Capitolo XVII- Timor Mortis

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Mangiarono il primo piatto in silenzio, la quiete rotta solo dalla tosse di Ezra.
Lui non toccava cibo, pietrificato davanti alla carne infilzata nella sua forchetta, la camicia stropicciata e lo sguardo stanco.
Julius, in contrasto, sembrava affamato.
Ma aveva addentato ogni boccone con gli occhi fissi sull'altro, un luccicare adamantino nei denti, macchiati di rosa a contatto con la carne.

«Ti senti meglio, adesso?»?chiese, mentre piegava lo sterno contro il tavolo per afferrare la brocca dell'acqua. Emeline la prese per lui.

Ezra deglutì. «Abbastanza, sì.»

«Era da molto che non avevi un attacco così forte.» Si versò dell'acqua.
Lo conosceva troppo bene.

Emeline fece rimbalzare lo sguardo da uno all'altro, senza dire nulla.
Non voleva immettersi in discorsi che non le appartenevano, innestarsi nella pianta del loro rapporto come una graminacea infestate. Quindi addentò un pezzo di pomodoro.

«Credo sia la polvere. Non mi ci sono ancora abituato.»

Julius stese il braccio lungo il bordo della sedia, lasciandolo dondolare nel vuoto.
Dopo un lungo espirare rilassò i muscoli, e rivolse il viso verso Emeline.
«Alla Cattedrale non c'è polvere?» domandò, serafico, senza rivolgersi a lei.
Stava parlando con Ezra, ma sembrava non volesse concedergli il suo sguardo.

Ezra rimase interdetto, solo per poco.
Si difese subito.
«Forse allora è il polline. Ieri ci siamo sdraiati sul prato, no?»

Julius si ricompose, la schiena di nuovo dritta lungo lo schienale della sedia.
«Può essere» disse.
Poi mangiò un altro boccone, lentamente. Sembrava non avesse altro da dire.
«Cosa dovevi dirci, a proposito di quei documenti?»

Emeline alzò lo sguardo, la forchetta davanti alle labbra.
Il suo non era stato un tono familiare, non era la solita intonazione limpida per cui conosceva Julius.
Con quella serietà sbagliata sembrava essersi quasi proteso verso Ezra, mentre gli parlava in maniera così algida e lapidaria, i polpastrelli a tamburellare contro la linea d'oro del piatto.

Ezra alzò le spalle; la sua postura divenne improvvisamente più nervosa, tesa come una corda di lira.
Staccò i gomiti dal tavolo, quasi volesse allontanarsi il più possibile da Julius.

Era questo quello che non le piaceva.
C'era sempre un momento in cui tutto si ghiacciava, diventava freddo e irrisolvibile, e l'acqua tiepida del fiume di familiarità che condividevano si congelava. Emeline se ne accorgeva spesso, e pativa quel gelo come nient'altro.

«Non li ho qui. Li ho lasciati alla cattedrale.»

Julius si morse la lingua, mostrando un amaro sorrisetto.
Torno a guardare il piatto e pensò che Ezra non fosse mai stato bravo a mentire.
Era entrato in camera sua più di una volta, e aveva visto diversi fogli sulla scrivania; troppo vecchi e conservati con attenzione per essere appunti.

«Non sono quelli che hai in camera?» chiese Emeline, a sorpresa.
A Julius andò di traverso un boccone, e diede due discreti colpi di tosse.

Ezra sgranò appena gli occhi, mentre lasciava scorrere le dita lungo il calice di vetro.
Come fai a saperlo? Avrebbe voluto chiederle, quando si era ricordato che era stata proprio lei a fargli compagnia qualche ora prima, quando stava troppo male anche per parlare.

Rivolse lo sguardo verso Julius, senza sapere bene cosa aspettarsi; lui ricambiò con una sorniona alzata di sopracciglia.

«Allora forse sono quelli» disse Ezra.
Non sembrava aver intenzione di continuare la conversazione, quindi Emeline parlò per lui.

«Che tipo di documenti sono?»
La stanza non era molto illuminata, e quando la luce scarseggiava i suoi lineamenti si facevano più affilati e severi: quelli di una statua, intagliati in un fine marmo privo di colore.
Quella sera teneva i capelli legati dietro la schiena, ma in un gesto inconscio provò comunque a spostarli dalle spalle.
Appoggiò il mento alle nocche delle mani e attese una risposta.

«Mi sono stati regalati dall'uomo che mi ha ospitato in Svezia quest'estate. Riguardano la chimica e la botanica, presumo.»

«Presumi?» Julius lo guardò di sottecchi mentre beveva il vino, il suo pomo d'Adamo a muoversi appena.
Sembrava aver perso la sua ostinazione.
Più tranquillo, era tornato quello di prima davanti al cedere di Ezra.

Lui esitò. Solo un breve attimo, ma bastò per far ricadere di nuovo tutta l'attenzione sulla sua figura. «Sono scritti in latino.»

Julius inclinò la testa, in silenzio mentre masticava.
«Vuoi che li traduca io?» chiese.
I suoi occhi scintillavano d'attesa.

«Sei l'unico che possa farlo» rispose Ezra, e Julius espirò un sorriso.

«Non adularmi» lo redarguì.
Poi abbandonò le posate.
«Lo faccio, d'accordo. Possiamo vedere i documenti?»

«Giusto. Valli a prendere, Ezra.» La schiena di Emeline strisciò lungo lo schienale della sedia. Sembrava assonnata, seppur il suo volto fosse ancora meditabondo.

Lui rimase fermo, a far scricchiolare le nocche, strette tra loro.

«Vuoi che ti accompagno? Sei tu ad avere paura dei fantasmi, adesso?» lo schernì Julius, alzandosi con un sardonico fare teatrale.
Non si sarebbe seduto finché Ezra non avesse preso una decisione.

«Vado da solo.» Lui si alzò a sua volta, lentamente.
Rimise al suo posto la sedia, fece cadere il tovagliolo sul tavolo e lasciò la stanza con la rapidità di una scossa di vento.

Julius si voltò verso Emeline.
«Capisci quanto io sia santo nell'essergli amico?»

Una pila di fogli cadde sul tavolo.
Vecchia, consumata, di un giallo antico che delineava bene la sua età.
Un tempo era stata mangiata dalle tarme, ma qualcuno aveva curato la carta in modo tale da limitare i danni dei loro morsi.
Qualche buco, perfettamente circolare, si notava ancora ai bordi.
Il plico era legato con un nastro di corda, annodato più volte con decisione.
Ezra lo recise con un rapido taglio del coltello, i tendini della mano a contrarsi mentre tagliava con un gesto fermo del polso.
«Togliete i bicchieri» disse, timoroso che potessero rovesciarsi.
Appoggiò gli occhiali davanti a sé.

Julius bevve un ultimo sorso e allontanò il suo calice, prima di raccogliere uno dei primi fogli tra due dita.
I suoi occhi scorsero rapidi lungo le ultime righe: una peculiare abitudine che Emeline aveva imparato a capire.
Quando gli veniva dato un nuovo testo, il primo punto che Julius osservava non era mai quello delle prime righe.
Si correggeva sempre subito, e tornava a leggere in cima alla pagina.

Ma quella volta non lo fece, continuò a leggere il testo per metà, come se qualcosa avesse improvvisamente catturato il suo interesse. Entrambi lo osservavano in silenzio, mentre i suoi lineamenti si facevano più crucciati e lo sguardo si fissava, confuso, impossibilitato a passare alla riga successiva. 

Lasciò cadere il fogli davanti a lui.

«Allora?» Ezra sembrava al limite della tensione: appoggiato alla finestra, si reggeva con una mano stretta contro il gelo del marmo.

«Non ci capisco nulla.» Julius rise. «Non riesco a tradurre.»
Continuava a spiare quella pagina, e ne parve quasi intimorito.
Il dubbio gli si leggeva negli occhi.

Emeline non provò a leggere, ma di fronte alla confusione di Julius le venne in mente solo un unico ricordo: appena finito l'esame entrambi si erano seduti sotto le volte dell'entrata, e il discorso era ricaduto un'ennesima volta sul latino.
E mentre mangiava noci, Julius le aveva spiegato di non essere ancora in grado di capire pienamente il latino arcaico.

«Potrebbe non essere latino classico.»

Julius incrociò le braccia al petto.
«Arcaico, dici?» chiese, mentre prendeva a mordersi le pellicine dell'indice.
«Non lo so tradurre, ma lo so riconoscere»disse, prima di affondare di nuovo lo sguardo nelle parole del foglio.
«Questo è un ibrido» esclamò poi, criptico.

Ezra aggrottò le sopracciglia, perplesso.
Strinse le braccia davanti alle ginocchia incrociate, aspettando risposta.
C'erano volte in cui faceva esattamente così, quando Julius sfiorava il limite dell'ermetico con i suoi discorsi, citando Virgilio o parlando di cose che lui non afferrava; quindi rimaneva in silenzio in attesa di nuove informazioni, come un re davanti all'Oracolo.
Allo stesso modo, spesso ulteriori spiegazioni non arrivavano.

«Un ibrido?» domandò Emeline.

«Un misto di latino medievale, arcaico e classico.»

«Ma perché?» sbottò allora lei, la nausea al solo pensiero di tradurlo.
Julius sembrava invece estasiato: come se da tanto tempo avesse preso a trovare monotono quel latino che leggeva come fosse inglese, e ricercasse nuovi limiti da sfidare, i suoi occhi di melassa brillavano di un desiderio sottile.

«Non ne ho idea» rispose lui, le dita a sfiorare con delicatezza la carta.

«Riusciresti a tradurlo?» Ezra, le mani annodate tra loro, gli rivolse una strana occhiata.
Lo puntò coi suoi occhi pungenti per qualche secondo, prima che Julius alzasse il viso -serio, con la lieve patina di un'imbronciatura immotivata- e dicesse.
«Prima voglio sapere di cosa parla.»

Ezra dischiuse le labbra.
«Come posso saperlo se non l'ho tradotto?»Inclinò il volto, in attesa.

Julius gli rivolse un sorriso.
Dolce, comprensivo, sibillino come era solito essere quando si sentiva preso in giro.
«Non avresti mai preso questi fogli senza sapere di ciò che trattavano, Ezra.»

Era come assistere a una lunga, amichevole partita di scherma.
Una lieve ferita alla guancia, un colpo poco profondo, un affondo schivato e un sorriso beffardo; stavano giocando le loro parti con la compostezza di chi si rispetta, e con l'acume di chi si conosce troppo bene.

Emeline spostava lo sguardo da un capo all'altro del tavolo: prima Julius, poi Ezra, con le loro stoccate di parole affilate e morbide allo stesso tempo.
Si trovò inconsciamente a parteggiare per Julius.
Perché era troppo strano, troppo fastidioso che Ezra rimanesse inflessibile, enigmatico nella sua richiesta, senza confessare nulla su quei fogli rovinati dall'umidità.

Lui stava scomodo sulla sedia.
Si muoveva, come se non riuscisse a stare fermo, come se il tavolo lo bloccasse dall'esprimere il suo disagio.
Più volte Emeline lo vide guardare fuori dalla finestra.
Era limpido che fosse in difficoltà, limpido come il fatto che Julius lo avesse capito fin troppo bene.
«Hai paura che non traduca? Se non lo fossi, non faresti così tante storie» diceva, la voce flessa dal sorriso, gli incisivi a mostrarsi con lucentezza. Sapeva essere tremendo.

«Basta.» Emeline appoggiò le posate davanti a sé.
Entrambi la guardarono sorpresi, ma lei si voltò subito verso Ezra.
«Da quel che ho capito tu sai perfettamente di cosa trattano i documenti.»

Ezra non rispose.
Fece per parlare, ma Emeline non gli lasciò spazio.
Le sue parole presero a fluire di nuovo, compatte e controllate, in un ordine fermo e fluente impossibile da sovrastare.
«Quando si inizia un esperimento tutti gli individui coinvolti devono essere a conoscenza del fine ultimo della ricerca.
Ce lo hanno insegnato al primo anno.
Non ci hanno mai portato in laboratorio senza prima mostrarci il risultato che avremmo dovuto conseguire. La scienza è limpidezza. Non è ciò che c'è scritto nell'aula di laboratorio?» Poi si schiarì la voce, solo per un attimo, quasi volesse essere certa di pronunciare con chiarezza le ultime parole.
«Ora, il nostro è un progetto comune e le nostre sono ricerche comuni. Non lavoreremo né nel dubbio né alla cieca. Né senza sapere meno di quello che sai tu.»

Calò il silenzio.
Julius smise di lasciar ticchettare la forchetta sul bordo del piatto e la tosse di Ezra cessò, rintanandosi di nuovo sul fondo dei suoi polmoni.
Lui rimase composto, le mani strette davanti al viso, scorci del suo sguardo brillanti dietro all'intreccio delle dita.
«D'accordo» disse.
«Non posso certo sovvertire l'ordine dell'etica scientifica» ironizzò.
Il suo tono monotono e dolce era fastidiosamente al limite del mellifluo, come diventava solo a volte.
Si alzò dal tavolo e Julius lo seguì con lo sguardo; sfiorò i fogli con una mano e prese a parlare:
«Julius, tu sai quanto io creda nella scienza.»

Lui si voltò di scatto, senza dire nulla.
Dopo qualche secondo di attesa, disse solo: «Lo so.»

«E sai anche che mi sono iscritto alla Vaas per volere di mio padre. Ma penso di poter rivendicare il vostro stesso amore per la conoscenza. Poche sono le vite che vorrei intraprendere, e nella maggior parte c'è lo studio delle scienze naturali.
Il mio è un credo limpido e incorruttibile, perciò vi prego di non innalzare giudizi affrettati su quello che state per scoprire: ricordate che tutto ciò che sentirete vi potrà sembrare incredibile, surreale e falso. Sarete liberi di non crederci.»
Poi scoccò una fredda occhiata ad entrambi: un monito di lealtà.
«Ma col tempo tutto assumerà un valore diverso. E non servirà più dubitare su quale pianta utilizzare, su quale proprietà sia quella giusta; la strada è una sola.»

A quel punto Julius ridacchiò, senza umorismo.
Il suo volto era fermo e rigido, ma come lo può essere la superficie d'un lago ad aprile.
Il peso irrilevante di un'ennesima parola avrebbe fatto collassare il ghiaccio.
«Dicci di cosa parla e basta.»

Allora Ezra prese l'ultimo foglio dalla spessa pila che sorgeva di fronte a lui, rivelando fosse il primo del manuale.
Lo aveva nascosto, celato per scongiurare la scomoda ipotesi che finisse nelle mani di Julius.
«Leggi» disse, porgendoglielo.

Lui quasi glielo strappò di mano, ed Emeline incurvò un sopracciglio.
Scorse lungo le parole senza comprenderne appieno il significato, ma dopo pochi secondi bastarono i lineamenti di Julius per farle ben capire che era riuscito a tradurlo.

«È l'unico pezzo in latino classico» Ezra gli si avvicinò, irrequieto.

«Che cosa significa?» chiese invece Julius, sovrastando le parole dell'altro con le sue. Rimasero entrambi in silenzio, ed Ezra sorrise. Sembrava che l'incredulità di Julius lo soddisfacesse.

«Leggilo ad alta voce» chiese, porgendo uno sguardo a Emeline.

«Le fasi si dicono essere tre, dalla più vile all'eccelsa: bisogna partire dal lento marcire del corvo nero per lasciare che le bianche ali del cigno purifichino gli elementi. Solo allora tutto si macchierà del vermiglio della fenice e il re sarà incoronato. Il processo è lungo e selettivo, come lo sono le tre fasi stesse: l'opera finale determina la consapevolezza nell'elevarsi al di sopra della materia.»
Poi roteò gli occhi lentamente, inclinando il viso verso Ezra.
Stava per mettersi a ridere o urlare, credette Emeline, ma Julius non fece altro che continuare a guardare dritto in volto Ezra, immobile come se fosse appena stato modellato dalla cera.

«Sono simbolismi.» Ezra prese il foglio.
«Sono simbolismi per indicare i tre processi chimici. Il corvo è l'opera al nero, dove gli elementi andranno putrefacendosi per passare alla sublimazione, il cigno. La fenice è...»

«Di cosa Diavolo stai parlando.»

«È difficile da spiegare, ma se...»

«Ezra» Emeline lo richiamò, prima che potesse farlo Julius.
«Questi non sono trattati di scienza.»
Le venne in mente il ricordo di una vacanza di molti anni prima; Firenze era luminosa e terribilmente calda attraverso i vetri del museo, e lei aveva fame e male alle piante dei piedi.
Quella era l'ultima sala e lei aveva lanciato solo qualche occhiata approssimativa ai quadri restanti, mentre attendeva suo padre in minuti estenuati e infiniti.
C'era stato un quadro che aveva attirato il poco di attenzione che le era rimasto: La liberazione di Andromeda, della quale le era stati spiegati i più disparati simbolismi.
Dalle Metamorfosi di Ovidio al significato politico, suo padre era arrivato a ipotizzare infine che la lotta contro il drago avesse una valenza alchemica.

Non conosceva l'alchimia.
Il poco che sapeva proveniva da mediocri racconti d'appendice che volevano essere emozionanti, in cui vecchissimi uomini ammettevano di avere migliaia di anni, di aver visto con i loro occhi tutte e ventitré le coltellate inflitte a Cesare e aver assistito in prima linea alla Rivoluzione francese.
Non le erano mai piaciute quelle storie, e in generale le trovava stupide.
Ma quel giorno ricordò di aver chiesto al padre il vero significato di alchimia -sapeva che gliene avrebbe dato uno più concreto di quei racconti- e lui, dopo un sorriso, le aveva risposto.

«L'alchimia» aveva detto. «È la scienza dei filosofi, degli artisti e dei folli.»

«No.» Ezra scosse la testa, -un gesto rapido, sfuggente, quasi non ne fosse sicuro del tutto-. «Non sono trattati di scienza.»
Poi inspirò, il mento a sfiorare lo sterno, le scapole insicure nel loro incurvarsi.

«Non la scienza che conosciamo. Non quella che ci fanno studiare sui libri. La nostra mentalità sembra aver sorpassato certe cose, certe filosofie, ma la filosofia rimane per sempre. Non cessa mai di esistere.
Muta, come la materia, ma quella che oggi noi chiamiamo scienza non è altro, se non-»

«Alchimia.» Emeline serrò le labbra, e si portò appresso il bicchiere.
Non riusciva a decidere come sentirsi di fronte a una rivelazione di quel tipo: l'alchimia era stata smentita da secoli.
Nessuno credeva più alla pietra filosofale, all'ordine ermetico del Rosacroce e agli insegnamenti di Salomone: ciò che un tempo era stato legge allora erano diventate semplici storie passate, su cui scienziati come lei -e pensava come loro- scherzavano di fronte all'ingenuità di quelle credenze.
Trovarsi davanti alla possibilità di credere in quelle cose, di crederci davvero, la confondeva. Perché se il pensiero di affidarsi a ciò che non poteva essere definito scienza la allarmava, sapeva per certo che non sarebbe mai stata capace di rifiutare.
Improvvisamente si chiese come aveva potuto non interessarsi mai a cose del genere.
Come aveva permesso che tutta quella conoscenza, per quanto con il rischio che fosse falsa, le fosse sfuggita di mano per tutto quel tempo.
Suo padre non avrebbe mai approvato una disinteressata cecità del genere.

«I più grandi chimici sono stati alchimisti, e seppur siano poi diventato fedeli al metodo scientifico non hanno mai abbandonato il loro legame con l'esoterismo. Perché tutto questo? Se davvero non ci fossero legami tra scienza e alchimia, se quest'ultima non avesse un fondo di verità, perché Paracelso ha continuato a credere nell'alkaest anche quando ha scelto di centralizzare i suoi studi sulla medicina moderna? Perché Newton si affidò all'alchimia per ipotizzare le leggi regolatrici dell'Universo? Ragione e occulto -e attenzione, non giudicatemi eretico per questo termine- possono collaborare.
Serve solo spostare lo sguardo dalla linea retta delle credenze moderne, e voltarsi verso l'ammasso di dottrine dell'antichità.
A quel punto scoprirete che anche Aristotele, con i suoi quattro elementi regolatori e la quintessenza credeva nell'alchimia.
Così come Platone -ricordate il mito dell'androgino?- e Plotino. Plotino!
Lui ha descritto l'ascesa dell'alchimista, e noi lo studiamo collegato al solo Cristianesimo.
La filosofia, come la biologia, come la chimica devono tutto all'alchimia.»
Ezra espirò, senza fiato.
Il petto gli si alzava frenetico, come quello di una lucertola spaventata.
Guardò Julius ed Emeline; sembrò voler sorridere, ma l'ansia evidentemente gli impediva di riuscirci.

Emeline lo osservava, senza espressione.
Julius non gli aveva staccato gli occhi di dosso per tutto il discorso, ed era impossibile decifrare se ne fosse rimasto colpito o terrorizzato.

A quel punto sembrò essersi destato da quel suo sonno immobile, la cera che lo rendeva una statua distante a sciogliersi.
Drizzò la schiena, e puntò gli occhi verso i fogli. Non guardò Ezra, nemmeno per un istante, non prima che lui lo chiamasse per nome.
Allora gli rivolse contro uno sguardo vuoto e incredulo, lo specchio della sua mente in disperata attesa di processare ciò che aveva appena sentito.
«Non possiamo accettare qualcosa che si basa su dei dogmi.»
Calmo, troppo, bevve dal suo bicchiere.
Le labbra gli si tinsero appena di rosso, e lui continuò a parlare.
«La scienza necessita di osservazione e dimostrazione, non di semplice fede in qualcosa.»

«Per te questa sarebbe solo fede?» Ezra alzò il tono di poco, ma questo bastò a far contrarre i lineamenti dell'altro in una lieve espressione di fastidio.
«Qui non si tratta di fede. Non confondiamo religione e conoscenza. Qui si tratta di applicare la ragione, la ragione terrena, all'intellegibile.»

«La scienza non può basarsi su un dogma!»tuonò allora Julius, categorico, il suo tono più acuto e irato del solito, tanto quasi da non appartenergli; torvo e furioso come un giovane Nerone capriccioso, incrociò le gambe tra loro in un movimento nervoso e stette ad aspettare risposta.
Sembrava spaventato: più che dal discorso di Ezra in sé, dall'eventualità che alla fine potesse averlo influenzato, in qualche modo.

«Forse non è un dogma. Forse non si tratta di fede, d'accordo?» Emeline si alzò, oscurando Julius con l'ombra densa della sua figura.
«Hai detto che sono processi chimici, giusto?»

Ezra annuì, il respiro modellato dalla tensione.

«Allora io la considero ancora scienza. Processo è osservazione del mutare della realtà. È scienza.»

Dal modo in cui mordeva con durezza le pellicine dell'indice e inclinava il viso con disappunto, Julius sembrava essersi sentito tradito da quella dichiarazione.
Ezra, invece, parve sollevato.
Alzò un braccio e lo fece ricadere subito dopo, con stanchezza.
«Quello che sto cercando di dire.»

Emeline sbuffò un mh-hm pensieroso. «Possiamo anche decidere di seguire questa strada e di fidarci di te. Completamente.»Evidenziò quell'ultima parola con severità, quasi ci fosse l'intenzione nascosta d'infliggere un senso di resposabilità nel mittente.
Ezra sentì l'ombra di un brivido contrargli la bocca dello stomaco.

«Se ciò accadesse» continuò lei.
«Dobbiamo essere a conoscenza di ciò che ci aspetta. Te lo ripeto, Ezra. Non ce lo hai ancora detto. Cosa stiamo cercando?»

Le parole furono spesse e affilate come cuspidi di frecce, e colpirono tutti allo stesso modo.
In quel momento si resero conto con stupore di come nessuno avesse mai esplicitamente citato il vero fine ultimo delle loro ricerche; sì, c'erano le cellule ringiovanenti, gli antiossidanti, i sieri: ma quelli non erano altro che nomi dietro cui si nascondevano, si cullavano nella speranza e al contempo nel dispiacere di non poter svelare apertamente qual era il loro desiderio più recondito.
Si erano incontrati e da allora niente era stato lo stesso; com'era possibile che tre studenti come loro -intelligenti, ragionevoli e arroganti come loro- avessero deciso d'un tratto di riunirsi e di diventare l'uno parte della vita dell'altro per un semplice esperimento?
Non erano state le ricerche a spingere Emeline a farsi trovare nella vecchia aula in disuso, né le ricerche avevano contribuito a legarli l'uno all'altro come nastri di una treccia.
Era stato quel desiderio comune che non avevano mai espresso, ma che inconsciamente avevano colto conoscendosi: Julius che saltava le lezioni su Lucano in cui si parlava dei soldati morenti negli accampamenti romani, Emeline che non voleva togliere dalla voliera i canarini morti, ed Ezra, che sembrava avere un'avversione per qualsiasi canto dell'Inferno.
Avevano compreso.
Ciò che era stato lasciato non detto fino ad allora trovò la sua via di comunicazione in quel momento, quando si chiesero cosa stessero cercando.
Non era ovvio?
Dopo tutti quei giorni spesi a conoscersi, a notare le piccole cose, realizzarono quanto ciò che fino ad allora li aveva legati di più non era stato altro che il semplice, banale timor mortis.

La naturale paura della morte aveva radicato in loro le sue radici secche e ne aveva coltivato una pianta robusta e ossessiva, che in quegli animi giovani e suscettibili aveva trovato il nutrimento migliore che potesse desiderare. Ma anche l'ambizione aveva il suo fiore, ed era uno splendido bocciolo in attesa di aprirsi e mostrare come quella paura e come lo stesso arbusto della morte potessero essere debellati.

E forse ciò che serviva loro era proprio qualcosa di diverso dalla scienza, dalla ragione e da ciò che in generale ammetteva dei limiti: quelle colorate illustrazioni, quei simboli arcani, quei linguaggi indecifrabili e quelle promesse idilliache che gli si prospettavano davanti erano forse davvero ciò che cercavano: non ci potevano essere limiti in una conoscenza così ermetica, tanto misteriosa e che incitava a superarli, i limiti.
Un sapere diverso ed elitario, l'unico tipo di cultura che avrebbe mai potuto soddisfare la loro unica, vera ricerca.

«Stiamo cercando quello per cui ci siamo riuniti fin dall'inizio» fece Ezra, le parole a fluttuare nel silenzio del salone come quelle di una divinità.

«La vita eterna» confessò Emeline.
Il cibo davanti a loro era ormai freddo.

«O quello che più ci si avvicina.» Julius guardò entrambi.
Poi raccolse le posate e addentò un pezzo di carne.

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