Capitolo XIV- Vitae Necisque

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La aspettava fuori dall'aula, attaccato al muro, a scaldarsi contro la stufa.
Le prime ore del lunedì erano le più terribili, sia per le materie che per il freddo mattutino pungente e fastidioso che ammantava le aule, che toglieva la fame e metteva una strana nausea addosso.
Julius stringeva tra le mani il bordo della stufa calda, gli occhi socchiusi e la borsa lasciata a terra; era visibile il lieve battito dei suoi denti.

«Non capirò mai perché ti ostini a vestirti leggero, anche di lunedì. Lo sai che accendono i riscaldamenti dopo.»
Emeline gli si affiancò, avvolgendogli la sua sciarpa due volte intorno al collo, dove regnava la pelle d'oca.

«Non voglio ancora dire addio all'estate» fu la risposta di lui, mentre si voltava verso l'aula di matematica.
«Questo esame non lo passo, me lo sento.»

«Non dire così» Emeline, mite, si accomodò contro il bollore della stufa.

«No, seriamente.» Lui scosse la testa, guardando assorto verso gli altri studenti che uscivano dall'aula; tenevano tra le mani fogli sparsi colmi di formule e dimostrazioni che lo fecero inconsciamente deglutire.
«Non riesco a stare al passo. Non capisco.»

«Non vuoi capire.» Emeline gli scoccò uno sguardo compiaciuto, sapendo di aver centrato il bersaglio.

Lui inclinò la testa, buttando fuori il respiro. «In parte è anche quello» ammise.
«Ma c'è qualcosa che non riesco comunque a comprendere. Qualcosa che mi sfugge e che mi impedisce di... di ragionare

«Proporrei di pensare a latino, adesso.»Emeline lo guardò con un'aria gravosa e preoccupata. Il freddo non aiutava la sua ansia, e la faceva fremere ancora di più d'angoscia.

Era passata una settimana da quel loro incontro alla Capitolium, di cui non c'era stata una seconda parte: Julius si era accorto di essere troppo impegnato con gli esami di fisica e matematica -a cui era toccato ad Emeline dargli una mano- e non c'era più stato spazio per Seneca.

«Alle tre?» chiese lui, riferendosi all'orario di inizio esame.

Lei annuì.

Rimasero in silenzio.
Alla prima ora, durante la lezione di Reid sulla relazione tra evoluzione e creazione -"il mio approccio al corso è mal visto da alcuni, per aver inserito al suo interno scoperte così recenti", aveva detto- Julius si era seduto tra le ultime file, in compagnia di un altro ragazzo che sembrava conoscere.
Era stato lui ad avvicinarlo, e Julius sembrava essersi limitato a rispondere alle domande che l'altro gli poneva; con il mento tra il palmo della mano, annuiva e distante fissava un punto della cattedra.
Aveva preso pochi appunti -lui faceva sempre così, poi si trovava a chiedere a Ezra i suoi dell'anno prima- e una volta terminata lezione aveva aspettato Emeline dentro all'aula.

«Quello è inglese. Lo conosco dal primo anno. Abbiamo stretto un'amicizia banale i primi tempi e non ci siamo più rivisti.»
Aveva spiegato, con la parlantina veloce e disinteressata, quasi volesse farle sapere subito e precisamente quale fosse stata l'intenzione di quella conversazione.

«Guarda.» Julius staccò le dita dalla stufa, indicando un gruppo di studenti che stava uscendo dal cancello della Vaas.
Tra di loro c'era Ezra, con i suoi capelli chiari mossi dal vento e la mantella che gli si gonfiava alle spalle.
Camminava all'indietro, mentre parlava e rideva con altri due studenti.
Sembravano tutti in un completo stato di euforia, tra chi saltava per toccare le punte che decoravano il cancello e chi rimaneva indietro, per salutare le persone alle finestre.

«Il corso di Botanica ha organizzato una visita al Giardino Reale» la informò Julius, mentre spalancava la finestra e alzava un braccio in segno di saluto.
«Ha detto che doveva parlarci, dopo. Per... per il giorno delle Calende.»
Lo aveva fermato, quella mattina, quando stava per varcare la porta dell'aula di biologia. Sembrava volesse dirgli tutto in quel momento, ma si era ritirato all'ultimo, disorientato dal suono delle campane proveniente dalla Cattedrale.
Se n'era andato, e per tutto il giorno non l'aveva più visto.

Ezra, dal cortile, gli urlò:
«In bocca al lupo con Seneca!»

«Vai all'Inferno!» gli gridò lui in tutta risposta, mentre l'altro lo salutava e voltato verso la nebbia delle colline d'uva spina sembrava quasi scomparirne all'interno.

In tarda mattinata il freddo aveva allentato la sua morsa, e un insolito sole era sbucato da dietro la Cattedrale, illuminando il cortile coi suoi raggi densi, del colore dell'oro fuso.

Julius si era rifiutato di mangiare; il cesto da picnic che si era portato giaceva sull'erba, sigillato dal suo fiocco a quadretti.
Camminava in cerchi sconclusionati, il libro appoggiato al dorso del braccio, mentre ripeteva sotto voce stralci di frasi latine.

Emeline leggeva in silenzio, cercando di memorizzare quel poco che ricordava del De Clementia, e che si era dovuta ingegnare a ripassare da sola.
In quel momento le parole le sfumavano davanti agli occhi, e si mischiavano a quelle diverse di Julius, che come un'ape le ronzava attorno, la sua voce lontana e poi vicina, poi lontana di nuovo.

Si erano stanziati nel cortile interno della Vaas, avendo trovato quello esterno saturo e confusionario all'estremo.
Il cortile interno, rinominato il chiostro, consisteva in un piccolo porticato ombroso e quadrato, simile a quello di un convento; le colonne del portico erano fredde e umide, il pavimento era tappezzato da tasselli di marmo che sembravano essere tombe di scienziati e intellettuali che avevano scelto di farsi seppellire proprio alla Vaas: Emeline si chiedeva spesso il perché.
Se quel giorno fosse improvvisamente morta, avrebbe pregato di farsi seppellire ovunque, al di fuori dell'Università.
E se così non fosse stato, era certa che il suo fantasma avrebbe vagato in pieno stato di tormento in quel posto, per l'eternità; invece loro avevano scelto proprio la Vaas, e quella
decisione suonava più come una condanna eterna che come un desiderio.

L'unico luogo in cui i raggi del sole arrivavano, e persistenti battevano con il loro bollore, era il centro del cortile.
Uno spiazzo d'erba e di margherite, un prato bianco e romantico in cui Julius si era subito sdraiato, placido tra gli steli dei fiori.
Emeline sedeva sul bordo del porticato, illuminata solo per metà; quella porzione di viso stava iniziando a bruciarle.

Julius le si fermò davanti.
«In questo genere di vita ti aspettano molte nobili dottrine, amore e uso delle virtù, oblio dei desideri, scienza del vivere e morire, alta quiete in ogni cosa.»
La guardò, come a chiedere conferma, ma lei si limitò a sbattere le ciglia.

«È giusto, no?»

«Non ne ho la più pallida idea.»

«Dio, mi fai venire il dubbio!» esclamò lui, prendendo a sfogliare febbrilmente il libro: sembrava rasentare il panico.
Un'ora prima era calmo, rilassato, con il suo solito fare annoiato e sornione.
Aveva aspettato fino all'ultimo a ripassare; solo in quel momento pareva essersi reso conto di quanto l'esame fosse orribilmente vicino, e quella critica che aveva mosso nei confronti di Emeline era più probabile la stesse rivolgendo a se stesso.

«De Clementia» annunciò.
«Come siamo messi su quello?»

Emeline credette di ridergli in faccia, ma: «dimmi tutto quello che sai a proposito, ti prego» disse solo.

Allora lui prese a parlarle del contenuto, della forma, della parafrasi; la sua narrazione era sciolta, lineare, ma la voce era flessa da un tremolio, da un'agitazione viscerale che gli impediva di stare fermo.
Era tutto diverso dalla naturalezza con cui compiva interventi, con cui rispondeva quando interpellato.

«Hai capito?» le chiese, a spiegazione terminata.
Lei annuì. Julius era in grado di spiegare anche le cose più complesse con una limpidezza disarmante, ma sapeva che non sarebbe bastato: di fronte al testo originale, era certa non avrebbe saputo ricomporre nessuno pensiero.

«Quanto manca?» chiese allora Julius, ma la sua voce venne sovrastata da un'altra, più lontana e roca della sua.

«Stanno entrando tutti in corridoio» disse un ragazzo, lo stesso con cui aveva parlato a Biologia.

Emeline gli scoccò uno sguardo, Julius la guardò di rimando, poi chiuse gli occhi.
«Giove Onnipotente, appoggia le nostre imprese» mormorò, prima di varcare la soglia della Vaas.

I banchi erano stati disposti lungo il corridoio vuoto, in due file distanti tra loro, ordinati e lucidi.

«Prendete posto, grazie.»
L'esaminatore, un uomo placido e dal panciotto di tartan, si sedette dietro alla cattedra.

Julius lasciò cadere la cartella sul banco; puntava lo sguardo a terra, e sembrava essere concentrato su qualcosa di invisibile.
Tenne i polpastrelli a sfiorare la superficie della borsa per qualche secondo, assorto, prima di decidersi del tutto a sedersi.
Emeline si avvicinò al posto vicino.

«Scusate» disse un ragazzo, che la sorpassò e occupò il banco a fianco a quello di Julius, dicendogli qualcosa.
Lui gli rispose con un cenno del capo.

Emeline abbandonò le braccia lungo i fianchi, infastidita. Scoccò un'occhiata a Julius, e lui di rimando le rispedì indietro uno sguardo brillante e indefinito, che non seppe decifrare.
Una delle sue possibilità, quella su cui contava forse di più, le era svanita beffarda sotto gli occhi.

Si sedette nelle ultime file. Gli spifferi delle finestre le si insinuavano lungo la pelle della schiena, facendola rabbrividire; quando i fogli d'esame furono consegnati, non seppe più distinguere se quel tremore fosse dovuto al freddo o alla paura: sentì il cuore fermarsi per un attimo, appena realizzò il brano assegnato.

Proemio: ho cominciato a scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per svolgere la funzione di specchio e per mostrare te a te stesso destinato a raggiungere il potere più grande di tutti.

Vide Julius alzare gli occhi dal foglio, fermarsi a pensare, poi inclinare di tre quarti il viso nella sua direzione.
Il suo profilo era oscurato dalla penombra, ma quel gesto lasciava ben intendere la sua consapevolezza.

Emeline ricordava chiaramente quando lui l'aveva incoraggiata a ripassare ancora gli altri trattati, piuttosto che il De Clementia.
Le aveva suggerito di lasciarlo per ultimo, perché comunque "lo aveva già studiato".
In quel momento, volto verso di lei e nascosto dall'ombra, sembrava chiedere conferma.
Lo hai già studiato, vero?

L'esaminatore fece scattare il cronometro che teneva in tasca, appoggiandolo davanti a sé sulla cattedra. «Avete due ore.»

La prima passò troppo rapida.
Emeline si era fermata a contemplare un deponente che non era riuscita a tradurre, seguito, come uno scherzo del destino, da un nome del predicato che non trovava nel dizionario.
Vicino a lei un ragazzo stava chino sul foglio, senza scrivere nulla.
Ogni tanto lo sentiva sibilare qualcosa verso  l'altra parte dell'aula; cercava di parlare con Julius, ma lui non si era voltato nemmeno una volta.
L'esaminatore leggeva il giornale, distratto, sbuffando di tanto in tanto.
Il compagno di banco di Julius stava guardando tutto ciò che lui scriveva.

Emeline credette di impazzire.
Nulla le pareva avere senso nel testo che aveva davanti, e la stilografica stava formando un solco d'inchiostro sulla carta; una voragine, scura e infinita, in cui si perse per una manciata indefinita di minuti.
Gettò nuovamente lo sguardo su dove si era fermata, e ciò che vide le fece salire un terribile senso di nausea.

Ego vitae necisque gentibus arbitrer; qualem quisque sortem statumque habeat, in mea manu positum est ¹.

Dopo mezz'ora a fissare il foglio si era decisa a tentare di tradurre sul momento, senza vocabolario, ciò che ricordava.
Era una tragedia.
Era infattibile, anche se cercava di ricordare con tutte le sue forze ciò che Julius le aveva ripetuto a memoria, qualche ora prima.
Aveva recitato proprio il proemio, e in quel momento lei si era illusa di averlo capito alla perfezione.

Julius scriveva, tranquillo, prendendosi addirittura delle pause quando la mano gli doleva troppo.
Il ragazzo vicino a lei continuava a chiamarlo, insistente, ed Emeline staccò per un attimo gli occhi dal foglio per assistere alla scena: era uno di quelli che gli ronzavano sempre intorno, a chiedere traduzioni e ripetizioni.
Julius aveva preso a lanciargli qualche occhiata. Più che a lui, al suo banco.
Guardava quello, poi osservava Emeline, quasi stesse calcolando qualcosa di nascosto dietro i suoi occhi da corvo.

«Deerwood!» lo chiamò un'ultima volta lo studente, prima che Julius si schiarisse la voce e: «professore, scusate» esclamasse, serio e annoiato.
«Credo che McFlanaghan desideri il mio parere sul testo.»

Lui sbarrò gli occhi. «Figlio di puttana!» sibilò, stringendo la piuma della penna tra le dita.

L'esaminatore guardò entrambi, poco colpito, sbattendo il giornale due volte.
«Deerwood, scambiatevi di posto con McFlanaghan» ordinò, prima di tornare a leggere.

Julius sibilò qualcosa al ragazzo vicino a lui, l'altro annuì. Poi quello consegnò poco dopo.
L'esaminatore lo guardò stupito.
«Consegnate già?»
Lui annuì, prima di rivolgere un'ultima, riconoscente occhiata a Julius e scomparire fuori dalla porta.

Lui prese le sue cose; teneva il calamaio nella mano destra, e quando McFlanaghan gli si avvicinò lo scontrò con il gomito, facendolo riversare sui suoi vestiti.
«Bastardo» soffiò Julius, mentre l'inchiostro gli si espandeva sulla camicia.
Rimase fermo per qualche attimo sotto lo sguardo di tutti, guardandosi intorno con un vago senso di imbarazzo, prima che una studentessa della file in mezzo gli  passasse un fazzoletto di lino per pulirsi.

Poi si sedette vicino ad Emeline, e prese a scrivere di nuovo, con un contegno nobile.
Aveva già due fogli colmi di una scrittura fitta e fine davanti a lui, ma sembrava aver iniziato da capo la traduzione, in un altro foglio.

Emeline sbuffò; se solo avesse avuto gli occhiali con sé avrebbe potuto guardare attraverso il suo banco.
Aveva imparato a leggere la scrittura di Julius. Vederlo lì, alla sua portata, senza la possibilità di fare nulla, le fece venir voglia di urlare.

«Mancano venti minuti.»
L'esaminatore sbadigliò, riappoggiando alla cattedra il cronometro.

Julius continuava a scrivere, quasi fosse una sua personale corsa contro il tempo; aveva il viso coperto dai capelli, che come morbide corde gli oscuravano lo sguardo e gettavano un'ombra scura sul suo foglio.
Tirò su col naso, febbrile, mentre ricontrollava il testo con una lettura veloce.
Poi si lasciò cadere contro lo schienale, e si alzò.
Prese i primi fogli che aveva portato: quella che doveva essere, secondo i calcoli di Emeline, la brutta, e la consegnò.
La porse all'esaminatore con un gesto fine della mano, e firmò dove lui gli indicava.

«Non avete consegnato per primo, questa volta» disse l'uomo, guardando Julius con un cipiglio allegro.

Lui rimase serio, composto; elegante e disordinato al contempo nei suoi vestiti raffinati e macchiati di nero, come un bambino ad una festa in famiglia.
«Ho avuto difficoltà nell'ultima parte.»

L'altro sembrò credergli, e quasi con una punta di piacere lo vide andare al banco e recuperare la cartella, come se fosse segretamente contento che anche un Deerwood potesse trovarsi in difficoltà.

Emeline teneva la testa abbandonata sulla mano, la piuma della penna a sfiorare la sua guancia.
Fissava da dieci minuti la parola Nerone Cesare; maledisse quel nome almeno cento volte.
Aveva sempre odiato Nerone, e in quel momento tutto quel disprezzo sembrava essersi ritorto contro di lei.
Lasciò che il tempo le scorresse addosso come neve a sciogliersi contro il sole, passivamente, mentre guardava Ezra e il suo gruppo rientrare alla Vaas.

Julius stava chiudendo la cartella.
Tra le mani teneva la brutta della traduzione: la piegò due volte tra le mani, attento.
Poi prese sul braccio la giacca, a coprire il foglio.
«Emeline.»
Lanciò un'occhiata all'esaminatore e si avvicinò a lei, porgendole la pagina con tutta la disinvoltura del mondo.
Emeline lo guardò incredula, per una frazione di secondo; lui ricambiò quell'occhiata con un occhiolino brevissimo e divertito.

Afferrò il foglio, ed Emeline seppe per certo di aver passato l'esame.

glossario

¹ Sono l'arbitro della vita e della morte delle nazioni: è nelle mie mani la decisione sulla sorte e sulla condizione di ciascuno.

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