Capitolo XVI- Memento Mori

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

«Cosa vedi?»

Il brusio le riempiva le orecchie.
Il museo era affollato, chiacchierante, quel giorno di molto tempo prima.

Davanti a lei due uomini la osservavano con i loro occhi di tempera.

«Due nobili.»

«Da cosa lo hai capito?»

Guardò la folta pelliccia d'ermellino di uno, il lungo cappotto bordato di montone dell'altro.

«Dagli abiti.»

«Soltanto?»

«Dai gioielli.»
Percorse il tratto che la divideva dal quadro, ma si fermò a metà strada. Vicino a lei altre persone lo stavano contemplando.

«Cosa vedi d'altro?»

«Un mobile di legno. Un planetario. Una lira e degli strumenti astronomici.» Il volantino del museo le si stava sgretolando tra le mani.
Lei lo sfaceva in piccoli pezzi, uno dopo l'altro, che lasciava scorrere lungo le mani umide dal caldo. Cosa vedeva d'altro?

«Una figura in mezzo alla stanza.»

«E che cos'è?»

«Non lo so.»

Non era niente. Una macchia amorfa e dorata. Distorta fino ad essere resa irriconoscibile.

«Guardala meglio.»

Si mosse verso la tela, talmente tanto da scontrare le corde rosso cupo della distanza di sicurezza.

Non riusciva a capire.
Si avvicinò ancora di più, restando sulla punta del piede; in bilico, quasi stesse cercando di entrare nel dipinto.

«Prova a guardarlo da un'altra angolazione. Prova a guardarlo da in basso a sinistra.»

Lo fece.
Lentamente, come se l'eclissi che fino a quel momento lo aveva reso invisibile si fosse dissipata, si mostrò a lei una figura.
«Un teschio.»

«Esatto. Perché?»

«Rappresenta l'uomo.»

«Non proprio.»

«La scienza, allora.»
Guardò gli strumenti astronomici, i quaderni scritti fitti d'annotazioni.

«Non sempre tutto è legato alla scienza, Emeline.»

«Allora cosa?» Stava diventando noioso.
Un gioco noioso e irritante; il modo in cui solo lui sapeva giocare.

«Allora pensaci ancora.» Le rivolse un sorriso.

«La morte.»

«No.»

«La perdita.»

«Sei troppo imprecisa, Emeline.»

«Il memento mori¹, allora!» Si era stancata. Sapeva che avrebbe rovinato tutto con le sue domande.
Si sarebbe ricordata in seguito di non accettare mai più una visita al museo in compagnia di suo padre.

Lui stese le labbra in un sorriso freddo, a tratti quasi compiaciuto.
Non si assomigliavano per niente, lui e la figlia; nemmeno un lineamento, nemmeno il modo di fare.
La curva del suo naso era quella di un greco, i suoi occhi di un azzurro diverso dai suoi.
Portava abiti su misura ed aveva un modo di porsi distaccato e colmo di raffinatezza.
Lui era cresciuto a Londra e ne aveva assimilato completamente gli usi, lei aveva quattordici anni e non aveva ancora conosciuto realmente nessun costume al di fuori di quello scozzese.

«È corretto» disse lui.
«Il memento mori. Il teschio ci ricorda che si deve morire. Che nessun essere umano può sfuggire alla morte, per quanto i suoi strumenti siano sofisticati, le sue scienze esatte, le sue conoscenze vaste.
Non si può evitare qualcosa di immutabile. Nemmeno con la scienza, no.
Guarda la lira: la sua corda, la corda della vita, è spezzata dalla morte. E guarda la spilla dell'uomo di sinistra, Jean de Dinteville: è a forma di teschio. E c'è un crocifisso, dietro la tenda. La morte ricopre ogni cosa, Emeline»

Lei non disse nulla.
Guardava e basta, in silenzio, dove tutto ora sembrava prendere più significato.

« Questo dipinto è detto Gli Ambasciatori, e fu commissionato a Hans Holbein appunto da due ambasciatori francesi. Due amici, che volevano mostrare anche sulla tela quanto poco temessero la morte, quasi potessero sfuggirvi. Secondo te la pensava così anche il pittore?»

«No.»

«Perché?»

«Li ha contornati di morte. Li sta prendendo in giro.»

Lui non rispose.
Abbozzò a un sorriso e tornò a guardare la tela, vicino a lei.
Era molto alto; magro ed elegante nel suo cappotto di feltro.
«Saresti mai arrivata a questa conclusione, se non ti avessi sfinito di domande?»

Lei scosse la testa, riluttante.

«È questa la cosa importante, Emeline. Chiedersi il perché delle cose, sempre. Ricercare la verità e la sapienza in ogni situazione.
Il sapere è l'unica cosa ad essere impossibile da fermare.»

«Insieme alla morte» disse lei.

«Insieme alla morte.»


«Avete firmato tutti?»

«Sì.»

«Io ho firmato.»

Ezra prese il quaderno, esaminando le scritture; quella compatta e ordinata di Julius, la sottile e leggera di Emeline.
Firmò sotto al titolo: "Calende di Settembre."

Il mese stava finendo senza troppa confusione.
Non c'era stato un vero cambiamento, solo qualche foglia caduta in più, unita alle molte altre che si erano staccate dai rami tempi prima.
Nessuno sembrava nemmeno essersi accorto che l'estate fosse definitivamente finita, perché il sole era ancora insolitamente benevolo, i suoi raggi aggrappati alle pelli, all'erba, ai vetri, quasi non volessero lasciarli andare.
Tutti ne sembravano entusiasti: tra chi partiva per il lago a chi non rinunciava ancora a passare le pause all'aperto, chiunque sembrava essersi dimenticato dell'autunno, quell'anno.

Ezra aveva organizzato un giro alla spiaggia che alla fine  non avevano mai avuto la possibilità di fare, per via degli esami di Julius.
Avevano allora optato per un modesto picnic, passato a leggere e mangiare la crostata che aveva portato Emeline; Julius era di pessimo umore per l'esame di matematica, e lo rimase anche per i giorni a  seguire, torvo e imbronciato, di poche parole come non lo era mai stato.
Girava per la casa senza una meta, ricontando di tanto in tanto tutti gli errori che era certo d'aver fatto alla prova, per poi fermare Ezra -sfinito, in cerca di tranquillità- e chiedere: "Credi che con venticinque errori potrei passare comunque?"
L'aiuto di Emeline non gli era servito, e tutti i pomeriggi spesi a risolvere problemi d'analisi sembravano essersi rivelati inutili.
Lei non glielo aveva fatto pesare, ma sapeva che lui era profondamente imbarazzato dalla situazione.

  Il suo malumore si era risolto quasi del tutto il giorno del suo compleanno, quando Ezra aveva saltato lezione per portargli un regalo: un bellissimo set da scrittura Parker, con carta da lettere e tutto il resto, che Julius aveva adorato.
Quello stesso giorno tutti e tre avevano deciso di saltare le ultime lezioni della giornata per andare a Grassmarket ².
Avevano comprato fragole dal banco di una donna che riposava sotto la veranda di una delle case di mattoni chiari che si schierava per tutta la strada.
Emeline aveva preso un paio di occhiali per Ezra, -il quale sembrava aver accettato il regalo con molto più entusiasmo del previsto- e tutti quella sera si erano andati a riposare sulle panchine umide di Canton Hill³, ad aspettare che l'arancio del tramonto calasse su Edimburgo dall'alto dell'Acropoli.

In quel momento, mentre si erano riuniti per le Calende, il nervosismo di Julius sembrava essere tornato.

«Come balsamo?» chiese Ezra, annotando qualcosa.

«Non da segni di beneficio evidenti. Sulla pelle ho riscontrato una morbidezza aggiunta, ma nulla di più.»

«In soluzione liquida, invece?» fece Ezra, mentre continuava a scrivere.
«Julius?»

«Cosa?»

«In soluzione liquida ha dato risultati, il siero?»

«Niente di che. Anzi niente e basta. Dava solo un cattivo sapore all'assenzio.»
Lui affondò nella poltrona, coprendosi la bocca con il palmo, guardando il soffitto con impazienza.

«Dimmi che non l'hai provato solo disciolto nell'alcool.»
Ezra alzò lo sguardo su di lui, esasperato.

«E anche se fosse? Non funziona e basta.»

«Lo hai fatto o no?»

Lui fece roteare gli occhi, sistemando il mento contro le nocche della mano.
«No. L'ho provato anche con il tè e l'acqua. Non è cambiato nulla, se non che fosse disgustoso.»

Ezra abbandonò il quaderno sulle ginocchia. «Bene» esclamò, irritato.
Si tolse gli occhiali, e portò due dita a stringere la radice del naso.
«È evidente che non funzioni.»

Emeline espirò; più che un sospiro, buttò semplicemente fuori l'aria, come se fosse troppo stanca anche solo per mostrare il suo sconforto.

Due settimane si erano susseguite allo stesso identico modo: i tè non facevano altro che sapere di gelsomino, lei non smetteva di lavarsene il viso.
In un disperato tentativo Ezra aveva preso a usarlo come profumo; l'assenzio che bevevano la sera era più amaro del solito e la serra e lo studio sembravano essere diventati delle soffocanti fiorerie.

In quegli ultimi giorni la speranza aveva preso ad affievolirsi, e ormai gli studi erano diventati quasi meccanici. Emeline non badava più al sapore del suo tè, e nemmeno annotava ogni passaggio dei suoi piccoli esperimenti come faceva all'inizio.
Si trovarono ad attendere il ventinove di settembre con esasperazione, pregando che arrivasse presto.
E mentre quel giorno sembrava sempre più distante, altre cose si accumulavano: le lettere del padre di Ezra -che lui aveva smesso di leggere-, le foglie sul terriccio del viale della Vaas, e gli esami, soprattutto.
Julius non aveva più annotato nessuno sviluppo la settimana dell'esame di matematica, così come la settimana dopo la prova, quasi fosse rimasto in lutto per il suo fallimento.

«Non capisco» fece Julius, alzandosi.
«Le molecole hanno quelle proprietà. Perché non agiscono?»

«Potrebbe non essere così.»

«Cosa intendi?»

«Magari abbiamo estratto male le molecole.»

«Credi che abbia estratto male le molecole?»

«Non pensi che forse potremmo aver semplicemente sbagliato?» ribatté Ezra, acido. Lui lo guardò contrariato, quasi non si aspettasse quel tono in risposta; Ezra era abituato a sopportare gli sbalzi d'umore dell'altro, e sembrava stare attento a non rivolgersi a lui mai con troppo astio.
In quel momento pareva al limite, esausto e curvo contro la poltrona.

Julius rimase in silenzio.
Lo osservò per qualche secondo, senza espressione, prima di sbuffare un mezzo sorriso sofferente.

Emeline chiuse gli occhi. Anche lei era stanca. Anche lei non sapeva più come conciliare gli esami alle ricerche.
Eppure cercò di mantenersi neutra, senza prendere le parti di nessuno per evitare lo scoppio di un litigio.
«Dobbiamo continuare con gli esperimenti.»

Ezra rise. «Sei abbastanza intelligente da capire che non ci porteranno da nessuna parte.»

«Sono passate solo due settimane, Ezra.»
Era incredibile quanto presto si annoiassero. Come se non avessero mai seguito davvero un processo scientifico, non fossero mai riusciti a comprendere e assimilare la pazienza necessaria per portare a termine un progetto. Sapevano essere fuori dal mondo, a volte.

«Potrebbero essere benefici a lungo termine. Potremmo non aver ancora trovato la combinazione giusta.»

Julius si era mosso verso la finestra, seduto sul bordo di marmo.
Guardava fuori e sembrava essersi isolato dalla conversazione.

Ezra non rispose.
Arricciò le labbra in una vaga espressione contrariata, solo per un attimo, prima di riempirsi il bicchiere.
Poi prese il quaderno e annotò:

"Il siero sembra non funzionare".

«Sei impossibile.»
Emeline gli rivolse uno sguardo giudicante, sicura che lui avrebbe risposto con uno dei suoi furbi e limpidi sorrisi.

Ma Ezra non fece nulla di ciò. Guardò solo l'orologio e disse:

«Non mi sento molto bene. Credo che andrò a leggere.»

Quella sera Ezra era rimasto chiuso nella stanza degli ospiti, accusando un forte attacco di tosse.

Julius si stava accendendo una sigaretta, quando aveva esclamato, irritato:
«Non capisco perché non voglia dirti che ha l'asma.»

Emeline aveva smesso di leggere.
«L'asma?»
Sedevano nella piccola cucina di servizio, quella che Martha usava per tagliare la selvaggina, e dove cenava.
I vetri della credenza erano vivacemente colorati, e c'erano barattoli un po' ovunque: di farina e zucchero, di marmellata, di alloro essiccato e maggiorana.
Dietro di loro la finestra era semiaperta, e un rivolo di freddo faceva smuovere i capelli di entrambi.

Julius fumava, la vestaglia a cadergli lungo i polpacci, i gomiti sul tavolo. Sgranò gli occhi. «Da quando aveva... dodici anni? E ancora non vuole ammetterlo con nessuno.»

«Ma tu lo sai.» Emeline era tornata alla lettura.

«Sì, io lo so.»
Sembrò in procinto di dire altro, ma rimase in silenzio.
Chiuse il fuoco sotto la teiera d'acqua bollente che aveva preparato.
Spostò la sigaretta da una mano all'altra, a sfiorare le dita magre, e riempì una tazza d'acqua.
Poi s'inginocchiò e prese dei fiori di camomilla dalla mensola sotto al forno.

«Non potrei non saperlo» disse.
«Senza di me avrebbe rischiato la morte almeno dieci volte.»
Versò un grumo di fiori in un piccolo infusore da tè d'argento, facendolo affondare nella tazza.
Poi prese il barattolo del miele, ne raccolse un cucchiaio; quello scintillò.
«Ecco» disse Julius, mentre immergeva il cucchiaio nell'acqua e lo faceva roteare con dei gesti fini del polso. «Meglio dell'ambrosia.»
Poi inspirò una boccata di fumo, e fece scorrere il bicchiere verso Emeline.
«Portaglielo tu.»

«Non so se vorrà vedermi. Non vuoi portarlo tu?» Lei guardò il miele disperdersi nell'acqua, insieme al giallo limpido e caldo della camomilla.

Julius teneva una mano a sfiorare la tazza.
Fece spallucce.
«Digli di rendersi presentabile, che la cena è pronta tra mezz'ora.»

Salì le scale scricchiolanti del secondo piano, osservata dagli antenati di Julius mentre reggeva per il manico la tazza bollente della camomilla.
Bussò alla porta tre volte, prima di udire la voce sommessa di Ezra dire: «Julius?»

«Emeline» rispose lei.
Allora sentì qualcuno alzarsi dal letto, allontanarsi dalla porta, e tornarvici con il suono attutito dei tacchi di un paio di scarpe.

Ezra le aprì la porta; aveva un nuovo strato di occhiaie sotto gli occhi, che al buio non sembravano più così belli come lo erano sotto la luce del sole.
Aveva i capelli annodati allo stesso modo dei fili di una rete da pesca, la bocca corrucciata in un vago broncio e il viso ammantato di sonno.

«Ti ho svegliato» constatò Emeline.

«No, stavo ascoltando della musica.»
Indicò il grammofono: un vecchio modello che la madre di Julius aveva comprato appena era uscito in commercio, e di cui si era voluta ben presto liberare.
Sul piatto girava un disco d'opera.

Le fece cenno d'entrare.
Le serrande erano tirate su, ma fuori era già buio; la stanza era nella penombra, illuminata solo dalla abat-jour vicino al letto.

Ezra si sedette sulla poltrona di fronte al camino, lasciando scivolare le suole delle scarpe contro il tappeto persiano che ricopriva le assi del pavimento.
Si portò una mano al viso.
«Scusa se non parlo troppo, è per» si indicò la trachea, mostrando la pelle rosea del collo con un gesto.

Emeline lo fermò. «Non parlare, va bene.»
Poi gli porse la camomilla, pronta ad ammettere che non l'avesse fatta lei.

«Ringrazia Julius» l'anticipò Ezra.
«E grazie anche a te per essere salita.»
Non finì la frase che prese a tossire; una tosse sibilante, sofferente, che lui cercava in tutti i modi di reprimere.

Emeline si sistemò sulla poltrona, incerta su cosa fare.
Sapeva che bisognasse lasciare spazio ai malati d'asma, senza opprimerli o toccarli; quindi in quel momento rimase ferma, in attesa che la tosse passasse.

Ezra tornò a respirare.
Gli occhi gli lacrimavano, e le palpebre stavano iniziando ad arrossarsi. «Ecco, ora lo sai anche tu.»
Poi guardò la tazza, girando per poco il cucchiaio.
«La berrò dopo, d'accordo?» concordò, non dimenticando, nemmeno allora, di rivolgere ad Emeline uno dei suoi soliti sorrisi accomodanti.

«Julius ha detto che è l'unica cosa che ti fa passare l'asma.»

Lui provò a ridere, dovendosi trattenere per non tornare a tossire.
Sotto la luce calda dell'abat-jour era tremendamente pallido.
«Beh, ha ragione. Digli che ha ragione, so che aspetta che lo dica.»

Emeline appoggiò la tazza al comodino, facendone traballare i bordi colmi d'acqua. Rimosse l'infusore, e lo appoggiò sul piattino che si era portata dalla cucina.
«Tra mezz'ora si cena. Se vuoi possiamo chiedere a Martha di portarti il cibo in camera.»

«No, non ce n'è bisogno.»
Lui scacciò quell'idea dal viso, come un ramo che gli ostacolava la vista.
«Ci sarò. Mi preparo e scendo.»
Provò a sorridere una seconda volta, ma Emeline rimase impressionata quando vide quel sorriso distendersi troppo presto di nuovo in una linea seria.
«Mi preparo e scendo» ripeté lui, con più dolcezza.

Lasciò la stanza, ed Emeline si trovò davanti la figura longilinea di Julius.
Stava attaccato al bordo della scala, le mani strette al corrimano, il vuoto dietro di lui. «Come sta?»

«Non bene» Emeline scosse la testa.
Era preoccupata, molto, e quando vide il viso di Julius rimase stupita nel trovarvici una preoccupazione diversa.
Non era inquieto per la sua salute, ma per un altro, invisibile motivo.

«L'asma gli si intensifica sempre quando è angosciato per qualcosa» disse.

Martha li richiamò al piano di sotto per la cena.

glossario

¹Memento Mori: ricordati che devi morire

²Area del mercato storico di Edimburgo.

³Collina situata al centro della città.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro