Capitolo XXIII- Dura lex, sed lex

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Sentiva gli zoccoli battere contro l'erba marcia, affondarvici dentro e riuscirne subito con difficoltà, il nitrire isterico del cavallo a riempirgli le orecchie, l'abbaiare distante dei cani che rimbombava lungo i rami degli abeti; qualcuno l'aveva superato: un cavallo dal lucente pelo morello, che con un balzo aveva saltato il fosso davanti a lui.
Si guardò un'ultima volta alle spalle, e Julius capì di essere rimasto l'ultimo del gruppo. Sentiva la voce distante di suo padre provenire da oltre il muro di faggi, il suo tono che, severo, si fletteva in ordini secchi e violenti; l'urlare di Mida, che cercava di sovrastarlo, la voce femminile della sorella, che pregava di essere aspettata. Si fermò, in mezzo a quello che sembrava essere un cerchio delle streghe. Scendendo da cavallo aveva calpestato uno strano fungo dal colore ambrato; strinse il fucile tra le dita di una mano, poi Julius si allontanò dall'animale, controllando che non lo seguisse: lui lo guardò per qualche secondo, lo sguardo laterale e vitreo, un poco perplesso, prima di iniziare a brucare l'erba.
Era un Clydesdale poco intelligente, che non recepiva gli ordini e si fermava sempre bruscamente nel mezzo del tragitto; Julius si era slogato un polso quando l'aveva disarcionato perché infastidito da una vespa, e suo padre aveva promesso di sopprimerlo, a fine stagione. Lui aveva concordato di tenerlo solo fino all'inizio dell'estate, ma a volte, guardandolo, sentiva una tiepida morsa allo stomaco, come l'impellenza di buttare fuori il cuore, sputarlo e chiedergli di reagire a quell'ingiustizia di fronte a un essere che aveva avuto la sola condanna di non essere scaltro e ammaliante come lo era il cavallo del padre; un Akhal-Teke dal pelo d'un nero metallico, lucente e spaventoso, lo sguardo arido e le cosce slanciate e muscolose, che avanzava tra il verde della foresta come una grande macchia di pece ed era fedele al suo padrone al pari d'un demone invocato da un vecchio sciamano.

Julius si allontanò dalla via principale, raggiungendo una deviazione del percorso incolta e selvaggia, ricoperta di felci; il frinire delle cicale era assordante, ma paradossalmente meno inquieto delle grida e l'abbaiare di qualche momento prima.
Tra l'edera e gli steli della lavanda scorreva un piccolo torrente, l'acqua argillosa e il letto pieno di piccoli sassolini rilucenti, simili a pepite d'argento ossidato.
Si chinò, i fiocchi sfatti degli stivali che scontravano l'acqua, e Julius ne raccolse un po' tra le mani, versandosela in capo.
Seppur fosse aprile, nell'aria fluttuava già un tepore fastidioso, percepibile da sotto i pantaloni di feltro racchiusi negli stivali, la camicia chiusa fino a metà collo -come piaceva a sua madre- la giacca attillata al di sotto del torace, che gli premeva la vita in maniera quasi insopportabile.
Prese altra acqua, bevve, e ne prese ancora; la caccia del mattino non gli era mai piaciuta granché, sia per l'orario spropositatamente insostenibile, - davanti al bosco alle sei, sveglia alle cinque e un quarto-, sia perché si risolveva sempre allo stesso modo: tutti intontiti dal sonno tranne Mida e loro padre, che facevano tutto il lavoro.
Quel giorno sembrava diverso, o almeno lo era diventato da quando Mida si era fatto sfuggire il cervo che aveva già colpito di striscio, e che tutti stavano cercando per ogni ettaro del bosco, impossibilitati ad arrendersi.
Ezra, stanco, il fucile aperto sotto il braccio, si era proposto di badare ai cavalli, ma il signor Deerwood aveva insistito affinché partecipasse alla ricerca.

Julius prese altra acqua, le dita ormai insensibili al freddo, e la portò alle labbra. C'era qualcosa di sbagliato.
La risputò subito a terra, pulendosi la bocca col dorso della mano; un sapore amaro gli aveva inondato la lingua, sottile eppure abbastanza presente da rovinare il gusto neutrale dell'acqua. Si guardò la mano; laddove aveva scontrato le labbra c'era ora una striscia rossa, acquosa e sbiadita. Poi guardò il torrente.
Il cristallino dell'acqua si mischiava a un rosso vivo, una striatura cremisi che si espandeva come un lungo e denso filo.
Era uno scenario terribile, quasi biblico; la prima piaga d'Egitto, pensò Julius, ritraendosi e guardandosi intorno.
Poi lo vide: il cervo, fermo nell'erba, i bramiti rochi e il ventre che sfiorava la sponda del torrente, riversando il sangue nell'acqua. Raccolse il fucile, inserendo due colpi e chiudendo la canna con uno schiocco; gli andò vicino, gli stivali a scontrare i fili dell'erba, ma Julius non si mosse.
Il cervo lo osservava con occhi scuri e brillanti, lacrimosi, non spaventati quanto malinconici, come se desiderasse di essere in un altro posto. Il suo petto si alzava e si abbassava, frenetico e viscerale, annaspando in cerca d'aria. E allora, mentre lo scrutava da dietro il mirino, Julius capì che la sua non era una ferita superficiale come credeva Mida, e come credeva lui; ci aveva sperato, almeno tra un pensiero e l'altro, quasi vergognandosene, ma il colpo di Mida era stato come al solito troppo preciso, e l'aveva ferito proprio al centro del ventre.

Strinse ancora l'impugnatura del fucile, il suo legno liscio a scivolargli contro i palmi bagnati: teneva l'indice sul grilletto, fermo e sicuro, quindi perché non sparava? Il cervo emise un lamento, discreto e dignitoso, le corna sporche d'erba e di fango, la bocca aperta, da cui sbucava la lingua. Stava soffrendo, se ne rendeva conto, ma ancora non voleva sparare. Non ancora, si disse: sperava che sarebbe morto da solo, senza dover sentire il rumore violento del colpo, poi il silenzio e l'odore della polvere da sparo nelle narici.
Forse si sarebbe ancora potuto risolvere tutto con il semplice osservare, senza che dovesse davvero terminare tutto lui stesso.
Il cervo si spostò di qualche centimetro, alzando di poco lo zoccolo macchiato di foglie; forse poteva addirittura rialzarsi, e andare a morire da un'altra parte, dove Julius non lo avrebbe seguito; forse lo avrebbe ritrovato solo dopo, morto, appeso e sventrato insieme a tutti gli altri cervi nel mattatoio, non riconoscendolo nemmeno.
Ma udì il suono sordo di uno sparo; il cervo crollò a terra, quasi immediatamente, il peso della sua testa ad appiattire gli steli dei denti di leone, gli occhi con uno sguardo diverso da quello aristocratico di pochi attimi prima, vuoto e spaventosamente distante.
Il sangue gli arrivò al volto, uno zampillio umido e ferrigno sulla pelle, e Julius, le labbra dischiuse dallo spavento, chiuse gli occhi d'impulso. Quando li riaprii trovò Ezra, pallido e ombreggiato dal buio degli abeti, fermo dall'altra sponda del torrente; teneva il fucile stretto davanti al viso quando all'improvviso, mosso da un qualche ordine interiore, lo prese con una sola mano, aprendolo e riponendolo al braccio. Saltò dalla sponda opposta.
«Stava soffrendo» disse, placidamente. «Avremmo solo prolungato la sua agonia.»

Poi, di fronte al silenzio di Julius e al suo turbamento, prese un panno dalla tasca della giacca e iniziò a pulirgli la guancia dal sangue. «Certe cose è meglio anticiparle, Julius. Certe cose che non si posso evitare. Meglio andarci in contro, prima che diventino sempre più angoscianti.» Gli premette il panno al petto, e lui lo strinse tra le dita di una mano, lentamente.
In lontananza si udì il latrare dei bracchi.

«Che ore sono?» chiese per prima cosa Julius, una volta svegliato. Si era strofinato gli occhi, mettendosi a sedere sulla testata del letto, il grande cuscino di broccato ricamato di rose dietro la schiena, i polsini della camicia aperti.

«Le dieci e un quarto.» Gli rispose Emeline, seduta vicino a lui, un piccolo quaderno sulle ginocchia, la matita tra le mani.

«Abbiamo saltato lezione?»

«Temo di sì.»

«Ezra? Lui dov'è?»

Emeline gettò un breve sguardo sulla pagina aperta del quaderno.
«È andato a lezione. Aveva l'esame di Astronomia» tirò su col naso, brevemente, prima di aggiungere:
«Ho insistito io affinché andasse. Lui voleva rimanere qui.»

Julius prese la caraffa d'acqua riposta sul comodino, e si versò da bere.
«Quanto ho dormito?»

«Dalle quattro di ieri pomeriggio.»

«Stai scherzando?» fece lui.
«Com'è possibile che voi non abbiate avuto nemmeno un effetto e io sia stato così
Era davvero stato privo di coscienza per tutte quelle ore? Eppure allora si sentiva esausto, come se avesse riposato debolmente per qualche minuto: solo una cosa ricordava di quel lungo e confuso sonno, ed erano i sogni. Ne aveva vissuti moltissimi, tutti sfocati e farraginosi, un'accozzaglia di visioni e suoni e profumi che nemmeno sapeva ricollocare più nella realtà: lievi collane di perle, risa in lontananza, alloro che si muoveva al vento; lunghi drappi candidi e qualcosa di scintillante.

«Perché non hai vomitato» gli rispose Emeline, lapidaria, mentre tornava al suo bozzetto: uno studio di ciò che si vedeva dalla finestra, ovvero un tripudio di colline su colline, tutte tappezzate dal nero intenso del ribes.

«Non sapevo che disegnassi.» Si stirò, poi Julius raccolse debolmente le ginocchia intorno alle braccia, sbirciando oltre il quaderno. «Cos'è, matita?»

«Carboncino. Lo odio. Vorrei avere qui delle tempere.»

«Dove lo hai trovato?»

«Nel laboratorio.» Mentì, almeno per metà. Era stato Ezra a tirarlo fuori inconsapevolmente, mentre cercava con frenesia qualcosa tra i cassetti di Julius.
Lei lo aveva sorpreso nel farlo.
«Sto cercando le lettere di mio padre» aveva detto lui, e sembrava sincero.
«Sai, le ritira Julius dalla posta, ma temo che le legga prima di consegnarmele.»

Ciò l'aveva lasciata piuttosto perplessa.
Dalla posta? Si ricordava di aver pensato.
Il padre di Ezra gli inviava le lettere direttamente a Blackcurrant? E, se così fosse stato, come era potuto venire a conoscenza del fatto che il figlio passava la maggior parte dei fine settimana lì, senza che lui stesso glielo avesse mai riferito?

«Hai studiato Arte? Voglio dire, in quelle accademie costose che organizzano corsi per borghesi annoiati.» Julius si sporse ancora per guardare, e questa volta osservò la scura distesa di ribes più a lungo.

Emeline ridacchiò.
«No, è stato mio padre. A dirla tutta, lui odia quei corsi.»

«Quindi un'autodidatta.» Gli piaceva come tutto fosse sfumato, tranne qualche dettaglio piccolissimo: le colline erano masse amorfe, sfumate a mano, ma il ribes –Dio, com'era vivo!- era dettagliato e reale.

«Mi sembra che tutti lo siamo, qui» fece lei, abbozzando a un veloce sorriso.

«Già.» Julius chiuse gli occhi, le sopracciglia lievemente contratte, come se stesse ancora soffrendo di un sottile e pungente dolore.
«Mi piacerebbe conoscerlo, tuo padre» disse, a un certo punto.

Emeline fermò il tratto, voltandosi verso di lui. «E perché mai?»

Lui diede un'alzata di spalle, come a dire: non lo so, lo voglio e basta.
«È un uomo d'arte, che ti ha trasmesso dei bei valori. Può bastare?»

Emeline aveva annuito, ma sapeva che non era tutto. Per come conosceva Julius, aveva subito compreso quanto potessero affascinarlo le famiglie; ascoltava con genuino interesse ogni trafilo di discorso che riguardasse i genitori di Ezra, seppur lui non ne parlasse quasi mai, -affascinanti e rinomati medici di Concord, probabilmente ebrei, vista la piccola e polverosa menorah che Ezra teneva alla Cattedrale: tutto ciò che si sapeva sul loro conto- e stava sempre attento quando Emeline nominava suo padre: una specie di interessamento accademico, il suo, quasi fosse uno studioso d'antropologia in cerca di testimonianze per un sondaggio, o cercasse solamente di capire se tutte le famiglie fossero come la sua.

«Se mai verrà qui a Edimburgo, te lo presenterò.»
Da quanto non vedeva suo padre? All'inizio aveva oziosamente tenuto il conto dei giorni, ma dopo poco aveva iniziato a saltarne uno o due, fino a perdere la cognizione del tempo.
Lui gli scriveva sempre delle brevi e coincise lettere, specialmente a proposito dei suoi studi o della compravendita dei quadri, -"questo mese ho acquistato un Sisley, un bellissimo paesaggio nebbioso che spero di farti vedere presto" o anche "stamane ho incontrato il signor Waterhouse, e non mi aspettavo di trovarlo così simpatico; lavora a un dipinto la cui protagonista ti somiglia molto"- e lei gli rispondeva subito, inviando la posta dalla Royal Mile il prima possibile.
Lui si firmava sempre come "con stima, dal tuo paterno socio" e ciò la faceva immancabilmente sorridere: quello era il titolo che lei gli aveva affibbiato quando era più piccola.

«Sai, mi fai desiderare di essere bravo nella pittura. Se c'è un'arte in cui sono scarso è proprio quella» confessò Julius, dopo un lungo silenzio. «E il canto. Dio, terribile. Ah, e la scultura.»

«Anche la danza, suppongo» ironizzò Emeline, mentre voltava pagina e prendeva a tracciare le linee di una nuova scena.

«No, in quella sono piuttosto bravo» si difese lui, il sopracciglio alzato, un baluginio stanco negli occhi. «Se potessi dimostrartelo ora, lo farei.»

«Ora dimostrami che non sei morto, va bene così.» Il carboncino sfregava sulla carta, in un suono rigido e sordo; le dita scorrevano a sfumare in quel mare di pece.

Julius stese le labbra in un mezzo sorriso, sottile e pensieroso. Emeline lo vide svanire lentamente dal suo volto, un'onda che si ritirava, a lasciare solo la sua ombra scura sulla sabbia.
«Sapevi che il padre di Ezra ha studiato a Parigi?»

«Non ne avevo idea.»

«Già, nemmeno io. A la Sorbonne, come mio padre. Nessuno me ne aveva mai parlato. Ero del tutto convinto che avesse frequentato un college in America.»

«Quando lo hai scoperto?» Emeline gli rivolse una breve occhiata, fugace; per qualche motivo non voleva guardarlo dritto in viso, credette, convinta che se lo avesse fatto lui avrebbe smesso di raccontare.

«Oh, dalle lettere che il padre di Ezra gli inviava. Tra le varie cose incolpava la Vaas, dicedo che certe cose non sarebbero successe, se Ezra avesse seguito il suo consiglio di intraprendere gli stessi studi del suo vecchio padre.»
Poi si mise alla ricerca di una sigaretta, guardandosi intorno. Si sporse verso il secondo cassetto del comodino e ne tirò fuori un porta sigarette, che gettò sul letto.

«Hai letto le sue lettere?» chiese Emeline, il tono lievemente contraddetto, seduta sul bordo della sedia col carboncino a traballare tra le dita; Ezra aveva ragione, allora.

Julius sussurrò qualcosa, che si perse tra le sue labbra.
«Insomma, sì. È stato la sera dell'aconito. Ero stanco e desideravo solo gettarmi sul letto, mi sentivo già febbricitante, sai. Ma quando mi sono diretto verso la camera, ho notato che le luci nella stanza di Ezra erano accese.
Ero convinto che fosse ancora di sotto, o almeno l'ultima volta che mi ricordavo di averlo visto era proprio lì, in salotto, a ridere. Eppure lo trovai seduto al suo scrittoio, a scrivere qualcosa con tranquillità, -non potevo sapere che trovarsi me davanti, in quel momento, fosse la cosa peggiore che potesse capitargli-, così gli ho chiesto a chi stesse scrivendo, e lui si è voltato di scatto, spaventato, intimandomi di uscire. A quel punto mi sono avvicinato -scherzando, giuro! Eravamo tutti un po' su di giri, quella sera- e ho preso qualcuna delle lettere che teneva aperte sulla scrivania.»

Emeline, rimasta in ascolto, lo osservava senza il baluginare distante di un'emozione.
Ogni tanto si sistemava i capelli dietro l'orecchio, tirava su col naso o si sfiorava il collo; per il resto, sembrava fosse da un'altra parte, e al contempo attenta come una volpe.

«Stava scrivendo a suo padre. Hai presente tutte le lettere che gli vedevamo tra le mani, quelle che non osava mai aprire davanti a noi, e che a un certo punto buttava direttamente nel camino? Erano tutte sue. Gli ha sempre scritto per lo stesso motivo.» Aveva parlato con una foga, una gelida irritazione tale che era scontato continuasse a raccontare; eppure, davanti al fulcro della questione, Julius si era fermato. Era ovvio che la situazione lo avesse scosso, lo si notava dalla sua parlantina e dal modo che aveva di mangiarsi qualche parola, -tipico di quando era in ansia, o in allerta- e sembrava che ce l'avesse parecchio nei confronti di Ezra, quasi ciò che aveva fatto potesse essere qualcosa di simile a un tradimento, ed Emeline lo dovesse sapere per il suo bene.

«Quale motivo?» lei si raddrizzò sulla sedia, e, quando parlò, il suo tono sembrò quasi sbagliato, come se non le appartenesse affatto; non era calmo, per niente, era teso e incrinato, come se nella sua mente si stessero prospettando centinaia e centinaia di possibili scenari, tutti ugualmente terribili.
Cosa poteva avere a che fare con tutto ciò, il padre di Ezra? Per quale motivo quell'uomo quasi irreale, che Emeline aveva figurato come uno di quei concertisti nei numeri de la Comoedia Illustré che leggeva d'estate, col viso tetro e arrogante e il fare composto, voleva mettersi così insistentemente in contatto con quel figlio a cui scriveva solo per le festività?

«Quale motivo?» insistette di nuovo, di fronte alla quiete di Julius.

Lui gettò la testa contro il cuscino, espirando: nei suoi occhi si leggeva il dubbio. Sapeva che ciò che stava per fare era scorretto, almeno nei confronti di Ezra. Poteva percepirlo dal suo sguardo, dallo scorrere degli occhi da una parte all'altra della stanza, senza mai fermarsi, così Emeline gli si avvicinò, e stringendogli il polso disse:
«Se c'entriamo anche noi devi dirmelo, Julius. Capisci? Ezra è responsabile delle sue azioni, ma tu, sapendo ciò che è successo e tacendo, sei responsabile anche delle nostre.»

Lui non fece resistenza alla morsa fredda di Emeline, ma anzi la guardò in viso, per pochi secondi, prima di spostare lo sguardo al soffitto.
«I documenti che ci ha portato, hai presente, no?»

«Certo» soffiò lei, quasi frustrata.

«Ezra diceva che quell'uomo, quello che lo ha ospitato in Svezia, glieli avesse consegnati.
Ecco, non è vero. Per niente. Li ha rubati dalla sua biblioteca, strappati da un libro più grande. E ora quell'uomo gli da la caccia, dice di volerlo denunciare. Il padre... ecco, lui non ha rivelato dove Ezra si trovi fino ad adesso, -ha sempre fatto di tutto per limitare i danni creati dal figlio-, ma è comunque infuriato, e minaccia di dire a quell'uomo, quel botanico, che Ezra studia qui alla Vaas. Sai come si dice... dura lex, sed lex¹.»

Emeline allentò la presa sul polso di Julius. Calò un prolungato e teso silenzio, in cui entrambi si osservarono, senza guardarsi veramente.
Ezra, un ladro? Quello scenario le si affacciava davanti con una violenza sottile e sibillina, mentre Emeline rifletteva su quella nuova curiosa prospettiva.
Non era turbata, ma piuttosto sorpresa; Ezra, seppur avesse una certa sfrontatezza, un'arroganza giovane e vitale che gli rischiarava lo sguardo -quel tipo di superbia giovanile che suo padre avrebbe gioiosamente chiamato orgueil- non le era mai sembrato capace di qualcosa del genere.
Qualcosa che gli facesse valicare i limiti delle idee poco sensate della Vaas, delle stupidaggini da college, di quelle piccole ribellioni, di quelle azioni decisamente folli che, seppur tali, rimanevano sempre entro i confini dell'università; gli aveva visto prendere molte decisioni discutibili, -e delle quali spesso si era resa complice- ma era come se fossero fuori dal tempo e dagli altri, qualcosa di elitario e decisamente privato, di cui solo loro erano a conoscenza e di cui solo loro, se le cose non fossero andate come sperato, ci avrebbero rimesso.
Ma allora, davanti alla confessione di Julius, -gli sta dando la caccia, aveva detto-, si rese conto di quanto quel sottile valico fosse stato oltrepassato, di come gli altri ora c'entrassero più di quanto avesse sperato, e niente fosse più nascosto o segreto.
Una fuga dalla giustizia: era questo ciò in cui si era davvero trasformata la loro impresa?

«Cristo» Emeline soffiò via l'aria, sussurrando appena le parole.

Julius prese le sigarette, e gliene porse silenziosamente una.
Lei la prese tra la punta delle dita, e lui l'accese a entrambi.
Il fumo gli uscì in annoiate volute grigie dalle narici. «Già. Cristo

glossario

¹Dura lex, sed lex: la legge è dura, ma è legge.

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