Capitolo XV- Placet alea fati

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Quando Julius lo aveva raggiunto sotto i pini silvestri, la prima cosa che Ezra gli aveva detto era stata:
«Ti saresti annoiato tantissimo.»
Forse era solo una scusa per non farlo soffrire troppo del fatto che non era potuto andare insieme a lui al Giardino Botanico Reale, oppure lo conosceva abbastanza da sapere che non avrebbe retto tutte quelle minuziose spiegazioni su ogni tipo di pianta.

«Certo, come no.» Julius era rimasto in piedi. Emeline, dietro di lui, teneva stretta alla mano la cartella.

«Com'è andato l'esame?» Ezra si era messo a sedere contro il tronco dell'albero, tranquillo. Ma quando Julius ed Emeline erano scoppiati a ridere, gli ci era voluto molto poco per comprenderne il motivo.

«Lavoro di coppia, presumo.»
Aveva detto, ammiccando ad Emeline.
Poi era tornato a leggere.
Le raccontò in seguito che un giorno di due anni prima lui e Julius avevano provato a scambiarsi di identità per un'esercitazione, ispirati nell'impresa dall'Iliade; a tutti e due era sembrata un'idea attuabile avendo professori diversi, ma Julius era stato riconosciuto durante la prima ora della mattina.
Non aveva ricevuto richiami perché era all'inizio del primo anno.
Col tempo avevano imparato ad affinare quelle tecniche, e gli scambi di persona erano ormai solo un ricordo su cui scherzare.

Ezra si congratulò con Julius per il sangue freddo.
«Avrei scommesso che ti saresti fatto beccare.»

«Mi sottovaluti.» Poi gli aveva chiesto com'era stata la visita.

Lui aveva solo puntato l'indice contro Emeline. «A lei sarebbe piaciuta, invece.»
Poi le aveva fatto cenno di sedersi, indicando l'erba tagliata sottile vicino a lui.
«Il Giardino è immenso. Ci sono centri di ricerca dove studiano i migliori botanici di Scozia. Dicono che nell'herbarium ci siano almeno due milioni di campioni, e le specie di piante sono incredibilmente vaste.
Da quelle officinali ad alcune esotiche, assurde, che non avevo mai visto in vita mia.»
Quasi gli brillavano gli occhi mentre parlava, e narrava con l'euforia di un ragazzino che ha appena assistito al suo primo spettacolo di circo.
«L'anno prossimo dovresti iscriverti al corso di botanica» disse infine, riferito ad Emeline.

«Non credo mi accetterebbero.»
Lei gli rivolse un sorriso amaro, prima di lasciarsi cadere sull'erba.

Lui la guardò; le labbra lievemente all'ingiù, gli occhi interrogativi.
«Perché? Hai dei voti esemplari.»

«Perché ho un richiamo ufficiale. Del primo anno.»

«Cosa?» Julius soppresse una risata incredula, voltandosi di scatto a guardarla.

«Non è vero» mormorò Ezra.

«Per via della mia ingenuità, suppongo.
Ho creduto a un gruppo di studenti che si riuniva nelle aule di pomeriggio. Una confraternita. Mi hanno detto che si sarebbero incontrati lì. Ovviamente sono stata l'unica a presentarmi.»
Non ne aveva mai parlato con nessuno, ma quel momento le parve giusto per farlo, senza un motivo apparente.
Ezra la ascoltava con interesse, gli occhi chiari erano aperti e attenti; Julius annuiva, serio. Forse non l'avrebbero giudicata.

«È terribile» sibilò Julius.
«Un richiamo per colpa d'altri!»

«Sono certo che il corso vi accetterebbe lo stesso» disse Ezra.
«Sono davvero pochi coloro che non hanno un richiamo, alla Vaas.»

«E tu come fai a non averne nemmeno uno?»chiese Julius, guardandolo dall'alto del suo graffiante sorriso.

«Potrei chiederti lo stesso.»

Poi passò una comitiva di ragazzi.
Silenziosi come un gruppo di monaci, salivano le lunghe scale di pietra della collina, i libri in mano e gli sguardi a terra, quasi non volessero incontrarne d'estranei.

«A proposito di confraternita.»
Sembrò che quella frase gli fosse sfuggita, tanto che quando Emeline si voltò nella sua direzione, Julius era talmente immobile e serio che dubitò potesse averla detta davvero.

Il gruppo scomparve dietro le fronde degli alberi; lasciò dietro di sé la quiete del parco.

Il freddo di settembre sembrava essersi ritirato, solo per quell'unico pomeriggio.
L'aria era tornata a profumare d'erba tagliata e polline a Blackcurrant, calda e densa come lo era solo d'estate.
L'autunno era offuscato, eppure sotto il ronzare delle api si percepiva ancora la malinconia autunnale.

Non era veramente estate, non poteva più esserlo: come leggere un libro per la seconda volta tutto sembrava più attutito, più distante, quasi non lo si stesse vivendo davvero.
Il freddo reclamava il suo spazio, negava la possibilità di rendere del tutto reale quel tiepido idillio nostalgico.
E le sensazioni sfuggivano, non si lasciavano assimilare, si disfavano a contatto con la terra umida del giardino.

Ezra stava sdraiato al centro del prato, inondato di sole; la sua figura era ancora più chiara del solito, e tutto in lui sembrava limpido, sfocato contro quella luce pallida e aspra come succo di limone.
I capelli gli scolorivano, gli stivali riflettevano bagliori cristallini e la sua sagoma mancava di confini.
Amava il Sole, talmente tanto che sembrava nutrirsene; ne gioiva come sanno fare solo i gatti, ne assaporava ogni raggio appena ne aveva la possibilità, e il Sole stesso sembrava amarlo a sua volta.
Ezra pareva esserne un riflesso, una copia personificata, un figlio luminoso, e ne vantava la discendenza col suo oro e il tepore dei suoi sorrisi; le mani sempre calde e gli occhi raggianti.

«Ezra?» Emeline uscì dalla porta d'ingresso, tenendo tra le mani un vassoio con tre bicchieri di limonata.

«Lascialo stare, sta facendo la fotosintesi.»Julius stava accasciato contro lo schienale della sedia di ferro battuto, le lunghe gambe stese sull'erba, l'ombra della colonna dietro di lui a scurire parte dei suoi lineamenti.

«Vuoi della limonata?» gridò Emeline.
Ezra alzò un braccio, negando, poi lo lasciò cadere di nuovo contro il terreno.

«Si ustionerà.» Julius abbandonò la testa contro la colonna, e lentamente si voltò nella sua direzione per osservarlo.
Il suo sguardo era nascosto da un paio di occhiali dalle lenti scure e la montatura tonda; di Ezra, ma per i quali Julius aveva sempre mostrato un debole tanto grande da finire per essersene gradualmente appropriato.

Emeline prese una sedia, e si affiancò a lui. «Quando credi che avremo gli esiti dell'esame?»

«Perché, sei preoccupata?» Julius mosse il viso verso di lei, puntandole contro il suo profilo tagliente. Poi prese a ridere.

Lei lo seguì, più composta, scacciando delle ciocche dalle spalle. Scosse la testa, e quelle tornarono dov'erano prima, scendendo lentamente lungo la linea delle clavicole. «Grazie. Per l'aiuto.»

Julius sbuffò: lei era tra quelli da cui non voleva ricevere, per nessun motivo, ringraziamenti.
«L'avresti fatto anche tu.»

In realtà non ne era sicura.
Non per egoismo, nemmeno per indifferenza, ma semplicemente perché non era certa che in un momento del genere sarebbe riuscita a gestire ugualmente bene la situazione.
La discrezione con cui Julius le aveva porto il foglio, la naturalezza con cui aveva scritto due copie davanti agli occhi di tutti e con cui successivamente era uscito dall'aula, ad aspettarla nel cortile leggendo Virgilio per ammazzare il tempo dell'attesa: non era sicura che non si sarebbe fatta beccare, o che sarebbe riuscita nell'impresa senza un richiamo per entrambi, come invece aveva fatto Julius.
Lui sembrava esserne abituato.

«Ezra te l'ha detto?»

«Cosa?» Emeline portò alle labbra il bicchiere, e passò l'altro a Julius.

Lui l'afferrò con una mano.
«Che ha dei documenti che potrebbero interessarci.»
Ammiccò nella sua direzione, ma lui sembrava non averlo sentito.
Teneva le gambe accavallate tra loro, muovendo placidamente la punta dello stivale come se stesse seguendo il ritmo di una melodia inudibile.

«Non mi ha detto niente.» Ne rimase delusa. Era quella la cosa di cui Ezra e Julius avevano discusso prima dell'esame, e di cui poi nessuno le aveva riferito più nulla.
«Perché lo ha detto solo adesso, di averli?»

Julius bevve un sorso di tè. «Non ne ho idea. Ma se non te l'ha anticipato, fa finta che non ti abbia detto nulla.»
Poi le sue labbra si stesero in un sorriso, lungo il bordo del bicchiere.
Ezra si era avvicinato, e con un gesto meccanico tolse dal viso di Julius i suoi occhiali; a osservarlo dietro le lenti c'erano i suoi occhi scuri e vivi, divertiti, che presto si posarono su Emeline.
«Ah, ci sono stati degli sviluppi. Vieni a vedere.»

Si fermarono davanti alla porta dello studio. Era chiusa a chiave, come spesso Emeline l'aveva trovata, durante le sue esplorazioni della casa.
Julius salì le scale, il tintinnare delle chiavi a preannunciare il suo arrivo.
Si fermò davanti alla porta; Ezra ne stava appoggiato con la schiena, in attesa, ed Emeline poté scorgere un'ultima volta il suo viso inspiegabilmente teso prima che Julius le oscurasse la vista, coprendole lo sguardo con i palmi delle mani.

«La porta è aperta.» Sentiva la sua voce vicina, forse più di quanto lo fosse davvero, rimbombante e sibilante come il sottile parlare di un serpente.

Fece qualche passo in avanti, guidata da Julius. Entrò nella stanza, e dopo poco sentì anche la porta nella libreria aprirsi; allora Ezra le spostò il braccio verso gli ultimi libri che la dividevano dal varco, e lei lo oltrepassò un passo incerto dopo l'altro.

«Sto iniziando ad annoiarmi, se devo dirla tutta.»

Li sentì ridere.

«Sei quasi arrivata» disse Julius.
Quando le scoprì lo sguardo si osservò intorno per qualche secondo prima di dirigere la vista verso la scrivania; il microscopio era al centro, il tavolo sgombro da tutti i libri, quasi fosse stato adibito a un piccolo tempio.
Come offerte agli dei, due provette stavano davanti a lui, una speculare all'altra.

«Non ci posso credere.» Emeline si avvicinò alla scrivania, afferrò una provetta e la esaminò sotto la luce del sole.
«Hai estratto le molecole?»

Julius sorrise, senza dire niente; restò sull'uscio, a dondolarsi sulle punte dei piedi, le mani a stringersi dietro la schiena.
«Ora va creato il siero.»

Tutti e due rivolsero lo sguardo verso di lei.
Le volte in cui avevano visitato la villa, evidentemente non erano sfuggite alla loro attenzione le file di boccette che teneva un po' ovunque, dalla serra alla sua camera, lungo il corridoio e in cucina; era sempre stata brava nei sieri, certo molto più di quanto non lo fosse nell'estrazione. Difatti utilizzava sempre molecole semplici da dividere; metà di quelle boccette erano colme di sieri alle rose e alle viole, che col tempo avevano iniziato a darle la nausea.
Ezra sembrava adorarli.
Spesso ne metteva qualche goccia sui polsi quando ne incontrava una sulle mensole del salotto, e profumava di fiori per giorni.

«Credo di potercela fare.» Ora era lei a indugiare su quell'affermazione, come Julius aveva fatto tempo prima; aveva paura di rovinare tutto il suo lavoro, così come lui era stato intimorito dalla paura di fallire.

«Ne sono certo.» Julius prese l'altra provetta, e la guardò con un luccichio vivace negli occhi. «Non è stato troppo difficile, ma nemmeno semplice. Capisco i problemi che hai riscontrato nella distillazione.»

«E adesso?»

Entrambi si voltarono.

Ezra stava a braccia incrociate, la schiena contro la vetreria dove le bottiglie d'assenzio giacevano chiuse e cupe.

«E adesso cosa?» domandò Julius.

«Adesso come andiamo avanti? Non possiamo accontentarci di un semplice siero.»
Ezra si staccò dal mobile, avvicinandosi agli altri.
«Quello che intendo è che dobbiamo esaminarlo. Non sappiamo ancora il metodo di funzionamento.»

«Prima di tutto dovremmo capire cosa vogliamo che faccia, questo siero» sottolineò Emeline.
Il ringiovanimento dei tessuti. Certo.
Era semplice etichettarlo come fine ultimo quando ancora tutto era teorico; ma le cose si erano fatte concrete, e bisognava pensare razionalmente.

«E non dite il ringiovanimento, perché è ovvio che sia quello. Ma dobbiamo capire da dove parta. Se agisca direttamente sulla pelle o possa avere effetti curativi. Magari non ha nessun beneficio esteriore ma cura gli organi interni. Oppure ha effetti medici per le ferite. Le molecole potrebbero declinarsi in tutto ciò, ma noi ancora non lo sappiamo.»

«E allora cosa facciamo?» Ezra slegò le braccia tra loro, aprendole in un gesto interrogativo.

«Sei tu che hai iniziato la polemica» gli ricordò Julius, ma lui non sembrò prestargli attenzione.

«Bisogna testarlo.» Emeline guardò le provette.
Bisogna testarlo, pensò ancora.
Bisognava comprendere quali fossero le sue reali proprietà. E c'era un unico modo.

«Dobbiamo testarlo noi.»

Rimasero in silenzio.
Julius guardava accigliato la punta delle scarpe, scuotendo impercettibilmente la testa. Come se all'improvviso la sua creazione lo disgustasse, fece schioccare la lingua, infastidito.
«Non rischierò di farmi avvelenare da un gelsomino per un esperimento.»

«Un esperimento?» soffiò Ezra, come tradito.

«Tu hai intenzione di farlo?»

«Non è veleno, Julius!»

Julius sbuffò, lasciando uscire fuori l'aria con esasperazione.

«Lo farò io. Posso provarlo da sola. Se andrà bene, non avrete nulla di cui preoccuparvi.»
Emeline inspirò, tenendo la provetta salda tra le dita. Era solo un siero.
È solo un siero. Sono solo fiori.
Eppure le sembrava che non fosse così, non del tutto; non erano rose, né viole.
Non erano quelle sostanze che aveva provato centinaia di volte, che profumavano i capelli e che conosceva bene.
E seppur anche quel gelsomino fosse stato un fiore, seppur ne avesse studiato le proprietà per anni, non riusciva a concepirlo innocuo come gli altri; c'era qualcosa nei suoi steli contorti, nei suoi fiori bianchi e alieni, nella sua linfa appiccicosa come resina, che non le faceva pensare a lui come a una pianta totalmente fidata.

«No. Non se ne parla.» Ezra scosse la testa, deciso, le sue mani che si muovevano febbrili e si stringevano tra loro.

«Allora vuoi provarlo anche tu? È inutile.»
Lei incrociò le braccia a sua volta.

«Perché sarebbe inutile?»

Julius osservava la scena, silenzioso, a mordersi l'interno della guancia, torvo come se stesse assistendo a una lite tra genitori. Sembrava ragionare su qualcosa di fastidioso e inevitabile, qualcosa che gli pesava addosso come il mondo con Atlante.
«Non ci sarà nessuno a provarlo per primo. Lo facciamo tutti.»

Cadde un'altra volta la quiete.
Emeline ed Ezra si scambiarono un'ultima occhiata, prima di tornare a guardare vaghi punti imprecisati della stanza.

«L'esperimento è di tutti e tre. Facciamolo e finiamola qui. Placet alea fati ¹» ordinò Julius, severo; il suo giudizio era stato brutale -anche per lui stesso- e sacro come quello di un Oracolo.

In seguito tutti e tre sarebbero tornati alla pace, al silenzio e alla dolcezza, ma quella decisione avrebbe continuato a seguirli senza tregua, impossibile da placare.

E allora, quando Emeline avrebbe finalmente ricavato il siero, si sarebbero riuniti nella veranda di Blackcurrant con tre tazze di un tè leggero tra le mani.
Ezra avrebbe annotato: "primo esperimento"; tutti avrebbero posto la loro firma sotto quel titolo, e bevuto tè al sapore di gelsomino.

glossario

¹Placet alea fati: è gradito il rischio della sorte.

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