Capitolo XII- Tres faciunt collegium

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«Sarebbe questa la tua casa?»

«Sì, ti dico!»

«Chi è dunque il tuo padrone?»

«Anfitrione, quello che comanda l'esercito tebano, che ha per moglie Alcmena!»

Tre bicchieri vuoti stavano allineati sul bordo del pianoforte.
Opachi, umidi del liquido che prima li aveva riempiti diverse volte, riflettevano la luce della luna che sbocciava oltre le tende.

La biblioteca era uno spazio più ampio di quanto in realtà non sembrasse: le schiere di libri, le mensole di cedro scuro, gli alti soffitti a cassettoni e le tende di spesso velluto damascato sembravano infatti conferirle un'aria oppressiva, quasi soffocante, che pareva svilupparsi più in altezza che in larghezza, laddove il soffitto spariva nel buio e sembrava essere infinito.
Fuori la nebbia era diventata grigia, assottigliata e simile alla spessa scia del fumo di una pipa; il cielo notturno, dietro di lei, si notava appena, latteo e distante.
La stanza era illuminata da una variegata schiera di lampade dai cappelli rifiniti in merletto, e il lampadario di cristallo si specchiava come un Narciso lungo la superfice scura e limpida del piano.

Julius sfogliò la pagina del libro che teneva sul polso.
«Cosa dici? Qual è il tuo nome?»

Ezra si versò nuovamente da bere, portò il bicchiere alle labbra, ma non bevve, prima di aver esclamato:
«I tebani mi chiamano Sosia.»

Julius oscillò verso di lui di qualche passo, vagando per la sala.
Teneva le spalle dritte, il volto inclinato, si muoveva come un animale curioso; avanzava con un passo quasi saltellato, come se stesse cercando bacche tra gli arbusti.
«Certo oggi sei venuto qui per tua sventura, cima di sfrontatezza, con questa trama di menzogne intessuta di trucchi!»

Alla faccia offesa di Ezra, Emeline rise: seduta sul bordo della poltrona, osservava la scena con i gomiti appoggiati alle ginocchia, i palmi delle mani a reggere il mento e una insensata felicità tra le labbra.

«Ma io, veramente, vengo solo con la tunica intessuta, non con le menzogne!»
Ezra indicò la sua camicia, pizzicandone un bottone; nuove pieghe si crearono lungo la sua stoffa bianca.

«E continui a mentire!» esclamò Julius, con uno sdegno esagerato.
Poi si fermò, la rabbia scenica che gli scivolava dal volto con la rapidità di una pioggia a scorrere lungo le tegole di un tetto.
I suoi lineamenti si distesero in un'espressione confusa.
Sentiva la testa girare, allora chiuse per poco gli occhi.
«No, scusate, credo di aver perso la riga.»

Altre risate. Emeline gettò il capo contro la testata della poltrona, una mano sul grembo.
Ezra scoppiò in una risata sguaiata, contagiosa. «E continui a mentire!» gridò, nel mimare Julius. «Ah, scusatemi, credo di essermi perso.»

Lui cercò di recuperare la lettura, ma il riecheggiare delle risate di Ezra nelle orecchie gli fece abbandonare ben presto il libro.
«Al Diavolo» disse, spezzando le lettere con una risata singhiozzata.
Chiuse la sua copia dell'Anfitrione e la usò per colpire l'altro sulla schiena.

Lui sibilò un Ahia! sorpreso, voltandosi a spalle ricurve, premendosi la colonna vertebrale con le dita.
«Hai rovinato la rappresentazione» dichiarò Julius, colmo di un'irritazione fiera.
«Le avresti prese comunque tra poco. Mercurio picchia Sosia, dopo.»

Emeline battè le mani.
«Uno spettacolo d'alto livello, lo ammetto» esclamò, divertita, con gli occhi che le brillavano di un'attutita euforia.
Si lasciò riempire il bicchiere da Julius.

«Plauto non è il miglior arbiter elegantiarum ¹, ma è perfetto per quando si sente il bisogno di ridere per cose stupide.»
Lui si portò alle labbra la bottiglia quasi finita, bevendone un lungo sorso; con il suo colore acceso da miracoloso elisir, l'assenzio brillò oltre il vetro.

«Ma cosa importa! Vedi, il problema è che tu ti lasci sempre trasportare dai significati che ci sono dietro a una commedia. A volte è più semplice riderne e basta. Raffinate o meno che siano.» Ezra finì la bottiglia.
Incrociò le gambe mentre scendeva ad appoggiarla sul pavimento, poi tolse il suo bicchiere dal bordo del piano.

«Non ci vorrai suonare di nuovo qualcosa, spero.»
Julius inarcò il sopracciglio, fermo e annoiato in mezzo alla sala.

«Io gradirei un notturno.»
Emeline li guardò entrambi: Ezra che si sedeva e sfiorava i tasti con i polpastrelli, già pronto a iniziare; Julius che, scomposto, si appoggiava al pianoforte con i gomiti, rassegnato.

«Potresti portare il violino» propose Ezra, mentre componeva le prime, attutite note.

«Devo accordarlo. L'ultima volta che ho provato l'Estate si è spezzata la corda del mi.»

«Non sapevo suonaste il violino.»
Emeline si alzò, le braccia incrociate e il passo misurato.
Si avvicinò al piano e stette a osservare.
Ezra le lanciò qualche occhiata, quasi temesse che stesse giudicando le sue abilità musicali.

«Non sono per niente bravo.» Julius si passò una mano sulla guancia, quasi volesse raffreddarla con il tocco del suo palmo freddo.

«Non è vero, ovviamente.»
Ezra premette un do minore troppo pesantemente, ma il suono che ne derivò fu comunque armonico.

«È così. Ancora non so come si possa solo pensare di riuscire a suonare fino alla fine una stagione di Vivaldi.»
Gettò il volto all'indietro, mostrando il collo: una sottile catenina d'oro gli scorreva sulla pelle, fino a nascondersi dietro alla stoffa della camicia.
Emeline osservò quel filo dorato smuoversi sotto il peso dei respiri.

«Vivaldi è oggettivamente difficile, Julius.
Non si può essere bravi in qualcosa senza la pratica.»

«Lo so bene» obiettò lui, mentre con lo sguardo vagava lungo la tastiera del pianoforte, i suoi tasti muoversi come fiori meccanici mossi da un vento invisibile.
Con un gesto istintivo prese il bicchiere, e rimase deluso nel trovarlo vuoto.
«Vado in cantina» mormorò.
«Ezra, mi accompagni?»

L'altro rise.
«Hai paura di trovarci il fantasma di tuo nonno?»

«Va all'Inferno» sibilò lui, poco convinto.

«Julius crede che in questa casa ci siano dei fantasmi.» Ezra si voltò verso Emeline, perdendo così una nota.

«Come in tutta la Scozia» sottolineò lei.

Julius scosse la testa.
«Non è per i fantasmi» teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, e compiva cerchi sconclusionati intorno a Ezra.
«Ascolta, è perché è buio e credo di essere discretamente ubriaco.»
Sistemò i capelli che gli erano caduti davanti agli occhi; ciocche impigliate nelle ciglia, che un attimo dopo furono di nuovo al loro posto. «Lo sai che perdo il senso dell'orientamento.»

Ezra smise di suonare, dando una brusca fine al notturno.
«Va bene» acconsentì, leggermente infastidito. «Ma prendiamo scotch, questa volta.»

Lui alzò le spalle, non prestandogli molta attenzione.
Lanciò una fugace occhiata al quadro di una donna a cavallo che teneva sopra la cornice di marmo del caminetto spento; sulla mensola riposavano libri e dei peculiari manufatti d'argento intagliato.

«Emeline, volete venire anche voi?»
Ezra stava indossando il cappotto, chiudendolo in vita con solo due bottoni.

Lei scosse la testa.
«No, posso rimanere qui.»
Si sedette sulla chaise longue che aveva occupato Julius poco tempo prima; i cuscini avevano un profumo profondo e riconoscibile, lo stesso che aveva tutta la casa e il proprietario stesso: un odore legnoso e ambrato, caldo e opprimente come il sapore del miele dopo qualche cucchiaiata.

Scomparvero dietro la porta d'ingresso dopo qualche attimo, ed Emeline si trovò da sola nella biblioteca.
Sentì per la prima volta il tintinnare placido della piaggia, ora che non c'era più nessuna voce a sovrastarlo; guardò fuori e sperò che solo per un attimo, solo per qualche minuto smettesse di piovere.
Che ci fosse un silenzio assoluto e che potesse finalmente osservare come appariva quella stanza nella quiete più totale.

Sentiva il fondo della testa pesarle, ma non come si sarebbe aspettata; quella casa attutiva qualsiasi cosa, anche i pensieri, anche i fastidi. Emeline si chiese dove andasse, tutto l'ammasso di cose che Blackcurrant sembrava assorbire: forse si rifugiava nel terriccio argilloso che scorreva sotto alle sue fondamenta, recintato dallo spesso pavimento di scure assi.

Dopo un numero indefinito di minuti, si sedette al piano; non c'erano spartiti, e infatti aveva visto Ezra incespicare a volte mentre suonava, cercando di ricordare tutto il brano del momento a memoria.
Lei non suonava con spartito da tempo; un'eccentrica forma di competizione con se stessa, che in quel momento le fu d'aiuto, per quanto poteva valere.

Prese a suonare un semplice valzer di Chopin in maniera eccessivamente allegra; dopo qualche nota rallentò, lasciando sfumare il ritmo in una melodia più cadenzata.
Davanti a lei si stendeva nella penombra il grande tavolo di mogano su cui Julius scriveva nelle ore di luce.
Sulla sua superficie giacevano meno cose di quante Emeline si sarebbe aspettata, e nell'insieme c'era un certo equilibrato ordine; un cesto di frutta stava al centro, abbondante di melograni e mele.
Vicino a lui si accatastavano, una vicina all'altra, delle lettere: i loro bordi sembravano più affilati nel buio, quasi fossero in grado addirittura di poter ferire. Vicino a loro una penna e un calamaio che era stato lasciato aperto.

Emeline si alzò, in maniera impulsiva, pensando a tutto l'inchiostro che si sarebbe sprecato se non si fosse premurata di chiudere quella boccetta: in qualche modo sapeva che Julius ci sarebbe rimasto male oltremisura, e immaginarselo così, in fondo, le suscitava un senso di vago dispiacere.

Raggiunse il tavolo, e a pochi metri da quello inciampò nella piega del tappeto.
«Cristo!» sibilò, spaventandosi più del dovuto. Si ristabilì appoggiandosi al bordo del tavolo, e solo allora si rese conto di trovarsi davanti a una serie di lettere non spedite.
Chiuse la boccetta, continuando a guardare nella loro direzione, quando sentì delle voci allegre provenire dal corridoio.

«Bibe si bibis! ²» Julius teneva una bottiglia per il collo, i capelli arricciati dall'umidità dell'esterno e un gran sorriso tra le labbra.

Ezra, dietro di lui, stava già bevendo da una bottiglia di spesso vetro patinata di un sottile filo di polvere.
«Emeline, prendete il vostro bicchiere» disse, mentre si stendeva sulla chaise longue.

Julius non si era ancora voltato a guardarla, ma quando lo fece qualcosa sul suo volto si incrinò; impercettibile, come una lieve venatura in un intero vetro intatto.
«Ah, mi dispiace per il disordine.» Si avvicinò al tavolo.
«Non credevo che vi sareste fermati qui a Blackcurrant» disse, riferendosi a lei ed Ezra. «Devo togliere tutte queste lettere. Dovevo inviarle alla Vaas per una questione legata al corso di matematica, ma sono solo bozze.»Riprese fiato, inspirando attraverso il corpetto quasi con fatica.
Poi alzò le sopracciglia in una non ben specificata espressione, e andò a prendere il suo bicchiere.

«Voglio fare un brindisi» disse.
Emeline gli scoccò un'occhiata.
Era sicuramente più ubriaco di prima, anche se nei suoi occhi brillava ancora quello scaltro bagliore nero da corvo.

«Spero il primo di tanti» esclamò, ed Ezra batté le mani in qualche applauso.

Julius passò con la bottiglia di scotch, riempiendo a tutti il bicchiere fino all'orlo.
Poi riprese il suo, e alzando il braccio in segno di brindisi continuò.
«A questa nuova alleanza. Tres faciunt collegium ³: bastano tre persone per fondare una società, ricordatevelo. E qui nasce la nostra, tra noi tre; siamo esattamente il numero perfetto per crearla.» Scoccò un'occhiata ad entrambi; poi l'arco di un nuovo, accattivante sorriso si fece spazio sul suo viso pallido.
«Prosit!» esclamò infine.

«Prosit.» Ezra lo guardò, divertito e complice.

«Prosit» disse Emeline, mentre il suo bicchiere scontrava con quello di Julius e lei sentiva una strana sensazione alla bocca dello stomaco: sorpresa, forse.
Forse addirittura emozione.
Era adrenalina, quella che le faceva desiderare di non lasciare per tutta la vita quel momento, di riviverlo all'infinito?

Probabilmente era ubriaca anche lei, o lo sarebbe diventata presto.
Eppure dopo quel brindisi l'atmosfera era diventata più vivida, più reale, quasi i colori avessero assunto toni più caldi e profondi, quasi quell'istante avesse assunto improvvisamente la qualità di un ricordo; e c'era una strana familiarità in tutto ciò.
Come se fosse una scena che si era già ripetuta molte volte, o che l'avrebbe fatto in futuro. Come se quel bicchiere avesse scontrato le sue labbra in diverse altre occasioni, la nebbia si fosse alzata già in tempi passati e tutta quella serata si fosse già compiuta senza che loro ne avessero memoria.

«Emeline» Julius la chiamò d'improvviso, stringendo le dita sul suo braccio; sembrava aver ricordato qualcosa di incredibile importanza.
«Non ti ho spiegato Seneca!»

glossario

¹Arbiter Elegantiarum: Arbitro di raffinatezza, locuzione che Tacito riferisce a Petronio, utilizzata per chi è modello di eleganza.

²Bibe si bibis!: se bevi, bevi subito!

³Tres faciunt collegium: tre fanno un collegio. Formula che sta a indicare come si possa fare una lezione scolastica o fondare una società solo con la presenza di un minimo di tre persone.

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