò davanti a sé.
Sentì alle sue spalle i rumori attutiti della frusta del cocchiere, gli zoccoli dei cavalli battere dapprima piano, poi furiosamente contro il suolo.
Quei suoni s'infransero dietro di lei, lentamente, fino a lasciar spazio solo al cinguettio corale di un gruppo di tortore.

Una targa, fissata al tronco di una dei faggi che ombreggiava il viale d'accesso, recava una scritta fine ed incisa in corsivo.
Blackcurrant Manor.

Quel viale alberato scorreva quasi infinito, nella sua umidità e ombra, fino a Blackcurrant. Emeline l'aveva sentita nominare diverse volte; esclamata dalla voce sottile di Ezra prima, sussurrata distrattamente da Julius poi.
Era un classico maniero neogotico, con la facciata sottile e le finestre colorate simili a teche.
La luce filtrava loro attraverso, ma sembrava non imprimere la sua luce, quasi la sua architettura non lo permettesse.
S'innalzava in mezzo all'erba alta come un grande monastero abbandonato, le fronde delle graminacee a oscillargli intorno come in uno strano rituale di venerazione.
Il grande arco posto sopra l'entrata era annerito, quasi non si scorgevano più le decorazioni dei capitelli, eppure qualcosa nei suoi mattoni imbruniti, nel suo tetto scuro e nei suoi pinnacoli affilati come spine gli concedeva l'onore di brillare ancora di una luce che sembrava non aver mai posseduto.
Non era un edificio antico, che aveva visto secoli passare di fonte a sé; non come le aule della Vaas, come la Cattedrale.
La sua era una stanchezza diversa, una decadenza voluta, quasi quell'edificio non fosse altro che l'ennesimo dandy che andava invocando "l'arte per l'arte", camminando nel suo lungo cappotto scuro, svolazzando poesie tra le mani.
Le sembrò quasi che quella casa non avesse nulla a che fare con Julius, pensò Emeline, quanto magari più con Ezra.
Si era aspettata un tempio neoclassico, una casa aurea e marmorea, asettica e abitata da candide statue.
Quella che le si prospettava davanti era ciò di più caotico e romantico che avesse mai visto; forse non aveva potuto scegliere lui la casa, o gli arredi.
Ricordò quello che le aveva detto Duncan.
Gli era stata regalata dal padre.
Forse era quasi una punizione: un regalo derisorio, lontano dai suoi ideali.

Trovò l'entrata vuota.
Chiamò Julius, poi Ezra, senza risposta.
Le aveva aperto una cameriera che stava uscendo, le borse in mano e le guance arrossate.
La sala d'ingresso era cupa, ma non polverosa. Illuminata solo dalle luci dell'esterno -poche e fioche, quel giorno-, esisteva immersa silenzio, come sospesa in una sua personale dimensione, staccata dal tempo e dallo spazio.

Faceva freddo, per via della corrente della porta aperta, così Emeline la accompagnò allo stipite: teneva lo sguardo al soffitto, -il mento inclinato, le ombre delle ciglia sulle guance-mentre osservava il lampadario di ferro.
Era un insieme di cerchi concentrici, che si fondevano uno all'altro con delle saldature spesse e quasi rozze: non venivano notate, perché quell'immensa struttura giaceva nell'ombra, lontana dalla luce che avrebbe rischiarato le sue imperfezioni.
Immobile, gravava sulla stanza come una divinità.

«Ah, eccovi.»
I passi di Ezra si udirono da dietro le mura del salone, come la voce fuori scena di un narratore onnisciente.
Si fermò sul bordo delle due grandi scale di palissandro che dividevano la sala.
Sembrava calmo, rilassato. Felice, quasi. Teneva tra le mani un bicchiere con del ghiaccio sciolto.
«Pensavamo non vi presentaste più» disse, bevendo le ultime gocce di ciò che rimaneva in quel bicchiere.

«È stata colpa mia» ammise Emeline.
«Ho fatto attendere la carrozza. Non ero pronta.»

Ezra alzò le spalle, inarcando le labbra in un'espressione disinteressata.
Si mosse da un gradino all'altro, la mano a scorrere sul corrimano quasi senza toccarlo; inconsapevole dell' attrattiva dei suoi movimenti, scese le scale con una vaga indifferenza.
«Julius è in veranda, venite.»

Quando era arrivata davanti alla villa nemmeno se n'era accorta, ma dalla veranda si scorgeva chiaramente: Blackcurrant era contornata da una immensa collina ripida e cupa, frastagliata d'alberi dalle fronde smosse dal vento proveniente dal mare.
Incombeva sul giardino quasi stesse per cadervici sopra, in equilibrio su un unico lembo di terra.
«Ci coltivano il ribes nero» aveva detto Ezra, mentre sbriciolava tra i canini una scheggia di ghiaccio.
«È per questo che la villa si chiama così.»

Copriva la visuale del cielo, nascondendo le nuvole e gettando un'ombra densa sul prato e sulla figura di Julius: lui stava sdraiato sull'erba, contornato da fogli; le scapole curve, le dita che scorrevano da un rigo all'altro della pagina di un libro.
Al pari di un arciere prima dello scoccare della freccia stava immobile tra le margherite a sottolineare, le dita sottili e precise nello scrivere che, come quelle di un ragno, tessevano la loro ragnatela di parole.

Ezra lo richiamò dalla veranda, facendo scricchiolare il legno umido del pavimento sotto ai suoi passi.
Lui non rispose; guardava assorto davanti a sé, la penna a sfiorargli la guancia.

«Non sente mai nulla quando traduce» si giustificò Ezra, avvicinandosi e chiamandolo più forte.
Julius si voltò di scatto, alzando lo sguardo verso di lui, confuso.
Poi notò Emeline, allora si tirò in piedi con uno svogliato slancio, pulendosi i pantaloni dal verde dell'erba.
Disse qualcosa a Ezra, poi fece cadere la penna a terra. Lasciò i libri aperti, il foglio su cui scriveva volò poco lontano.

Salutò Emeline con un cenno sinceramente cordiale, prima di indicare i bicchieri sul tavolino di ottone.
«Non le hai offerto da bere?» chiese a Ezra, tra l'ironico e il severo.

«Siamo appena arrivati» si giustificò lui, mentre alzava il tappo di cristallo di una grande bottiglia piena per metà.

Emeline scosse la testa.
«No, grazie» rifiutò, quasi sorpresa della naturalezza con cui Ezra le stava porgendo un bicchiere di whisky luccicante.
Ricordava molto bene quanto loro fossero stati a disagio quando era stata lei ad invitarli.
La stessa cosa sembrava accaderle in quel momento, mentre loro apparivano splendidamente indifferenti come sempre, placidi e annoiati, per niente turbati dalla sua presenza.
Forse stavano solo ostentando, oppure era un meccanismo che accadeva in maniera naturale: quasi avessero il coltello dalla parte del manico, questa volta, sembravano essere consapevoli di avere il controllo della situazione, nella loro casa.

«Insomma» disse Julius, i capelli scarmigliati.
«Non potete rifiutare. Questo» e indicò il bicchiere che Ezra teneva tra le dita.
«Vien direttamente dalla Dalmore. È l'ottava meraviglia!»

Ezra rise; il suono delle sue risate echeggiò lungo la veranda.
«Dice così solo perché ne ha troppe bottiglie e non sa come finirle.»

Julius aprì la bocca, oltraggiato.
«Questo non è assolutamente vero.»

«Puoi contare su di me, comunque.»
Ezra bevve un sorso, poi scoccò uno sguardo a Emeline. Lei fece schioccare la lingua.
«Mi dispiace, ma credo che l'ottava meraviglia dovrà aspettare. Per quanto eccezionale, non rientra nei miei gusti bere whisky alle cinque del pomeriggio.»
Sorrise ad entrambi, ed Ezra appoggiò il suo bicchiere al tavolo.
Pensò che tutto si fosse raggelato; ciò che non voleva accadesse.
Il filo di confidenza che si era creato era ancora troppo sottile per certe cose, così Emeline sorrise di nuovo, di fronte all'imbarazzo di Julius.
«Ma sarò lieta di berlo tra un po'.»

Ezra si appoggiò al muro, sottile come un'ombra.
«Non dovete preoccuparvi, sappiamo reggere un no come risposta senza rimanere delusi. Almeno, io sì.»

Julius sbuffò una risata, che sembrò agglomerarsi in gola senza trovare via d'uscita. Si abbottonò i polsini della camicia, prima di volgersi verso Emeline.
«Ma l'obiettivo della vostra visita non è bere whisky, suppongo.»
Poi saltò il piccolo scalino che divideva la veranda dal giardino, atterrando tra uno scricchiolio e l'altro; portava stivali da equitazione che gli scorrevano fino al ginocchio, allacciati in cima in distratti fiocchi. «Il mio studio è al piano di sopra.»

Le scale scorrevano come nere anguille fino al secondo piano, contorcendosi in spirali damascate dalle decorazione spesse e opprimenti.
I tappeti che ne coprivano gli scalini era vecchi, ma puliti, seppur slabbrati.

Quando Emeline alzò gli occhi alle pareti, sentì uno strano senso di vertigine: improvvisamente decine di occhi la analizzavano, osservandola dall'altro dei loro sguardi di tempera, cupi e frammentati come gusci d'uovo.
«Tutti Deerwood» disse Julius, scoccando un'occhiata al ritratto di una donna dal vestito di velluto e lo sguardo inclinato, il sorriso distante e affilato.
«I miei mi hanno costretto ad appenderli. Molti nemmeno li conosco, comunque.»

Ezra si avvicinò.
Tolse la mano dalla tasca, e indicò Julius. 
«La prima volta che ho visitato Blackcurrant mi ha fatto credere che fossero tutti ritratti della gente che era morta qui.»
Ricordava quel momento; aveva capito che non fosse vero nell'istante in cui Julius lo aveva guardato negli occhi. Non aveva mai saputo mentire: quando lo faceva smetteva di respirare.
Quella notte non aveva dormito per via della sua stessa storia, perché non conoscendo alcuna delle persone ritratte pensava che certi quadri fossero comparsi dopo.

«E tu ci hai creduto.»
Julius si voltò, trionfante, ed Ezra scosse la testa, senza dire nulla.

Arrivarono al primo piano in quella che sembrò una giornata intera, tanto erano alti gli scalini di quelle due immense scale.
La parete del corridoio brillava della luce esterna, ricca di finestre com'era: quasi una delle larghe pareti di una chiesa gotica, riluceva come fosse un immenso scrigno mosaicato.
La polvere si vedeva appena oscillare sulle assi del pavimento, e le porte di castagno erano tutte socchiuse, in un'indecisione quasi irritante.

Julius li guidò fino alla fine del corridoio, il passo svelto e l'andatura leggera, poi si fermò di fronte all'ennesima porta socchiusa, e con un bel sorriso in volto l'aprì.
«Non fate caso alla confusione. Sto preparando l'esame di letteratura.»

Ezra si guardò intorno, poi scoppiò in un'improvvisa risata contagiosa.
Teneva una mano sul grembo, dove si incontravano i bottoni della giacca.
«Dio, non credo di sentirmi bene.»
E riprese a ridere.

Julius lo guardava, serio e offeso.
«Anche la tua stanza sarebbe in queste condizioni, se solo alla cattedrale non ti obbligassero a tenerla ordinata.»

Era una situazione critica.
Per quanto fosse evidente che c'era stato un tentativo di dare una parvenza d'ordine alla stanza, tutto sembrava ancora più terribilmente confusionario.
Fogli erano appesi a tappezzare le pareti in file sconclusionate, contornando come serpenti di carta la scrivania coperta interamente da un accumulo di libri aperti, quaderni macchiati d'inchiostro e una parata di tazze di tè ed esili bicchieri in vetro vuoti.

C'erano statuette in pietra sulle mensole della libreria, affiancate da volumi e altre infinità d'oggetti indefinibili, quasi indivisibili uno dall'altro: vecchie scatole di caramelle, fotografie dai toni seppiati, candele e boccette di profumo vuote, un busto di Cesare in cera e foglie d'alloro secche in un vaso senz'acqua.
Sul bordo della scrivania riposavano tanti pezzi di carta strappati su cui erano annotate frasi e proverbi in latino; sul pavimento giacevano dizionari e penne, matite e traduzioni scritte sulle pagine di una rivista di moda.
Tutto non era altro che un agglomerato di ciò che Julius era, eppure a una seconda occhiata si riusciva a trovare una fragile armonia in quella confusione, quasi ogni cosa stesse in un preciso e precario equilibrio.

«Hiberno pulvere, verno luto...» lesse Ezra su uno degli appunti, quando si fu ripreso dalle risate.

«Grandia farra, camille, metes ³. Sì, è un proverbio. Sono sicuro lo chiederà.»
Julius si fece spazio tra il disordine con una naturalezza disarmante, rendendo evidente quanto quello fosse il suo ambiente ottimale.

Emeline osservò le annotazioni sulla cattedra, e sentì le viscere annodarsi.
Non aveva ancora iniziato a studiare per l'esame, né sapeva che diavolo volesse dire la frase che Julius aveva snocciolato così facilmente.
«È qui che fate esperimenti?» chiese poi, incerta.
Difatti, si rese conto in quel momento che nella stanza non c'era l'ombra di un distillatore, una provetta, niente che avesse una minima parvenza scientifica.

A Julius risero gli occhi, poi stese anche le labbra in un sorriso sottile.
Scosse solo la testa, e scoccò un'occhiata a Ezra.
Entrambi, in un tacito accordo, si avviarono verso una delle pareti dell'immensa libreria che circondava la scrivania, e spinsero contro i suoi libri polverosi.
Con un cigolio sofferente la libreria si spalancò, sprofondando nel muro stesso quasi fosse preda delle sabbie mobili; i libri lasciarono spazio al buio di un brevissimo corridoio non illuminato, da cui si scorgevano le sagome indistinte di una nuova, nascosta camera, brillante della sola penombra.

Julius si voltò verso Emeline, raggiante.
«Benvenuta nell'antro della Sibilla» disse, e si tuffò nel buio.

glossario

¹ Habens cor cervi: dal cuore di cervo.

² Car j'ignore où tu fuis, tu ne sais où me vais,
O tuoi que j'eusse aimée, ô toi qui le savais!:
"Dove fuggi, non so; tu non sai dove vado.
Ma avrei potuto amarti e tu, tu lo sapevi!"
Ultimi due versi de "A una passante" di Charles Baudelaire.

³ Hiberno pulvere, verno luto, grandia farra, camille, metes: Se d'inverno ci sarà polvere e in primavera fango, molto farro, ragazzo, mieterai.
Proverbio latino di origine contadina.

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