Capitolo 17

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Il cellulare continuava a traballare tra le dita sottili di Carl, sul cui volto era gettata la luce bianca del display.

Le mani si rifiutavano di collaborare, così come ogni altro centimetro del suo corpo, che continuava a dimenarsi come fosse posseduto mentre la sua mente stava facendo uno sforzo madornale per cercare di restare lucida.

Si costrinse a sedersi sul letto ancora ordinato di Kate, portandosi con difficoltà il telefono all'orecchio. Dopo aver pigiato pochi tasti, quello continuò a squillare per una manciata di secondi, ma ogni frammento di tempo, ogni attimo di attesa significava altra angoscia e tensione, e questo pesava a Carl quanto un macigno.

- 911, qual è l'emergenza? - domandó una voce femminile dall'altro capo del telefono, calma e rilassata.

Il ragazzo si premette una mano sugli occhi, nel tentativo di bloccare la fuoriuscita delle lacrime che gli annacquavano le parole - L-la mia migliore amica è... scomparsa -

- Okay - proseguí tranquilla - Come ti chiami? E la tua amica? -

- Io sono Carl Ross, e lei si chiama Kate Milens-

- Sai darmi l'indirizzo, Carl? -

Il ragazzo farfugliò di attendere un attimo in linea, obbligando la sua mente a ricordare la strada - 308 Draper St, Albertville -

- D'accordo. Cerca di restare calmo, tra poco arriverà la polizia -

Nella stanza echeggió il classico avviso della chiamata terminata, che inizió a scandire i secondi con il suo ritmico "tuu - tuu - tuu" carico di tensione, finchè Carl non pigió il tasto sul lato del cellulare, per spegnerlo del tutto, rimanendo a fissare il vuoto.
Neanche mezz'ora dopo sentí il campanello trillare.

I lampi rossastri e azzurrati delle sirene poste sui tettucci delle auto degli agenti inondavano le camere di una luce intermittente e di un'involontaria angoscia: Carl aspettava il loro arrivo sotto il porticato della casa, stringendosi nella stessa felpa che poche ore prima gli aveva prestato Kate e che conservava ancora il calore del suo sorriso.

I poliziotti uscirono dalla macchina, sbattendo lo sportello con un gesto immediato, e corsero verso le scalette della casa.

La luce gialla e sfarfallante del lampione illuminó le sagome dei due uomini: uno era alto e allampanato, con i capelli rossi a spazzola e un naso aquilino, mentre l'altro aveva un viso paffuto: certamente, sotto la serietà e la concentrazione dovute alla situazione che gli indurivano i tratti, si celava un'espressione simpatica e allegra. Non appena i suoi occhi incrociarono quelli terrorizzati e spaesati di Carl, si rabbuió.

- Carl? - esclamó, incredulo - Hai chiamato tu?-

- Signor Vinson...- mormoró - Non sapevo che... -

Il padre di Peter avanzó a grandi falcate verso il ragazzo, per poi battergli una mano sulla schiena e attirarlo a sè in un breve ma confortante abbraccio.

- La ritroveremo, te lo prometto. Ve lo prometto -

Dopo un'attenta perlustrazione della casa, rivelatasi del tutto infruttuosa, colui che in servizio preferiva essere chiamato l'agente Vinson e il suo collega Golby avevano guidato sotto quell'acquazzone violento e persistente fino alla stazione di polizia.

Il viaggio era stato silenzioso: gli occhi di Carl, traboccanti di terrore e confusione, parlavano, muti, al posto della bocca, e quelli dei due uomini erano abbastanza acuti da riuscire ad ascoltarli.

Il ragazzo non riusciva a capacitarsi di una sparizione così bizzarra, ma d'altra parte la vita di Kate si era lentamente tramutata in un incubo dal quale non era più riuscita a svegliarsi.

Era seduto in pizzo al sedile posteriore, con le pupille piantate sulla strada bagnata, come per cercare di scorgere il profilo dell'amica tra i pochi temerari che si aggiravano per un'Albertville taciturna e velata di ombrelli e mantelle.

Non appena Golby spense l'auto, si precipitarono verso la struttura, la cui insegna bluastra che recitava a caratteri cubitali "commissariato di polizia" saltava subito all'occhio nell'immobile notturno da metri e metri di distanza.
Era un edificio grande, che si sviluppava soprattutto in larghezza.

Le porte automatiche si divisero con un sibilo e permisero ai tre di entrare, che già si erano precipitati verso la spoglia stanza dell'ingresso, illuminata dalle sole lampade artificiali poste sul soffitto.

Le tapparelle coprivano quasi del tutto le ampie finestre, continuamente segnate da rivoli di pioggia scura.
Nella stanza il fastidioso silenzio era spezzato unicamente dal ronzio del depuratore d'acqua di un acquario - vuoto - sistemato su un tavolino accanto ad un distributore di bibite.

- Ragazzo - lo chiamó il roscio, allungandogli un bicchiere d'acqua - Stai tranquillo, ce ne capitano di casi come questi: siamo esperti in materia - ridacchió sommessamente, nel vano tentativo di smorzare la preoccupazione di Carl.

- Sua madre non sa che lei è sparita. È in viaggio - lo interruppe - Che casino - sussurró, abbandonando la testa verso le ginocchia e stringendo così forte le ciocche di capelli scuri tra le dita da farsi male - È tutta colpa mia...tutta colpa mia...-

Golby lo guardó, attonito. Non era bravo con le parole, nè tantomeno a consolare le persone: lui si limitava ad interrogarle.

- Vieni, Carl - Vinson apparve da una stanzetta schermata da veneziane bianche - Ti va di raccontarci cosa è successo? -

I colori pastello dell'alba facevano capolino tra le tendine del commissariato quando una manciata di persone, stordite e assonnate, varcarono la soglia dell'edificio immerso nella nebbiolina fresca e pungente del mattino.

Il ragazzo passó in rassegna i visi stravolti e confusi di tutti i presenti: Lauren, la cui bellezza naturale quel mattino non era accentuata nemmeno da un filo di trucco, e la madre Amelia, con la quale vantava un'incredibile somiglianza tradita solamente dal taglio di capelli, che lei portava poco oltre il mento. Poi c'erano i suoi genitori, Ellie e James, che non appena notó strinse in un abbraccio soffocante che parlava per la sua mente disorientata, e... Lidia, la madre di Kate.

Carl la guardó dietro un velo di lacrime che implorava perdono al posto delle sue labbra, serrate in una smorfia tremula.
Temeva che potesse esplodere in quell'esatto momento, iniziando a strillargli contro dando una voce concreta al silenzio che da troppi minuti stava opprimendo le sue orecchie.

Aveva paura che potesse incolparlo davanti a tutti della scomparsa di Kate, e non avrebbe nemmeno avuto torto.

Carl sapeva che cosa fosse successo, ma era consapevole che non tutti sarebbero stati disposti a credere a quella che sembrava una favola di paese atta a spaventare i bambini, specialmente una madre sola e sconvolta. La stessa madre che aveva permesso di rinchiudere la sua unica figlia in una clinica psichiatrica e che, sperava lui con tutto il cuore, se ne fosse pentita.

Mentre i suoi pensieri si accavallavano nella sua mente e lo torturavano, Lidia, che aveva un colorito spento e un viso incredibilmente stanco, lo attirò a sè per abbracciarlo.

- Non è stata colpa tua - mormoró, quasi avesse letto nella sua mente, tirando un lieve sorriso.

- La ritroveremo - disse Carl, con una punta di incertezza che ricordava una domanda.

La donna annuí - dobbiamo ritrovarla -

Le ore seguenti trascorsero lentamente in un unico blocco di ansia e tensione, scandite dal ticchettio dell'orologio sul muro.

I presenti nella sala d'attesa si erano scambiati poche parole, per lo più sostituite da gesti di conforto.

Lidia aveva gli occhi arrossati e stringeva fra le dita la foto di riconoscimento di Kate che i poliziotti le avevano chiesto: un sorriso dolce e sincero si allargava sul suo viso, di un pallore sano, incorniciato dai lucidi capelli corvini e dai brillanti occhi smeraldini.

Da quando il sole era sorto, non era passato un quarto d'ora senza che Golby e Vinson continuassero a lavorare al caso: avevano interrogato tutti i presenti chiedendo loro quando e se avessero visto Kate per l'ultima volta, e da lí a poco altri colleghi sarebbero tornati al 308 di Draper St in cerca del suo computer, del telefono, di un eventuale diario o qualsiasi cosa che potesse fornire un indizio.

- Almeno si stanno applicando - aveva commentato Amelia, sulla cui spalla era posata la testa di Lauren.

La figlia sospirò tristemente - È il loro lavoro...-

- Ma ci sono novità? - chiese Lidia, esausta, alzandosi dal divanetto - A che punto siete? -

L'agente Vinson la raggiunse, gettando le mani nelle tasche dei pantaloni.

-Stiamo facendo il possibile, signora. Alcuni colleghi analizzeranno presto il computer di Kate, ma ci vuole un po' di tempo. Deve cercare di essere paziente -

La donna fece per ribattere, andando subito contro alla gentile richiesta del poliziotto, ma Amelia la trattenne con un tocco delicato e un'occhiata che le implorava di controllarsi.

Appoggiato al davanzale della finestra che dava su una distesa verdeggiante, intanto, Carl si torturava l'orlo della felpa. I suoi occhi erano fissi sul parco oltre il vetro, e ogni tanto li assottigliava, perso in chissà quali fantasie. Più volte schiuse le labbra schioccando la lingua, come per donare una voce al turbine di pensieri che gli affollavano la mente, decidendo poi fosse meglio lasciarli muti.

Lauren lo guardó, perplessa.

- Credo di sapere dove si trova Kate - disse, infine.

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