Capitolo 1

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E no, non è la vita a toglierci le ali
Affidati alla cura dei ricordi e di chi ami tu
Lascia che sia il mestiere della vita e tu
Lascialo andare...

- Tiziano Ferro, Il mestiere della vita -





Prima...


Quando ero piccola pensavo che da grande sarei diventata una cantante. Una di quelle bravissime, tipo Elisa o Giorgia che piacevano tanto a mia madre. Ricordo che cantava sempre le loro canzoni, mentre cucinava o puliva casa nostra, ed io l'ascoltavo e intanto fingevo di fare i compiti seduta al tavolo in soggiorno, fantasticando sulla magica e remunerativa carriera che avrei avuto da grande. Sarei diventata famosa, avrei vinto Sanremo e qualcuno, magari una donna intenta a fare le pulizie domestiche, avrebbe cantato le mie canzoni.

Mia nonna diceva sempre che ci sarei riuscita, che la mia voce era la fine del mondo. Ed io le credevo, perché tutti lo sanno che nonna Anna non mente.

Cantante non sono diventata e forse è stato meglio così, perché il coraggio di cantare a Sanremo probabilmente non ce l'avrei mai avuto. Purtroppo però insieme a quel sogno ho visto sfumare anche il cospicuo stipendio che avrei sicuramente ricevuto, e questo no, non mi è andato proprio giù, perché ho la cattiva abitudine di nutrirmi per vivere e tutti sappiamo che no dinero no party.

Il problema è che dove sono nata io, un quartiere situato nella più estrema periferia romana, c'è ben poca scelta nel crearsi un futuro. Anzi, è già tanto se riesci ad averlo, un futuro. Le scuole ti buttano fuori per disperazione, e ti ritrovi con un diploma in mano che vale meno di un rotolo di carta igienica. Allora ti accontenti di un lavoro pulito, che ha uno stipendio misero, ma che almeno ti permette di non sporcarti le mani.

C'è chi però non si accontenta, perché sporco ci nasce, allora che importa se si compromette ulteriormente?

E quindi per le strade inizi a vedere tutti i tuoi amici, conoscenti, compagni di scuola, ragazzi con cui sei cresciuto, con cui ti scambiavi merendine e figurine a ricreazione, tutti ragazzi alla deriva. Spacciatori, ladri e chi più ne ha più ne metta, con la disperazione alle calcagna e un bagaglio di brutte decisioni sulla schiena.

Io sono una di quelle che con lo sporco ha poco a che fare, preferisco la fame. Per questo motivo sono diventata un po' di questo e un po' di quello. Baby sitter e cameriera.

"Si fa quel che si può", dice sempre mia nonna.

C'è a chi viene da ridere quando mi vede arrivare a stento a fine mese, mentre allo stesso tempo mia madre fa lunghi bagni in vasche piene di soldi, stile Zio Paperone. Metaforicamente parlando.

Se non altro però, io posso ancora guardarmi allo specchio.

Piove a dirotto da questa notte. Un autentico temporale in piena regola, di quelli con i lampi ad intermittenza ed i tuoni che fanno saltare la corrente per tutto il quartiere. Probabilmente vi sembrerò fuori di testa, ma succede ogni volta che devo vedermi con mia madre. Il cielo si dispera, quasi come se volesse compatirmi.

Voi non conoscete la mia genitrice, quindi non potete comprendermi. E' un incrocio tra Crudelia Demon e Ursula della Sirenetta. Più magra, però. Ma con più tentacoli.

Cammino svelta tra le pozzanghere di Roma, mentre le nuvole gonfie di pioggia scaricano sui miei poveri capelli ramati quintali d'acqua gelida. Ho prestato la mia auto a Lara - la mia migliore amica dai tempi delle pappette Plasmon e della Melevisione - visto che la sua è stata praticamente sequestrata dal suo ex ragazzo psicopatico, e di aspettare i mezzi pubblici in eterno ritardo proprio non se ne parla, quindi mi ritrovo a piedi.

Dovevo fare colazione con mia madre almeno quaranta minuti fa, ma stanotte avrò dormito sì e no tre ore, di conseguenza non mi sono svegliata in tempo.

Spero che se ne sia andata a lavoro, troppo stufa di aspettarmi.

Ci sono solo due chilometri a separare il mio umile trilocale di periferia con la villa gigante di mia madre, eppure ogni volta che percorro la strada per raggiungerla, mi sembra di camminare per ore. Vorrei non arrivare mai, ma alla fine arrivo sempre.

Ogni mercoledì, per una bruttissima tradizione di famiglia che voglio assolutamente abolire nel prossimo futuro, sono costretta ad incontrarmi con mia madre, la sua figliastra Dalila, vale a dire la splendida quanto stupida creatura che il suo nuovo marito ha avuto da un precedente matrimonio, e la mia sorellina Flavia, frutto dell'amore di mia madre e di quell'idiota che mi ritrovo come patrigno. Ci incontriamo nella maxi-villa in cui abitano tutti e quattro insieme in stile Mulino Bianco.

Sono costretta a sedermi sul loro divano immacolato, a mangiucchiare biscotti fatti in casa e focaccine appena sfornate da Pina, la cameriera ciociara, innaffiando il tutto con delle stranissime e costosissime miscele di tè cinesi che mi causano una dissenteria istantanea ogni sacrosanta volta, mentre mia madre mi fa sentire una completa fallita, elogiando per tutto il tempo i meravigliosi risultati universitari di Dalila.

L'unica ragione per cui continuo a presenziare a queste colazioni ridicole, naturalmente è la mia sorellina Flavia. E' l'unico momento in cui posso godermela un po', visto che mia madre non la lascia venire con me neanche sotto tortura.

Sicuramente ha paura che io possa portarla sulla cattiva strada.

Arrivo davanti al cancello della loro mega villa da snob e suono al citofono, agognando soltanto un luogo asciutto e un tetto sopra la testa per difendermi da questa maledetta pioggia.

<<Chi è?>> La voce incolore di mia madre mi raggiunge, facendomi storcere le labbra per il fastidio che mi provoca. Quasi più delle unghie sulla lavagna o delle posate che stridono sul piatto.

<<Sono io>>, le dico, sistemandomi la camicetta bianca che ho indosso. E' l'indumento meno scollato che possiedo. I miei vestiti sono sempre troppo volgari, secondo il giudizio perennemente critico di mia madre.

<<"Io" chi?>>, mi chiede lei, di rimando.

Chiudo gli occhi, cercando una calma che non mi appartiene. <<Viola.>> Stringo le dita, infilzandomi i palmi con le unghie dipinte di nero. <<Tua figlia.>>

Dopo una decina di secondi la serratura del cancello scatta, permettendomi di entrare nel lussosissimo giardino della tenuta Alfonsi. Credo che sia addirittura un reperto storico o roba del genere. I bisnonni di Giacomo, il marito di mia madre, erano dei conti o qualcosa di simile, e lui ha ereditato la loro abitazione cinque anni fa, quando i suoi genitori sono venuti a mancare.

Sorpasso l'enorme piscina olimpionica e proseguo dritta sul vialetto di mattoni. Mia madre se ne sta in piedi sotto al portico e mi osserva, mentre sorseggia un liquido verdognolo non bene identificato. Accanto a lei c'è Boris, il suo bassotto marrone, che non appena mi vede inizia ad abbaiarmi contro con la stessa violenza di un lupo. Deve averlo istruito lei.

Mia madre punta lo sguardo sull'orologio d'oro bianco che ha al polso. <<Sei in ritardo di quarantasei minuti. Credevo che ormai non venissi più.>>

<<Bè, ti avrei avvertita.>>

Lei scrolla le spalle ed entra in casa. <<Ormai noi abbiamo già fatto colazione, quindi se vuoi tornartene a casa, fai pure.>>

<<Vorrei vedere Flavia, già che sono qui.>> Faccio per sedermi sul divano bianco, ma mia madre mi fulmina con lo sguardo.

<<Non vorrai sederti sul sofà con quei pantaloni tutti bagnati, spero.>> Sospira, facendomi segno di sedermi su una delle sedie attorno al tavolo della sala da pranzo, rigorosamente protette con dei copricuscini impermeabili. <<Comunque la piccola non c'è, è già andata a scuola. Aveva il corso di pianoforte.>>

<<Oh, accidenti.>> Tiro fuori dalla borsa un pacchetto dorato. <<Le avevo portato un regalino.>>

<<Glielo darò quando torna.>>

<<Okay.>> Mi schiarisco la voce, cercando di sorridere. <<Come stanno gli altri?>>

<<Bè, Dalila è occupatissima con il tirocinio nell'azienda di suo padre. La vediamo pochissimo, povera cara.>> Sorride, piena d'orgoglio. <<E' sempre più convinta di aver fatto la scelta giusta, con la facoltà di economia. Giacomo invece viaggia spesso per lavoro ed è esausto, ma stiamo bene, ringraziando Dio.>>

<<Mi fa piacere.>>

<<Già.>> Mi osserva con quella sua arietta altezzosa, senza dire nient'altro. Non mi chiede mai come va la vita o il lavoro. Non le interessa nulla di me, ormai c'ho fatto l'abitudine. Non fa neanche più male. <<Sono passata a trovare la nonna, qualche giorno fa. E' proprio uguale a te. Non ha voluto vedermi, nonostante avessi annullato parecchi appuntamenti per andare da lei.>>

Annuisco, cercando di contenere il rancore che le sue parole mi hanno appena provocato. <<Lo sai benissimo perché non vuole vederti.>>

<<Per causa tua.>>

<<No, mamma, per causa tua vorrai dire.>> Scuoto la testa e la fisso, torva. <<Dovresti farti un esame di coscienza.>>

Mia madre mi osserva per un istante, stretta nel suo algido e costoso maglioncino di cachemire bianco, dopodiché si alza in piedi e mi porge la borsa che avevo abbandonato sul pavimento. <<E' tardi ed io ho delle commissioni da fare. Ci vediamo mercoledì prossimo. Cerca di arrivare puntuale, se vuoi salutare Flavia.>>

Annuisco, alzandomi in piedi e avvicinandomi alla porta. <<Io sto bene, comunque. Grazie per l'interessamento>>, le dico ironica, dopodiché esco all'esterno e me ne torno nel mio habitat caldo caldo, dove la terribile Strega dell'Ovest non può contaminare nulla con il suo veleno e la sua indifferenza.




Raggiungo la piazza del mio quartiere a piedi, di corsa. Quando corro respiro, non penso. E' come se superassi i problemi, lasciandoli indietro, ad ingurgitare polvere alzata dalle mie scarpe.

Passo davanti alla pasticceria di Gina, una delle migliori amiche di mia nonna nonché sua compagna storica di giocate a Briscola, e spero davvero con tutto il cuore che quest'ultima non se ne stia all'interno a darle una mano con i clienti, perché non voglio che mi veda in questo stato.

Gli incontri con mia madre mi lasciano sempre scossa e mia nonna imploderebbe, se lo sapesse.

Per fortuna non c'è, quindi rallento il passo e m'infilo nel parco laterale, quello dove giocavo sempre da bambina. Quello che adesso è diventato il nostro ritrovo. Erba incolta, altalene mezze scassate e bottiglie vuote di alcool ovunque.

Lui se ne sta seduto a gambe aperte sulla panchina di legno macchiata di scritte. C'è un odore di erba che mi fa girare la testa, neanche fossi io a fumare.

Nonostante l'odore chimico della canna, però, riesco ugualmente ad avvertire il profumo di sapone e borotalco che emana la sua pelle. Da quando l'ho sentito la prima volta, ben ventidue anni fa, non sono più riuscita a scrollarmelo di dosso. E lo so che è un pensiero banale, un clichè, roba da diabete, ma è pure la sacrosanta verità. Il suo profumo è la vita, per me.

Daniele De Santis è una mela marcia, una stella cadente, uno che di raccomandabile non ha neanche un'unghia della mano, ma è anche il mio migliore amico, l'unica persona con cui riesco a stare bene anche stando in silenzio. E' la persona che mi ha salvato il sedere ogni benedetta volta che sono stata in difficoltà. E' la prima faccia che mi viene in mente quando ho bisogno di sentirmi al sicuro. E lo amo, Dio se lo amo.

E come ogni amore impossibile che si rispetti, lui chiaramente non ne è al corrente. Mi prenderebbe in giro fino alla morte, se lo sapesse. E' che per lui equivalgo più ad un amico a cui raccontare tutte le sue avventure sessuali, anziché una ragazza con cui averne.

Ottuso com'è, sicuramente penserà che tra le gambe io abbia un pene.

Mi avvicino silenziosamente e con le dita gli sfioro la pelle del collo lasciata scoperta dalla maglietta che indossa. So che quello è il suo punto debole. So che rabbrividisce ogni maledetta volta che lo faccio. So anche che io sono l'unica persona che può farlo indisturbata, senza che lui mi prenda a botte o parolacce.

<<Ma porca puttana...>> S'interrompe non appena mi vede. <<Ah, sei tu.>>

<<Non si offre?>> Gli indico la canna che tiene in mano e sorrido. <<Dai, fammi fare un tiro.>>

<<Ma smettila, se tua nonna mi vede che ti passo l'erba mi ammazza.>>

<<Codardo.>> Lo spingo e m'imbroncio. <<Dai, Dan, passamela e smettila di fare il coglione.>>

Daniele fa come gli dico. Come sempre. Ha paura di mia nonna, ma ancor di più ha paura di me.
<<Che fine hai fatto stamattina? Sono passato al bar per fare colazione, ma non c'eri.>>

Sorrido e scuoto la testa. <<Guarda, neanche ci provo a fare un tiro. Questa roba fa schifo, visto che ti fa scordare persino le cose.>> Gli passo di nuovo lo spinello e mi appoggio con la schiena contro la panchina. <<Oggi è mercoledì. Sono andata da "colei che non deve essere nominata".>>

Daniele annuisce e ghigna. <<Giusto. La mammina ne ha combinata un'altra delle sue?>>

Sono tentata di dirgli che mi ha fatto sentire una merda come sempre, che sono stufa di vedere la sua indifferenza, che mi fa schifo persino avere il suo stesso sangue che mi scorre nelle vene e che certe volte vorrei buttarlo fuori, levarmelo dal corpo.

Invece sorrido e dico: <<No, anzi, oggi mi ha fatto usare persino il bagno per darmi un'asciugata. Un grande passo avanti.>>

<<Io devo capire perché ancora ci vai.>>

<<Per Flavia.>> Guardo l'ora dal display del cellulare di Daniele, poggiato sulla panchina accanto a noi. <<E' tardi, ho il turno al bar. Mi accompagni?>>

<<Tu che mi dai in cambio?>> Ammicca, mordendosi le labbra.

So che scherza, ma è comunque un pugno allo stomaco. Oppure lo svolazzare insistente delle farfalle, per chi non è cinico come me. <<Ti preparo i muffin al cioccolato.>>

<<Ci sto. E mi fai vedere il derby a casa tua.>> Daniele si alza in piedi e si stiracchia. <<Quello stronzo mi ha di nuovo buttato fuori di casa.>>

Daniele, se è possibile, ha una situazione famigliare persino peggiore della mia. Abita con sua sorella maggiore Giorgia, il marito di sua sorella (lo stronzo in questione) e la sua nipotina appena nata, a cui io faccio da baby sitter il sabato, mentre la madre è a lavoro.

Suo cognato Maurizio è un povero idiota ripulito, proprietario di un'impresa di termoidraulica, che non perde mai occasione di attaccare Daniele per la vita sconclusionata che conduce. Lui vorrebbe che Daniele si mettesse a lavorare per lui, cosa che chiaramente non sta né in cielo né in terra, visto l'odio che corre tra i due.

Sua sorella ci prova a difenderlo, ma finisce sempre a botte e ci vanno di mezzo un po' tutti, quindi Daniele preferisce sparire di casa e farlo sbollire.

M'infilo il casco che mi porge e lo guardo. <<Non lavori in palestra?>>

Lui monta in sella alla sua scintillante e preziosissima Ducati, ottenuta dopo anni di sacrifici e lavoretti qua e là, da un tipo che la vendeva usata ma in perfette condizioni. Un vero affare, insomma. <<No, mi sostituisce Luca. Devo staccare un po', altrimenti oggi ammazzo qualcuno.>>

Daniele ha rilevato la palestra all'angolo e l'ha rimessa a nuovo, insieme al prezioso aiuto di Luca, suo migliore amico e compagno di disavventure, di bevute, di risse e di ogni sorta di cazzate commesse. Con il tempo ha assunto anche del personale e ora lui si occupa delle lezioni di boxe.

Il suo sogno è stato sempre quello di fare della boxe il suo hobbie e il suo lavoro allo stesso tempo, magari diventando il nuovo Mike Tyson. Sì, insomma, senza la storia dell'orecchio e tutto il resto.

Ma come dicevo prima, da queste parti il futuro non è mai come te lo immagini.

Salgo sulla moto e avvolgo la vita di Daniele con le braccia, mentre lui sfreccia verso il Melograno, il bar in cui lavoro. Gli appoggio la testa sulla schiena e finalmente torno a respirare dopo una mattinata in apnea.

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