Capitolo XI- Ad Experimentum

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Come se fosse stato tenuto in ordine da un altro, manierato Julius, il laboratorio era pulito e asettico, immobile nella sua statica quiete. Raggi di sole colavano sulla scrivania di mogano affiancata al muro, dove brillavano le provette di vetro, lucide e incandescenti di luce; vicino a loro, affiancato da un microscopio d'argento, si ergeva solenne un distillatore Soxhlet vuoto e pulito da poco.

Uno spesso tomo era abbandonato sul bordo del tavolo; il libro di chimica del terzo anno.
A tappezzarlo c'era la scrittura aguzza e pulita di Julius, curva in frasi microscopiche che contornavano il testo come la decorazione di un'illustrazione medievale.
Lui si sporse verso un ampio armadio lucidato da poco, con ancora l'odore della cera a ronzargli vicino, e l'anta cigolò appena; Julius le diede uno strattone, e quella si aprì, rivelando schiere di barattoli dai tappi cerchiati di rosso e cartellini riconoscitivi legati ai loro colli di metallo come cappi; la condensa si spandeva oltre il vetro, mostrando solo le sagome indistinte di ciò che c'era al loro interno.
Nella parte più bassa dell'armadio riposavano i solventi, e alcune provette polverose e inutilizzate.

Julius afferrò un contenitore tra le mensole più alte, rimanendo per poco sulla punta del piede sinistro.
«Germogli di erba medica» disse, facendo passare il barattolo da una mano all'altra. «Sono stati la nostra prima scelta. Ci credevamo molto, sapete, per via della loro proprietà nel rigenerare i tessuti.»

«Non siamo mai riusciti a raggruppare le molecole.» Ezra si appoggiò alla scrivania, la bocca a schiudersi annoiata in uno sbadiglio.

«Giusto.»
Come se quel barattolo avesse improvvisamente perso ogni attrattiva, Julius lo ripose malamente al suo posto.
Fissò per qualche attimo la schiera di contenitori davanti a sé, prima di esclamare: «Tutti quelli che vedete qui sono esperimenti falliti.» Evidenziò quel termine con una strana intonazione teatrale, quasi volesse mostrarsi come il personaggio di un romanzo gotico: il giovane e folle scienziato traboccante d'ambizione.

«Germogli di girasole, olio d'oliva, radice d'iris, semi d'uva...» fece Ezra.
«Cerchiamo antiossidanti ovunque.»
Indicò lo spesso telo che copriva la lavagna appesa al muro vicino alla finestra. Come se avesse colto il suo segnale, Julius lo tolse, rivelando la lavagna allo stesso modo di un quadro dal valore inestimabile.
Le scritte di gesso bianco risaltavano appena sul suo grigio sporco, ma si leggeva chiaramente di cosa trattassero: fasi acquose, estrazioni, solventi adatti.

«Ricordi quando abbiamo provato con il cacao?» Julius stava sfogliando alcune carte che teneva nel cassetto inferiore dell'armadio. Una pila di fogli storti e arricciati, scritti fitti fitti e rilegati con un semplice nastro nero; sulla prima pagina svettava un unico, breve titolo: ad experimentum ¹.

«Avete usato del cioccolato?» Emeline guardò entrambi, indecisa se fosse uno scherzo o meno.

«Ricco di antiossidanti, certo» annuì Julius. «Abbiamo finito per mangiarlo, comunque.»Poi fermò quel flusso di pagine, avendo trovato l'unica che gli interessava.
«Ecco» disse. «Questo è stato l'ultimo esperimento. Le calendule. Non siamo arrivati alla fase organica; so che una volta fatto sarebbe solo questione di separarla da quella acquosa e creare un siero, ma tutto ci blocca all'inizio.» Scoccò una triste occhiata all'estrattore.

Emeline prese tra le mani il plico, osservando la pagina che Julius puntava con l'indice.
In alto a destra era scritto barattolo tredici.

Quasi le avesse inconsapevolmente letto nel pensiero, Julius si avvicinò all'armadio, tirandone fuori un piccolo barattolo aperto nel quale giacevano steli di calendula quasi appassiti.
«Il problema sarebbe giunto anche se ci fossimo riusciti. La caledula fiorisce solo d'estate.»

«Una volta al mese.»
Sottolineò Ezra. Poi scoccò un'occhiata a Emeline, quasi volesse farle comprendere il gioco che si celava dietro la precisa scelta di quel fiore.

Julius sospirò una risatina, guardandosi intorno.
«Sì, l'abbiamo scelta anche per quello.»
In realtà non ricordava cosa fosse accaduto prima: se la sua proposta di riunirsi una volta al mese, mentre in un giorno di due anni prima lui ed Ezra stavano cenando a Blackcurrant, oppure la scoperta della storia di quel fiore. Forse era semplicemente stata una blanda azione del Fato, che, annoiato, aveva scelto di concedere loro quella piccola coincidenza.

«Qui registriamo ogni sviluppo.»
Julius indicò di nuovo i fogli, mentre Emeline ne sfogliava le pagine lentamente.
Era facile intendere quali parti fossero state scritte da chi.
I paragrafi di Julius occupavano meno righe, trattavano di chimica e avevano affianco formule e minuscoli bilanciamenti in penna rossa.
Quelli di Ezra erano di più per via della sua grafia larga e morbida, e si interessavano di botanica.
Alcune parole le erano rimaste impresse senza un motivo ben preciso, ed Emeline si trovò a ripeterle mentalmente, rigirandole tra la lingua come una caramella.
Foglie tenere ed alterne, sostanze colloidali, raccolta della seconda fase.
Era evidente che fossero appunti presi nel tempo, con dedizione, curati nei dettagli; c'era una vera attenzione in quella ricerca, e al contempo una pomposità caratteristica dei ragazzini alle prese con qualche assurdo progetto che per loro ha valore immenso. Erano impressionanti, eppure restavano in quell'armadio a prendere polvere.
L'ultimo aggiornamento risaliva a poco tempo prima, ma consisteva in un'unica, infastidita nota: nessun nuovo sviluppo.

«Dopo la calendula ci siamo fermati» esclamò Ezra, notando l'indugiare di Emeline su quella riga.

«Non abbiamo più scritto. Fino ad adesso, ovviamente.»
Julius si staccò dal muro con un colpo di reni, allungandosi a chiudere l'anta dell'armadio. «Con i gelsomini potremmo concludere il processo d'estrazione, se abbiamo fortuna e i legami non si spezzano prima, come è sempre successo.» Riprese il plico dalle braccia di Emeline, sibilando un quieto grazie.
«E poi, abbiamo la possibilità di poterli reperire tutto l'anno. Anche di inverno. Giusto?»

«Certo.» Emeline annuì.

«Splendido.» Ezra batté le mani, muovendosi verso di loro.

«Avete portato i vostri appunti?» chiese Julius, lanciando una breve occhiata alla borsa che Emeline teneva tracolla.

Lei scattò.
«Ah, certo» disse, aprendo la cartella e tirandone fuori il quaderno bianco.
«Ho un vecchio distillatore, ma con quello non sono mai riuscita a creare nessuna delle fasi. Suppongo sia per colpa degli strumenti, perché con il gelsomino in sé sarebbe di certo possibile.»
Aprì una pagina, dove aveva appuntato la relazione su un esperimento di distillazione fermato a metà. Poi si rivolse a Julius.
«Credo che con quello possiate riuscirci, comunque.»
Guardava spesso l'estrattore, il suo vetro massiccio e pallido sotto la finestra, nuovo e privo di venature.
Non aveva nemmeno idea di dove Julius avesse potuto comprarlo.

«La prossima volta dovrete portare degli steli di gelsomino. Bianco, per adesso. Quando le temperature caleranno tenteremo con il nudiflorum, sperando che reagisca in maniera simile.»
Ezra si avvicinò alla cristalleria aperta vicino alla porta, dove Julius teneva bottiglie e libri dalle copertine morsicate.

«Non toccarla» lo richiamò lui, quando Ezra sfiorò una piccola bottiglia di cristallo scuro, chiusa con un tappo d'argento.

«Scusa» mormorò lui, come se avesse capito d'un tratto il perché di quel rimprovero.

«Bene» Julius si schiarì la gola.
«Suppongo vi foste aspettata di più, ma questo è davvero tutto ciò che abbiamo. Dalle ricerche siamo giunti all'unica conclusione che le molecole si debbano ricercare solo nelle piante. Abbiamo escluso qualsiasi altro tipo di composto.»

«Credo dovreste escludere anche gli antiossidanti, come ricerca principale.»
Li aveva eliminati subito dalla lista, quando lei aveva iniziato.

Julius sembrò offeso, solo per un attimo, quando abbassò lo sguardo e le ciglia gettarono un'ombra tetra sulle sue guance chiare.
«Se il gelsomino funziona, lo faremo. Per adesso potrete comunque usufruire di questo laboratorio per le ricerche, e dei nostri appunti. Credo ci sia un collegamento che ancora ci sfugge, tra la calendula e il gelsomino.»

Ezra annuì, poi mosse lo sguardo verso la finestra.
I suoi lineamenti s'incurvano in un'espressione confusa, prima che realizzasse.
Dischiuse le labbra in una muta o, e «Dio!» esclamò. «La Haar
Indicò il vetro; dietro di lui non c'era più nemmeno l'ombra di un paesaggio, ma solo un denso bianco.
Una folta coltre di nebbia sembrava aver inghiottito le distese di ribes, la veranda, il giardino.
Si era espansa come un morbo lungo le pendici della collina, infiltrandosi tra gli alberi e la pietra della casa; dopo il suo arrivo tutto riluceva della sua patina perlacea.

«I miei libri!» fece Julius, alzandosi e aprendo la finestra.
Voltato di spalle, immobile, e in equilibrio su una pila di riviste scientifiche sembrava un'inesatta copia di un viandante sul mare di nebbia.

Ezra oltrepassò il corridoio della libreria, agitato. «Quando è successo?» mormorò.

«La Haar ² è improvvisa.» Provò a giustificarla Emeline, ma le sue parole si persero tra i passi febbrili di Julius, che come un corvo irrequieto le corse accanto nella sua giacca di tweed nero. Scomparve dietro la porta dello studio, e le sue imprecazioni si sentirono echeggiare lungo le scale.

«Dove stai andando?» gli gridò dietro Ezra, rassegnato, senza ottenere risposta.
«Se cade dai gradini della veranda e si ammazza sono affari suoi.»
Tornò nel laboratorio, emergendo dal buio come un vampiro.
«Mi dispiace davvero» disse poi a Emeline. «Julius si fa prendere facilmente dal panico, quando si tratta dei suoi libri.»

Lei guardava la finestra.
«Come farà ad arrivare la mia carrozza?» chiese solo.

Ezra si voltò di scatto, e nel suo viso comparve di nuovo quella strana espressione disorientata che Emeline aveva già visto la prima volta che si erano incontrati.
Ma quando parlò la sua voce fu calma, e dolce come una fragola matura.
«Di sicuro Julius accetterà a farvi restare qui per una notte. Questa casa ha almeno quattro camere da letto inutilizzate.»

Il salone da pranzo si stendeva oltre il secondo corridoio a destra del piano terra, spoglio e rettangolare come la navata di una chiesa.
Il lampadario, sorprendentemente, era elettrico; finte candele illuminate da lampadine di vetro ronzavano tra le intagliature del metallo come api intorno alla regina.
Sul tavolo c'erano invece due lampade ad olio d'ottone, che davano l'impressione di un'illuminazione del tutto innecessaria.
Le finestre erano bianche per via della nebbia, quasi fossero finte, coperte da carta da parati; Ezra le osservava, mentre lasciava scorrere distrattamente il cucchiaio nel suo piatto di zuppa Palestina ³.

«È una vera fortuna che Martha mi abbia lasciato del cibo per la cena.»
Martha era l'unica cameriera di Blackcurrant.
Julius sedeva composto, lievemente curvo in avanti, dando rapide occhiate ai piatti in tavola; cime di rapa, dei fichi stufati tiepidi, un piccolo porta salse pieno per metà di salsa al vino e qualche fetta secca d'oca arrosto.
Lui ed Ezra si erano prodigati nell'apparecchiare, riscaldare il cibo, cercare una bottiglia di vino commestibile tra tutte quelle intonse di scotch; avevano scovato un vecchio Cabernet che Julius aveva portato fuori dalla cantina trionfante, tenendolo per il collo come un trofeo.
Il loro doveva essere stato uno sforzo terribile, rifletté Emeline, ma sembravano abbastanza soddisfatti del lavoro.

Julius portò alle labbra il calice, bevve un lungo sorso e poi prese a tagliare l'arrosto con la precisione di un chirurgo.
«Sapete» disse, riferendosi a Emeline.
«Non amo per niente l'oca; anzi, credo sia uno degli animali dal sapore che meno preferisco.»

Ezra tornò a guardare il suo piatto, riempì il cucchiaio di zuppa e rimase indeciso sul da farsi.

«Però Martha insiste sul fatto che io debba mangiarla. Dice che sono troppo magro e mangio troppa poca carne.» Si portò una mano al volto, quasi volesse mostrare come tutto ciò non fosse vero.
Seppur la sua magrezza non gli conferisse un aspetto malato, gli donava comunque qualcosa di aguzzo, deciso, che invece era carente nei lineamenti morbidi e quasi privi di confine di Ezra.

«Io non la mangio molto spesso» intervenne lui.

«No, nemmeno io» fece Emeline.
«Preferisco la selvaggina.»

«Ah, anche io. Lepre, capriolo... molto meglio.»

«Cervo, anche.»

«Davvero?» Julius la guardò, alzando gli occhi dal piatto; abbandonò posate e tutto il resto, fermo e attento.

Lei sorrise appena, nervosa.
«Sì, anche se di solito lo mangio solo per Natale.»

Ezra sembrò essere sul punto di dire qualcosa, ma Julius lo precedette, quasi esuberante nel suo parlare vivace.
«In famiglia cacciamo cervi da generazioni»disse.
«Abbiamo una riserva. Mio padre organizza sempre cacce per i Saturnali.»

«Saturnali?» Emeline non  si rese conto dello sguardo che doveva avergli scoccato, ma dovette essere terribile nella sua confusione; Julius sembrò non farci molto caso, ma lui ed Ezra si guardarono, e risero appena.

«Le festività in onore di Saturno. Non potete capire certe cose, se non conoscete i Deerwood: ve l'assicuro.» Ezra si decise a portare alla bocca una cucchiaiata di zuppa, le labbra arcuate in un sorriso.

Julius scoppiò a ridere.
«Ezra ha ragione. Si può dire che siamo... leggermente atipici.»
Si stupì che nessuno glielo avesse mai anticipato. Nemmeno Duncan e Irving le avevano detto qualcosa? Ne rimase sollevato.

Anche Emeline sorrise, bevendo.
«Suppongo siano stati loro a tramandarvi il talento per il latino.»

Julius abbassò lo sguardo, senza arrossire; le sue guance rimasero quelle chiare di sempre. Forse il suo era solo un gesto di cortese modestia, che col tempo aveva imparato ad affinare.
«Sì, certo» disse.
«Sono loro la causa. Mio padre soprattutto, nihil melius ⁴

«È affascinante, davvero, che sia quasi un'eredità.» Decise che non le importava di cosa avevano detto quei due studenti di lettere; voleva sapere veramente chi erano, i Deerwood, e l'unico modo che aveva per giudicarli era farsi una propria opinione. Emeline si versò da bere.

«Affascinante e terribile, se vogliamo vedere entrambe le facce della moneta.»
Julius ed Ezra si scambiarono un'altra occhiata, di quel tipo comunicatore che solo gli amici intimi conoscono.

«Diciamo che non è il massimo essere cresciuti ripetendo le declinazioni a colazione.» Continuò Julius, l'ombra di un piatto sorriso tra le labbra luccicanti.

«Ci hanno provato anche con me, sapete?»
Ezra si pulì con il tovagliolo che teneva appresso, in un movimento rapido e preciso. «Da piccolo i miei genitori mi facevano passare le vacanze dai Deerwood, e ogni mattina, prima della colazione, dovevamo ripetere una declinazione. Una al giorno, esclusi il sabato e la domenica.»

«Quelli erano per le coniugazioni.»
Lo anticipò Julius, ed entrambi risero.
Anche Emeline sorrise, affetta da una nostalgia per cose che nemmeno aveva provato; si chiese come dovesse essere stato vivere tutti quei momenti insieme, collezionare una ad una quella schiera di vividi ricordi.

«Ho passato molte estati studiando con loro, ma non sono mai stato come loro.»
Ezra appoggiò un gomito al tavolo, infrangendo una delle tante regole di galateo che avevano smesso di essere in atto nel momento in cui si erano seduti a tavola.
«Per quanto volessi esserlo, non avevo quella infallibile precisione.»

«Oh, ma che importa!» esclamò d'un tratto Julius, quasi quell'affermazione gli avesse dato fastidio.
«Siamo diventati bravi perché dovevamo esserlo. Tu stavi con noi solo pochi mesi l'anno.»

Ezra annuì. «Hai ragione» acconsentì, e si rese conto che quei momenti non erano mai davvero passati; gli bastava guardare la sua forchetta d'argento con incisa una sottile e maestosa D, per tornare a quelle giornate spese tra i meli e l'erba secca.
D'inverno accompagnava il gruppo a caccia -per poi farne parte anche lui, in seguito- d'estate faceva lunghe camminate nel bosco e il bagno nel lago, mangiando albicocche e leggendo Ovidio.
Ancora ricordava vividamente quando, a febbraio di molto tempo prima, i suoi genitori l'avevano lasciato qualche settimana dai Deerwood per via di una questione in America. La mattina del quindici Julius lo aveva svegliato.
"Buon Lupercalia" gli aveva detto, raggiante nella sua camicetta inamidata e i capelli arruffati, e avevano passato il pomeriggio nella grotta della riserva.
Si erano segnati la fronte con dello sciroppo di lampone -in alternativa al più improbabile sangue di capra- e una volta asciugati con uno splendido panno di lino che Julius aveva rubato dal cassetto di sua madre, lui lo aveva guardato.
"Ora dovremmo ridere" aveva detto.
"Per diventare Luperci."

Gli piacevano tutte quelle festività, quelle cene in onore di eventi e divinità che lui nemmeno conosceva.
Gli piacevano i Deerwood e gli piaceva la loro casa: a volte aveva invidiato Julius per i suoi genitori continuamente presenti, per la sua vita così particolare e interessante.
Altre volte era stato grato di averne una più ordinaria, con i suoi genitori sfuggenti che acconsentivano a tutto.
Ma le vacanze a casa dei Deerwood erano di certo il periodo della sua infanzia che più ricordava con felicità, per quanto valesse.
Gli mancavano quei giorni, e sperò quasi che Blackcurrant in qualche modo potesse farli rivivere.

«Non credo potrei far parte della vostra famiglia, allora.»

Entrambi si voltarono a guardarla.
Emeline inclinò il volto, confusa; come se si fossero entrambi risvegliati dallo stesso sogno, Ezra e Julius tornarono presenti alla realtà, uno dopo l'altro.

«Perché dite questo?» chiese Julius, appoggiando il mento al palmo della mano, quasi stesse per ascoltare una fiaba.

Emeline sbuffò una risata.
«Temo di non essere portata per il latino.»

«Oh, questo non è possibile.»

«Lo avete osservato voi stesso!»
Emeline gli scoccò un'occhiata severa, e in Julius sembrò essere tornato, solo per un attimo, il timore che un tempo aveva assunto nei suoi confronti.

«Non potete non essere portata. Non lo avete studiato come si dovrebbe, semmai.»

Si sentì quasi offesa, ma capì il suo punto di vista; e forse non era nemmeno completamente sbagliato, a sua discolpa.
«Di certo non l'ho fatto prima di venire alla Vaas.»

«Ecco, vedete? Partite già con meno pratica rispetto agli altri. Perché non l'avevate mai studiato, prima?»

«Mio padre non lo reputava importante. Ha preferito farmi studiare il francese e l'italiano.»

«L'italiano l'ho studiato anch'io, -lingua terribilmente difficile-, ma il francese! Pensavo che l'unico a Edimburgo ad aver studiato il francese fosse lui.» E indicò Ezra.
«Suo padre lo ha mandato in un collegio dove studiavano il francese al posto del latino!»

Ezra finì di deglutire, mentre puntava l'altro con un dito.
«E allora? Il francese è la lingua della poesia.»

«Che cosa?» Julius rimase a bocca aperta; rise, incredulo.

«Va bene, credo sia tutto iniziato da me.»Emeline alzò le mani, in un discreto segno di resa.
«Non so voi, Ezra, ma io mi pento di aver studiato il francese al posto del latino. Ora come ora, se l'avessi fatto, non mi troverei a disperarmi per il prossimo esame.»

Julius sgranò gli occhi. «Seneca!» esclamò, sporgendosi verso la tavola.
«Speravo mettesse anche Catullo, visto che ha scelto di farlo dopo. E invece è solo Seneca.»Sembrò profondamente dispiaciuto.

Emeline inarcò il sopracciglio, perplessa.
«Se devo essere sincera, l'aggiunta di Catullo sarebbe stata una tragedia.»

Ezra scoppiò a ridere.
«Non fate caso a Julius; per quanto ama Catullo, sarebbe capace di citarlo comunque anche parlando di Seneca.»

Lui alzò gli occhi al cielo, pronunciando velocemente uno strascico di carme, di cui Emeline non ricordava che poche parole.

«Certo, Julius» disse Ezra, scuotendo la testa. Poi si rivolse a Emeline.
«Io ho il vostro stesso problema, con il latino: amo la letteratura, ma sono carente in grammatica.»

Avrebbe voluto dirgli che lei era carente nel latino in generale, ma si trattenne all'ultimo, temendo di risultare fuori luogo.

«Per l'esame posso aiutarvi.»
Julius si alzò, pulendo i pantaloni dalle briciole.
«Seneca non è assolutamente complicato, se lo si capisce.»

Se c'era qualcosa che tutta la Vaas desiderava era poter essere aiutata da Julius; tesine, esami, semplici versioni: Emeline era stata a osservare, e aveva compreso molto presto le dinamiche che intercorrevano tra lui e gli studenti che a ogni cambio dell'ora gli si avvicinavano, come mendicanti di traduzioni. La maggior parte delle volte il suo aiuto era incondizionato, e allontanava tutti gli infiniti ringraziamenti quasi fossero insetti fastidiosi. Gli unici che sembravano esenti da quell'umiltà erano gli studenti di fisica e matematica; Emeline li aveva visti tirare fuori dalle tasche delle sterline, mentre Julius passava loro le tesine corrette con un ampio sorriso tra le labbra.

Julius scomparve verso la cucina, e la sua voce si sentì attutita da oltre la parete.
«Sempre se volete.»

Pensò agli studenti di lettere che avevano saltato lezione per parlargli, quelli del dipartimento di matematica con i soldi in mano, le facce torve. «Ve ne sarei grata.»

Si udì un rumore di vetro, e i lineamenti di Ezra si contrassero appena, solo per un attimo.

Rimasero entrambi in silenzio, prima che il rumore si sentisse di nuovo.
A quel punto Ezra si alzò.
Scusate, disse, e scomparve anche lui dietro il muro coperto di carta da parati.

«Che cos'è?»
Sapeva già la risposta, ma Julius scosse le spalle.

«È per me, tranquillo.» Teneva tra le mani una piccola bottiglia dal vetro damascato.
Al suo interno brillava un liquido d'un verde talmente vivo da essere quasi impossibile.

«Pensavo non fosse ancora pronto.»

Julius sorrise, inclinando di poco il capo.
Non disse nulla, ma prese un bicchiere di cristallo intagliato, e vi depose sopra un cucchiaino simile a quelli da tè; di un argento sottilissimo, forato al centro.

«Ne vuoi?» chiese, mentre apriva una mensola della dispensa, in cerca di qualcosa.
Mormorò qualcosa tra sé e sé, e afferrò una zuccheriera di porcellana.
Prese tra le dita due zollette di zucchero; la prima la mise in bocca, sgretolandola tra i denti.
L'altra l'appoggiò con delicatezza sul cucchiaio.

«Allora?» chiese di nuovo, davanti al silenzio di Ezra.

«Ne bevo un po' dal tuo.»

Julius stappò la bottiglia, e quel liquido prese a colare, sottile e lento; si espanse lungo la zolletta, scorrendole attraverso e infine gocciolando sul fondo del bicchiere sotto forma di piccole gocce di un bel verde opaco, simile a quello della giada.

«Diluiscilo con l'acqua» gli ordinò Ezra, e lui annuì, mormorando un annoiato mh-hm.

«Cosa ne pensi?» chiese poi, mentre stava chino sul bicchiere.

«Di cosa?»

«Di lei, Ezra.»

«Niente di particolare. Sembra meno terrorizzante di quanto credevi tu.»

Lui rimase serio, l'ombra della sua giacca a scurire il legno del tavolo.
«Mi piace» disse solo.
«Hai capito in quale senso, ovviamente.»

Ezra annuì, spostando il peso da un piede all'altro.
Fece per dire qualcosa, quando le parole gli morirono in gola.

Emeline stava sulla soglia, immobile, la mano appoggiata allo stipite della porta.

Julius alzò la testa di scatto, colpendo l'anta della mensola; Ezra indietreggiò appena.

«Assenzio» disse lei, e scoppiò a ridere, vedendo le loro facce.
«Lo vorrei abbastanza diluito, se è possibile.»

glossario

¹ Ad Experimentum: in via sperimentale.

² Nebbia fredda e improvvisa proveniente dal mare, comune in tutta la Scozia orientale.

³ Tipica zuppa di età edoardiana, il cui nome deriva dal suo ingrediente principale, ovvero i carciofi di Gerusalemme. 

Nihil melius: niente di meglio.

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