Capitolo XXII- Ne verbum quidem

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Il sole batteva insistente contro le tende serrate e doveva già essere tarda mattina quando Emeline si svegliò.
Qualcuno l'aveva coperta con una trapunta di lana quando si era addormentata sul divano della sala; si passò una mano sulla guancia e ne scoprì, con una punta d'imbarazzo, i solchi lasciati dal cuscino.
Non provava la stessa sensazione da quando era più piccola e abitava ancora con i genitori.
C'erano state delle notti in cui si addormentava sulla sua scrivania, e il padre le copriva le spalle con una delle sue spesse coperte.
Quando si alzò a sedere si sentì allo stesso modo, scostando la trapunta e guardandosi intorno: tutto sembrò farsi meno leggero quando i ricordi presero a riaffiorare.
Potè constatare, con un forte senso di nausea, che l'ombra del sapore amaro dell'aconito le infestava ancora la lingua.
Ricordava poco di quello che era successo, ma vividamente aveva solo un unico ricordo: di essere uscita in veranda, in piena notte, e di aver vomitato.
Il resto erano sole sensazioni.
L'odore dell'erba vicina al viso, le risate e in seguito il silenzio di Ezra; e poi un frusciare continuo, martellante, un rumore che aveva già sentito, ma che sapeva fosse impossibile che potesse udire proprio allora, in quel momento. Si alzò in piedi, e con poca sorpresa si rese conto di non essere del tutto stabile; come d'estate, quando il caldo diventava troppo opprimente e la pressione le calava, allora si sentì sul punto di svenire.
Si risedette, e fu in quel momento che sentì dei rumori dalla cucina.

«Ezra»
Lo vide, seduto dall'altro capo del tavolo.Lui scivolò ancora più sulla sedia, mentre giocava con l'accendino.
Davanti a lui c'era un bicchiere vuoto e una bottiglia di scotch su cui Julius aveva scritto il suo nome.
«Dov'è Julius?» Emeline rimase dalla porta, ferma, appoggiandosi allo stipite.
Il lampadario, sopra di loro, era curiosamente acceso.

«Non ha funzionato.» Ezra riaccese la fiamma dell'accendino, poi la spense ancora una volta. Si sporse verso il bordo del tavolo, la camicia che gli si piegava lungo le spalle.
«Non è servito a nulla.»

«Non ricordo praticamente niente» disse Emeline, ed era la verità.
C'era solo un dettaglio.
«L'unica cosa sono...» poi si fermò. Forse l'aveva solo sognato, e voleva che fosse vero.

«Cosa?» domandò Ezra, appoggiando finalmente l'accendino davanti a lui.

«Un frusciare.»

«Come di foglie?»

«No, più di ali. Come se fossi davanti alla mia voliera.»

Ezra buttò fuori l'aria, lentamente.
«È strano» fece. «Ieri notte, per tutto il tempo, ero convinto fosse giorno. Vedevo la luce sbucare da dietro le tende delle finestre.»

«Cosa significa?» Emeline si versò da bere. Ezra sembrò non farci nemmeno caso.

«Non ne ho idea» ammise.
«Non capisco nemmeno se siamo vicini a ciò che cerchiamo. Di certo non ci siamo staccati dall'Io. E l'Uno è ancora troppo lontano.»

«Tu percepisci qualche cambiamento?»Emeline bevve il primo sorso, ma abbandonò subito il bicchiere, quando una nuova ondata di nausea le assalì la bocca dello stomaco.

«A parte la confusione mentale e il mal di testa, non credo.»

«Dov'è Julius?» chiese nuovamente Emeline, prima di lasciare che Ezra finisse il suo bicchiere. «Ci hai parlato?»

Lui scosse la testa. «Mi sono svegliato cinque minuti prima di te. Sinceramente non l'ho cercato.» Finché parlò guardò lo scotch, lo osservò mentre le ultime gocce roteavano sul fondo del bicchiere.
Poi alzò lo sguardo verso Emeline.
«Vai pure a vedere se è al piano di sopra.»

«Perché dovrebbe essere lì?»

Ezra scrollò le spalle, disinteressato.
«Perché quando ti sei addormentata siamo andati nel suo studio per annotare gli sviluppi. Almeno, ci abbiamo provato.»

«E non l'hai più controllato da allora?» Emeline si alzò, sentendo un'ondata di panico infrangersi nel petto.
«Non lo hai più visto?»

«No.»

«Cristo, Ezra» gridò, spaventata.
«Ci siamo avvelenati, potrebbe essere morto!»

Lui sbattè le ciglia una, due volte, il viso limpido e velato di stanchezza. Poi disse solo: «abbiamo avuto una discussione. È per questo che non ho controllato.»

Rimase a osservarlo, il tempo di capire che non avrebbe detto altro, ed Emeline scomparve dietro la porta.
Alle sue spalle Ezra si alzò, la sua sedia a stridere contro le assi del pavimento.

Salì le scale di palissandro, i volti dei Deerwood a osservarla dall'alto dei loro occhi scuri e torvi. «Julius?» chiamò, a mezza voce, temendo incosciamente di rompere quel denso silenzio.

Aprì la porta dello studio; Julius, come
un'ombra, stava sdraiato nel letto, il viso contro la parete.
Era ancora vestito, e le scarpe sporche di terriccio sfioravano le lenzuola accatastate alla fine del materasso.
Sembrava fosse fuggito da un sogno, così, perfettamente vestito e sporco d'erba; la camicia ancora candida e i pantaloni stropicciati, il corpetto che si muoveva sotto il peso di respiri lenti e regolari.
Emeline si appoggiò all'armadio, senza respiro; per un attimo una sequenza infernale si era fatta largo nella sua mente: le mani fredde e l'incolparsi a vicenda, la polizia che raggiungeva Blackcurrant e la sentenza di un tribunale vicino.
Ma Julius era vivo, ed era davanti a lei, il viso tranquillo e gli occhi che si muovevano contro le palpebre. Ezra arrivò poco dopo, senza fiato, i lineamenti mossi da una lieve tensione. «Visto?» disse. «Te l'avevo detto. È vivo. Anche se non si fosse mezzo avvelentato avrebbe comunque riposato fino a tardi, non c'è di cui preoccuparsi.»
Poi gli si avvicinò, un passo dopo l'altro, lentamente.

«Meglio se lo svegli» mormorò Emeline, e allora lui gli posò una mano sul torace.

«Julius, fa' vedere a Emeline che non sei morto» rise, ma Julius si limitò a far scorrere ancora una volta gli occhi, senza muoversi.
«Sta sognando?» chiese Ezra, ma Emeline gli si avvicinò, veloce, notando che i denti gli battevano, quasi impercettibilmente.

«Julius» fece, sfiorandogli la guancia. Sussultò, ritraendosi di scatto, per poi riavvicinarsi con foga, a tastargli il viso.

«Cosa?» fece Ezra.
«Cosa c'è?» chiese, il timbro flesso dal nervosismo.

«È bollente.» Emeline si appoggiò ai ginocchi, afferrando Julius per le spalle.
Poi gli toccò di nuovo il volto, premendo il palmo contro la sua fronte.
«Dio santo!» sibilò, frustrata, mentre quell'onda angosciante prometteva di tornare a sommergerle il torace.
«Dobbiamo fare qualcosa» disse, portandosi una mano alla bocca, mentre sentiva le labbra tremare.

Ezra rimaneva immobile, fermo davanti a Julius, fissando un punto indefinito della sua camicia.

«Ezra!» Emeline si voltò verso di lui, iraconda. «Perché non sei salito qui a controllarlo? Perché hai fatto finta di niente?»

Lui scosse la testa. Sembrava terrorizzato. «Non l'ho fatto apposta. Emeline, ti giuro.»

«Poteva essere morto. Potrebbe morire anche adesso

Lui negò ancora, chiudendo gli occhi.
«No, non è così. Ti giuro, davvero...»
Ma lei non gli lasciò tempo di finire la frase; tirò uno schiaffo talmente forte che il suo schiocco riecheggiò nel silenzio della stanza, riponendola di nuovo nel silenzio più assoluto. Ezra nascose la guancia dietro la mano destra, stringendone il polso con quella sinistra, tremante dallo spavento.
Sì ammutolì, stupefatto, gli occhi chiari serrati in uno sguardo di sgomento.

Non disse nulla per qualche secondo, poi Emeline sospirò, puntando lo sguardo al soffitto, quasi potesse ritrovarne all'interno la calma perduta.
«Non puoi permettere che un litigio ci metta a rischio tutti. Devi saper contenere i sentimenti, o non potrà mai funzionare nulla» esclamò; il suo tono era tornato fermo e incolore.
Si alzò, e stese la sua mano in aiuto di Ezra, che ancora stava seduto sul pavimento gelido, in silenzio.

«Portami del ghiaccio e dei panni» ordinò lei, prima di rivolgere un altro sguardo a Julius.
«E non avvertire nessuno. Neppure una parola

Erano ormai le tre del pomeriggio quando Julius si svegliò, e scosso dai brividi chiese cosa stesse succedendo.

«Un colpo di febbre» aveva risposto Emeline, per non farlo preoccupare troppo.
Lui aveva provato a sistemare il panno pieno di ghiaccio che gli gravava sulla fronte, lamentandone la pesantezza, ed Emeline lo aveva fatto per lui, metre gli bagnava i polsi d'alcol.
Era stato Ezra a suggerirlo, quando aveva avuto nuovamente il coraggio di parlare, e allora aveva detto che quando da piccolo soffriva d'influenza suo padre usava sempre degli impacchi d'alcol nelle zone sensibili come i polsi o il viso.

«Ci siamo riusciti? Con l'Uno e tutto il resto?» chiese all'improvviso Julius, a mezza voce, le onde scure dei suoi capelli che, scomposte, si erano riversate sul bianco del cuscino.

«No, temo di no. Non è il problema principale adesso, comunque.»
Aveva aspettato a sentigli di nuovo la febbre, forse per timore che l'avrebbe trovata ancora alta; ma Emeline scostò il panno pieno di ghiaccio dalla sua fronte, e venne sopraffatta da una paura affilata quando la trovò bollente esattamente come prima.

«Come va?» chiese Julius.
«Dimmelo, se sto morendo» poi provò a ridere.

«È scesa.» Emeline si alzò.
«Prova a riposare.»
Poi si chiuse la porta alle spalle.

«Mi servono degli antipiretici» sussurrò a Ezra, che stava seduto contro l'inferriata del torrione delle scale, con un libro vicino che sembrava non aver letto, delle lettere infilate tra le sue pagine.

«È ancora alta?» Lui scattò in piedi, le mani intrecciate tra loro come serpi.
La guardò, ma lei annuì soltanto.
«Dio, Emeline...» sputò lui, portandosi due dita alla radice del naso.
Diede dei colpi di tosse, così prese una sigaretta dalla tasca e l'accese.
Durante la mattina aveva avuto un serio attacco d'asma per lo stress, ed Emeline aveva creduto d'impazzire, non sapendo chi dei due soccorrere prima.

«Prima dobbiamo riempire la vasca da bagno d'acqua fredda. Deve abbassarsi la temperatura.» Ezra sbirciò dalla porta socchiusa, osservando la stanza di Julius. «Dobbiamo portarlo di sotto. Il bagno è al piano terra.»

«È a malapena cosciente» mormorò Emeline, preoccupata.

«Non mi interessa. Lo trascineremo, se necessario, ma prima di tutto deve stabilizzarsi la temperatura. E se per tutto questo tempo non è successo vuol dire che la situazione è più grave di quanto pensavamo.»
La voce gli tremava appena, come se non avesse parlato per troppo tempo, o avesse molto freddo; osservò Emeline di sfuggita, prima di aprire la porta.

«Vai a mettere l'acqua» le chiese, prima di rivolgersi a Julius.
«Sei sveglio?» domandò, e ricevette solo un breve mugolio stanco.

«Va bene» si disse Ezra.
«Stai per fare il bagno più freddo della tua vita. Sii emozionato.»

«Vuoi farmi morire di ipotermia?» lo interrogò lui, gli occhi chiusi, la bocca che si muoveva appena.
«Tanto vale lasciarmi morire così» ironizzò, prima di stringere un lamento tra i denti. Respirava a fatica, il collo imperlato di sudore che si irrigidiva e richiedeva aria, ormai spossato.

Ezra si voltò, proprio mentre Emeline risaliva le scale.

«Ezra» Julius lo chiamò.
«Mi dispiace, per ieri» poi si sistemò sul un lato, lentamente.
«Ma Emeline lo deve sapere.»

«Eccomi» lei entrò nella stanza, in tempo per osservare l'espressione di Ezra mutare radicalmente. «La vasca è pronta.»

Le era sembrata un'eternità, quando in realtà erano solo stati i soliti scalini di sempre, uno dopo l'altro, con la semplice aggiunta di metà del peso di Julius sulla sua spalla; l'avevano tenuto in due, Ezra a sorreggergli il braccio destro ed Emeline quello sinistro, ma per lei le scale che aveva percorso così tante volte sembravano allora centuplicate, un passo dopo l'altro, ponderato e malato di una lentezza esasperante, un viaggio speso tra i sussulti di Julius e le rassicurazioni dolci di Ezra.
Lui, più di tutti, sembrava decisamente teso; nei suoi occhi c'era un'appresione brillante, infuocata dal senso di colpa.

«Siamo quasi arrivati» sibilò a Julius, quando vide l'anta della porta del bagno spalancata alla fine del corridoio.

Rischiò di prendere una storta contro il dislivello del pavimento, ma Emeline si sporse in avanti e continuò a camminare fino a che non potè appoggiarsi finalmente al lavandino, ansimante.

«Lentamente» fece Ezra, quando notò che si stavano avvicinando troppo alla vasca. «Dobbiamo fare con calma, o lo shock potrebbe essere troppo forte.»

Julius, che aveva alternato stati di incoscienza e lucidità per tutto quel tempo, quando sentì il tocco dell'acqua gelida prese a ripetere un no dopo l'altro.
«No, no, no» scuoteva la testa, e bloccò il polso di Emeline con la presa debole della sua mano, quando lei provò a immergerla nell'acqua.

«Lascia stare» la rassicurò Ezra, guardando la vasca. «È caduto nel lago da piccolo. Gli sembrerà di essere tornato lì.»
E lasciò la presa sul torace di Julius, abbandondandolo nella morsa gelata dell'acqua.
Lui prese un respiro profondo, disperato, annaspando nella vasca alla ricerca dei bordi.

«Quanto deve restare in acqua?» Emeline si staccò dal bordo, allontandosi; la scena la turbava in una maniera sottile e insidiosa, priva d'emozione, eppure forte e viscerale. Aveva visto pochissime malattie nella sua vita, ed erano specialmente le sue, di quando era bambina e le sperimentava in prima persona: ma erano raffreddamenti, influenze, nella peggiore delle ipotesi, qualcosa a cui si potesse dare una confortevole e tranquillizzante soluzione.
Tuttavia in quel momento era radicalmente diverso, e quella non era una febbre di come ne aveva già viste; era forte, fortissima, riflettè, mentre osservava le guance di Julius tremare, i capelli di cui curava religiosamente l'ordine attaccarglisi alla fronte, umidi e annodati. Quello era l'effetto di un avvelenamento.
La sola parola la fece rabbrividire; se Julius fosse morto -non avrebbe nemmeno dovuto pensarci, ma era più forte di lei- i genitori avrebbero richiesto delle ulteriori diagnosi? E se così fosse stato, quanto poteva passare prima che i medici si accorgessero dell'avvelenamento da aconitina?

«Emeline» Ezra le stringeva il braccio. «Emeline, devi darmi una mano.»
Julius sembrava essersi calmato.
Forse aveva perso di nuovo coscienza, o forse si era semplicemente rassegnato.
La camicia le si era incollata alla pelle, sottile come un'ostia, e lui non si muoveva.
Ezra gli si avvicinò al collo, per sentire il battito. Sospirò. «È regolare.»
Poi gli passò una mano sulla fronte, ancora calda, ma non bollente.
A quel punto si accasciò contro il bordo della vasca, e iniziò a piangere: versò qualche lacrima imbarazzata, strofinandola subito via dagli occhi.
«Mi dispiace così tanto» esclamò, i bordi degli occhi ancora bagnati.
Per un attimo diede l'impressione di essere simile a come doveva essere da ragazzino: tutti le davano quest'impressione quando piangevano, pensò Emeline: che tornassero ad essere esattamente com'erano da bambini.
Il pianto era una delle poche cose che non cambiava con gli anni, ma sembrava rimanere sempre uguale.
«Emeline, mi dispiace così tanto.»
Ezra la guardò di sfuggita, prima di puntare di nuovo lo sguardo a terra.

Lei si appoggiò al muro, pensierosa.
«Ci riproveremo» disse soltanto.

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