Capitolo 21. Lasciarsi andare al potere

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Quando Kelhatyel l'aveva scaraventato giù dalla scarpata, il cervello di Leonardo aveva smesso di funzionare. Volteggiava nel vuoto, osservando serio e in silenzio la parete rocciosa del fianco della montagna che si avvicinava sempre di più, ma senza riuscire a prendere alcun tipo di iniziativa; era come se si considerasse già morto e non volesse sprecare energie nel futile tentativo di salvarsi la vita; non voleva morire dibattendosi inutilmente come un pesce appena pescato. Una pensiero, però, gli si era fatto strada attraverso i neuroni: non era vero quello che raccontavano, che si ripercorrono i momenti della propria vita durante gli attimi prima di morire. Non si faceva proprio un cazzo, durante quegli ultimi respiri: ci si limitava a guardare l'inesorabile fine, passivi, neanche in grado di mettere in fila due pensieri di senso compiuto. Si muore nello stesso modo in cui si viene al mondo: inermi, inconsapevoli e con il fiato rotto, incapaci persino di piangere.

Quello che era successo durante la sua breve ma infinita caduta, quindi, fu un miracolo del tutto inspiegabile che sfuggì alla comprensione di Leonardo. Come mosse da un'inconsapevole volontà, forse un istinto innato all'autoconservazione che è insito in ogni essere vivente, le energie arcane erano defluite copiose all'esterno del suo corpo. Era come se la Trama stessa si fosse mossa per collegarsi alla sua volontà e scatenare una risposta al pericolo di morte certa che si stava avvicinando, sotto forma della dura e dissestata superficie di pietra che si faceva sempre più prossima. L'energia aveva iniziato a vorticare intorno alle inerti membra del ragazzo, prendendo la forma di rapidi mulinelli d'aria che si muovevano ad alta velocità e si espandevano, sferzando con forza il vuoto intorno a lui. Fu solo grazie a quegli inconsci meccanismi di autodifesa che era riuscito a sopravvivere alla caduta: la veemenza degli spostamenti d'aria compressa che gli circondavano il corpo avevano attutito l'inevitabile impatto contro il suolo. Attutito, ma non evitato.

Invece di sfracellarsi contro la pietra, Leonardo era atterrato di schiena contro un sasso e un'immediata stilettata di dolore gli aveva spezzato il fiato, e gli occhi gli si erano ricoperti da un nebuloso caleidoscopio di scintillanti stelline. Aveva poi iniziato a rotolare sgraziato lungo l'inclinazione della brulla scarpata, mentre rocce e arbusti gli laceravano la pelle scoperta del volto e delle mani. Il suo moto si era interrotto solo una volta raggiunta una macchia boscosa, quando il corpo gli era andato a sbattere contro il tronco di un albero; la vista appannata aveva ceduto definitivamente all'oscurità, il dolore in ogni centimetro del corpo così intenso che il mago aveva perso i sensi come meccanismo di protezione contro la sofferenza.

Quando aprì gli occhi, era calato il buio. La prima cosa che salutò il suo risveglio fu una fitta pulsante e costante alla caviglia sinistra; provò a prendere un respiro profondo, ma subito un ferro rovente gli trapassò la cassa toracica, svuotandogli il polmone e causandogli un grido strozzato di dolore. Ansimando, prese aria a brevi singulti e riuscì a regolarizzare la respirazione, evitando il dolore al torace; si spostò molto piano, togliendosi dalla scomposta posizione nella quale era svenuto e mettendosi seduto con la schiena contro il tronco dell'albero. Non era un medico, ma si prese comunque del tempo per controllare le condizioni del suo corpo: la caviglia pulsava, ma riusciva comunque a muoverla (piano e con conseguenti fitte dolorose), era probabile che fosse solo slogata e non rotta, come aveva temuto per un istante; il dolore alla parte destra del torace quando respirava doveva essere causato da una contusione alle costole e Leonardo si ritrovò a sperare che fosse soltanto una costola incrinata e non fratturata, o le sue speranze di uscire da quella situazione tutto intero si sarebbero ridotte drasticamente. Completavano il quadro i vestiti laceri, il palmo delle mani spellato e vari tagli e lividi sul volto, sulle braccia e sulle gambe, oltre che un evidente bernoccolo dolente sulla fronte.

Ma era ancora vivo. I ricordi di quegli attimi sul ciglio della scarpata gli rimanevano ben impressi nella mente, così come la sensazione della magia che prendeva possesso con prepotenza del suo corpo per innescare quell'inconscio meccanismo che gli aveva salvato la pelle. Per la prima volta dopo tanti anni, Leonardo ringraziò la Trama e l'insistenza di sua madre nell'imporgli lo studio della magia. Era molto da ipocriti cambiare idea solo dopo aver avuto salva la vita, ma i fatti erano innegabili: era vivo solo grazie al dono che aveva ricevuto da bambino. La magia non aveva salvato suo padre, ma aveva salvato lui, alla fine.

Sinceratosi del fatto di non star rischiando la vita, il giovane Archi si concentrò infine su questioni ben più urgenti: Kelhatyel doveva essere ancora vivo, il che significava che Michela e Charlotte erano in grave pericolo. Con un groppo alla gola, accentuato dalla sete, infilò la mano nella tasca della giacca ed estrasse il telefono. Il costoso Samsung non era stato fortunato come lui: il vetro dello schermo era finito in mille pezzi e il telaio metallico si era squarciato sul dorso, lasciando fuoriuscire alcuni componenti interni. Leonardo osservò costernato quel macabro spettacolo di violenza tecnologica e abbandonò i resti dello smartphone a terra, mentre la consapevolezza di quello che lo attendeva gli si faceva strada nel cervello. Per quanto il dolore fosse costante e fastidioso, si sarebbe dovuto alzare e sarebbe toccato a lui di persona avvisare le sue amiche del pericolo.

Agguantando un ramo più basso che sporgeva dal tronco, si issò dal freddo terriccio e si mise in piedi. Un iniziale capogiro rischiò di rimandarlo steso a terra nel giro di un instante, ma la mano ben stretta intorno alla ruvida corteccia gli risparmiò quella sorte. Così com'era accaduto una settimana prima, si accorse solo in quel momento di aver perso gli occhiali, dovevano essere volati chissà dove durante la caduta e avevano subito un destino simile a quello del telefono.

Zoppicando sulla caviglia, il mago si spostò di albero in albero, seguendo la pendenza del terreno che, sapeva, l'avrebbe condotto inesorabilmente verso la riva del lago. Il silenzio che lo accompagnava era rotto solo dal suo ansimare e dai pesanti tonfi dei passi che scavavano nel terriccio; attraverso i rami dei sempreverdi, il cielo stellato era appena visibile, ma la luce della luna sembrava non riuscire a fendere la cupola del bosco chiusa sulla sua testa e il buio che lo circondava era denso, e gli sembrava quasi di star camminando a fatica attraverso una coltre di petrolio.

Leonardo non aveva idea di che ore fossero, ma era sicuro che tutti i maghi dello Statuto si fossero già radunati in casa e che la riunione fosse ormai iniziata. Non erano solo Michela e Charlotte a essere in pericolo, tutti quanti stavano correndo un rischio enorme in quel momento; se davvero Kelhatyel lavorava per Cailean, il loro nemico era a conoscenza di tutti i loro piani e di tutte le loro mosse. Malgrado il fiato corto, il mago si costrinse ad accelerare la sua incerta marcia attraverso la boscaglia. Era rimasto svenuto a lungo e temeva che sarebbe stato troppo tardi per avvisare gli altri, ma doveva fare tutto il possibile. Era anche colpa sua se si trovavano in quella situazione del cazzo: avrebbe dovuto accorgersi molto prima che in Kelhatyel ci fosse qualcosa di sospetto. Invece era stato così concentrato a inseguire il passato che non aveva visto nulla oltre al mistero che circondava la morte di suo padre; era davvero così importante scoprire che quel suicidio aveva un senso? Beh, certo che lo era: aveva vissuto gli ultimi anni a tormentarsi nelle domande e nel ricordo; lo spettro del padre gli faceva visita in sogno ogni notte, turbandogli il sonno e anche la veglia... scoprire che tutto quello aveva un significato più ampio doveva essere la sua priorità! Per che cosa aveva sofferto tutto quel tempo, altrimenti? Eppure, per inseguire quel fantasma del passato, aveva ignorato il presente e aveva rischiato di morire, mettendo in pericolo anche chi gli stava intorno. Ma poteva essere ancora in tempo per rimediare.

La sua affannata marcia lo condusse verso il punto in cui la foresta si diradava; delle luci in lontananza iniziarono a rischiarare l'oscurità finché la distesa di tronchi e di arbusti che lo circondava non si interruppe bruscamente sul ciglio di una strada asfaltata, un modesto lampione a illuminarne la carreggiata. La via seguiva l'inclinazione del pendio e si piegava in un tornante qualche metro più a destra, proseguendo la discesa; anche con la vista offuscata, Leonardo notò le luci di alcune abitazioni in lontananza, segno che la meta non doveva essere troppo lontana. Si fermò a prendere alcune rapide boccate d'aria e, sforzandosi d'ignorare l'incessante dolore alla caviglia, riprese la marcia, seguendo il bordo dell'asfalto.

Non passò molto prima che la foresta lasciasse il posto ad alcune abitazioni, in lontananza la superficie del lago giaceva ferma e immota, come una buia macchia d'olio. Leonardo non fece fatica a riconoscere il luogo, anche senza occhiali: non era troppo distante da casa, forse avrebbe fatto in tempo! Accelerò il passo e trattenne un grugnito quando un'altra fitta di dolore gli percorse il fianco, ma non si fermò; avrebbe avuto tutto il tempo per leccarsi le ferite una volta sinceratosi della sorte di sua madre e degli altri maghi.

Si ritrovò a percorrere a piccoli e strascicati passi la strada che costeggiava la riva del lago e poche centinaia di metri lo separavano dalla villa. Con un misto di angoscia e felicità, allungò il passo, quasi correndo; l'assordante suono del suo respiro mozzato gli riempiva le orecchie. La corsa non durò a lungo, perché il corpo gli si congelò quando arrivò in vista della piazzola laterale dove avevano parcheggiato l'auto qualche giorno prima: la carreggiata in quel punto era occupata da alcune auto nere, ferme esattamente davanti all'ingresso di casa.

«Cazzo,» sussurrò, lasciandosi cadere a terra più per stanchezza che per nascondersi agli occhi delle sagome umane che vedeva aggirarsi intorno al cancello.

Rimase accucciato in quel punto per un tempo indefinito. Vide gli uomini muoversi verso il lato della strada, poi ritornare verso le auto, seguiti da un nutrito drappello di persone. Con gli occhiali sarebbe stato molto più facile capire che cazzo stesse succedendo e, con un moto di stizza, Leonardo fu quasi sul punto di alzarsi e mettersi a correre in quella direzione, urlando e lanciando fuoco magico dalle mani. Quel piano suicida sarebbe potuto funzionare soltanto nella sua mente: azzoppato com'era, avrebbe fatto appena due passi prima di essere visto. Maledicendo ancora la sua miopia, Leonardo non riuscì a vedere i contorni delle persone che stavano entrando nelle auto; sembravano però un buon numero e, al contrario degli uomini che aveva visto prima, non erano vestiti di nero. Non ne poteva avere la certezza, ma fu facile ipotizzare quello che stava avvenendo: era arrivato tardi, e Cailean e i suoi uomini avevano preso di sorpresa le famiglie dello Statuto. Si chiese per un istante come fosse stato possibile catturare i maghi più potenti del paese senza che scatenassero l'apocalisse magica, ma ripensò a chi fosse il loro nemico e il sangue gli si gelò nelle vene. Lo sapevano, Charlotte era stata chiara: non era un avversario da sottovalutare, ma non avevano fatto altro per tutto il tempo, come degli idioti.

L'avviarsi dei motori ruppe il silenzio; nel giro di pochi attimi, le auto si erano mosse e avevano calcato l'asfalto nella direzione opposta a quella del mago, scomparendo alla sua vista ridotta. Attese qualche istante per essere sicuro che il rumore delle auto non stesse tornando indietro, poi si rimise in piedi e si lanciò in corsa verso l'ingresso di villa Archi. Si bloccò a metà strada con il cuore che gli pompava all'impazzata, quando un tremendo urlo di agonia si protrasse nell'oscurità, lungo e prolungato. Il dolore di cui quel raggelante suono era intriso lo travolse come un ariete d'assedio medievale. Ansimando più per l'ansia che per la fatica, ormai consapevole della crisi di panico che lo stava attanagliando, Leonardo tornò a correre come un pazzo verso il cancello, mentre quel grido disumano si mischiava nelle sue orecchie al rimbombare dei passi in corsa che si perdeva lungo la via.

In un baleno oltrepassò il cancello lasciato aperto e si lanciò giù dalle scalette di pietra per raggiungere il giardino; l'ultimo lamento che aveva sentito era vicino, ma si era rotto a metà, strozzato da un ultimo singulto, prima di morire nel silenzio della notte. Malgrado la miopia, il mago seppe subito quale fosse la fonte di quel raccapricciante suono: un balenare di luce e uno scoppiettare a lui molto famigliare provenivano dal tronco di uno degli alberi del giardino, a metà strada tra lui e l'ingresso della villa, silenziosa nonostante le luci accese all'interno.

Si fermò a pochi passi dal tronco a osservare orripilato lo spettacolo: Charlotte, con le membra abbandonate, come morta, stava sospesa dal terreno; una spada avvolta dalle fiamme che le attraversava il petto la teneva attaccata all'albero, come una puntina regge un foglio di carta su una bacheca di sughero. Le fiamme che si espandevano dalla lama le lambivano il corpo, emanando tutto intorno un olezzo dolciastro di carne putrefatta bruciata.

«Cazzo,» mormorò Leonardo, mentre un conato gli stritolava la gola. «Cazzo, cazzo...»

Gli girava la testa e gli mancava l'aria. Sentì un rigurgito salirgli su per l'esofago, ma chiuse la bocca e deglutì, rigettando il sapore acidulo e nauseante che si stava facendo strada attraverso la gola. Non poteva lasciarla così, doveva fare qualcosa. Era un vampiro, lei non moriva! Era ancora viva, ne era sicuro! Non poteva morire di nuovo, era già morta dopotutto, no? Era solo svenuta, doveva soltanto toglierle quella spada da... da dentro e sarebbe stata benissimo.

Chiuse la bocca e si avvicinò, il calore intenso emanato dalle fiamme scarlatte si infranse sulla pelle del volto. Alzò la mano e provò a serrare le dita sull'elsa dell'arma, ma la ritrasse subito, cacciando un urlo di agonia. Il metallo rovente gli aveva lasciato delle bruciature rossastre sui polpastrelli e, a contatto con le ferite aperte della caduta, avevano generato delle intense onde di dolore che si erano propagate in tutto il braccio, fino alla spalla.

«Cazzo!» urlò a denti stretti, crollando in ginocchio a terra, stringendosi la mano.

Era debole, troppo per salvare qualcuno. Era stato appena capace di salvare la vita a sé stesso, e non l'aveva neanche deciso lui! Se fosse dipeso dalla sua volontà, sarebbe finito spiaccicato contro quella cazzo di montagna. La magia aveva deciso per lui, salvandogli la vita, donandogli una seconda possibilità per... per fare cosa? Per vedere i suoi amici morire davanti agli occhi, piagnucolando come un cretino? Proprio come otto anni prima, entrando in quello studio: il corpo esanime di suo padre, riverso sulla scrivania, il sangue che colava oltre il bordo, sgocciolando a terra in un'ampia pozza... "papà," aveva piagnucolato, rimanendo immobile a fissarlo, senza fare nulla; "papà, cosa fai?", l'esigua voce rotta dal pianto aveva percorso lo studio, fermandosi, inutile, contro il corpo ancora caldo dell'uomo.

«Charlotte...» mormorò Leonardo, mentre una singola lacrima gli fendeva il volto sporco di terriccio e polvere.

Era sempre lo stesso ragazzino lamentoso di otto anni prima, debole allo stesso modo, patetico allo stesso modo. Poteva cambiare qualcosa, ma aveva preferito fuggire dal potere per paura di non essere in grado di dominarlo, per timore di venirne consumato... la paura aveva definito la sua vita fino a quel momento. Nessuno sarebbe venuto a salvarlo, nessun nuovo miracolo l'avrebbe aiutato a evitare una seconda morte alla vampira appesa a quell'albero. Poteva farlo soltanto lui, ne aveva i mezzi, ma la volontà... doveva trovare la volontà di lasciarsi andare al potere della magia.

Un sommesso ringhiò vibrò nella gola e il mago si alzò di nuovo in piedi, incerto sulle caviglie. Aveva raccolto in sé le ultime energie che aveva trovato e aveva sentito immediatamente la forza arcana pervadergli ogni millimetro del corpo martoriato, come una scarica di corrente, una sedia elettrica di piacere e potenza. La poteva vedere, lì intorno alla spada: non era fuoco magico a danzare sulla lama, ma era la Trama; alimentava quell'incantesimo di morte, alterando la realtà per costruire quelle fiamme micidiali. Le sue regole perverse gli erano chiare e riusciva a scorgere le sequenze della magia che si attorcigliavano l'una all'altra in quel falò, proprio come Neo poteva scrutare il codice dietro Matrix. Era un incantesimo complesso, quello che stava consumando la sua amica vampira, ma Leonardo sapeva di poterlo rompere perché, per la prima volta in molto tempo, lui era con la Trama e la Trama era con lui. Strinse gli occhi e l'incantesimo sulla spada tremolò per un istante, poi quel rogo ardente scomparì, come se non fosse mai esistito.

Protese le mani in avanti, le dita percorse da furiosi guizzi di elettricità statica che scintillavano e stridevano a contatto con l'aria; le chiuse entrambe intorno all'elsa e tirò, mentre una sottile patina di energia arcana gli ricopriva le dita per proteggergli la pelle dal calore di cui l'impugnatura era ancora pervasa.

Il suo urlo riempì il silenzio della notte e, come un moderno Artù, estrasse con uno scossone la spada, allontanandola dal corpo della vampira, che cadde esanime lungo il tronco dell'albero. Gettò a terra l'arma e si inginocchiò accanto al corpo della francese; il suo viso era ancora contratto in uno spasmo di agonia e la ferita aperta nel petto era una nera voragine carbonizzata, la maglietta che le copriva il corpo si era del tutto consumata e lasciava intravedere la pelle pallida del suo corpo morto. Era immobile e, a vederla così, sembrava a tutti gli effetti defunta. Pensiero stupido, dato che Charlotte era morta da quattrocento anni.

«Avanti, Charlotte, riprenditi!» disse il ragazzo, scuotendole le spalle. Era come maneggiare un manichino.

«Merda!» ringhiò Leonardo, guardandosi intorno affannato, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che lo potesse aiutare. Ma non c'era nulla, solo lui, la morta che reggeva in grembo e la spada abbandonata nell'erba a pochi passi di distanza.

Conosceva solo un modo per far stare meglio un vampiro, nella sua ristretta conoscenza del campo. Non sapeva se avrebbe funzionato, ma era l'unica possibilità che aveva. Inchiodò gli occhi sulla lama e, comandata solo dal pensiero, reattiva come non era mai stata, la magia dell'Archi condensò l'aria gelida intorno alla spada, raffreddando all'istante il metallo e, con un semplice cenno del capo, il ragazzo richiamò a sé l'arma, che volò nel nulla fino ad atterrargli tra le mani.

Appoggiò il taglio della lama sul polso e strattonò in basso, aprendosi una dolorosa ferita proprio sulle arterie visibili attraverso la pelle. Protese il braccio in avanti e lasciò che il sangue zampillasse fuori sul volto della francese, mentre stringeva l'altra mano intorno alle sue fredde gote, in un tentativo di aprire la mascella serrata. Alcune gocce cremisi caddero all'interno, altre scivolarono fuori dalle labbra grigie.

«Dai, Charlotte, cazzo!» mormorò l'Archi, avvicinando il polso ferito e sbattendolo con malagrazia all'interno delle labbra dischiuse della non morta.

Rimase così per qualche istante, fissando intensamente il volto immobile della vampira. Poi, quando stava per precipitare nella disperazione, le palpebre della francese si spalancarono, causandogli quasi un mancamento per lo spavento. Con un guizzo ferino, le mani di Charlotte si chiusero sul braccio del ragazzo, le unghie gli scavarono nella pelle mentre la non morta si aggrappava alla ferita sanguinante, iniziando a succhiare con insistenza, come un neonato alla sua prima poppata. La paura lasciò spazio al sollievo che, a sua volta, venne rimpiazzato dall'orrore, quando il mago si rese conto che gli occhi vitrei della donna sembravano ciechi al mondo esterno, ridotti a specchi rotti mentre la proprietaria continuava senza tregua a privarlo di linfa vitale.

«Charlotte...» sussurrò Leonardo, mentre una sensazione di gelo lo pervadeva. La testa iniziò a vorticare e ciò che lo circondava si fece sempre più nebuloso.

Ma il mostro che aveva riportato in vita parve non sentirlo e continuò a stringersi alla ferita, senza lasciare che neanche una goccia del denso liquido vermiglio le sfuggisse dalle bocca.

«Charlotte, basta!» urlò Leonardo. Con un ultimo briciolo di forze, alzò la mano destra e colpì con un violento schiaffo il volto dell'amica.

Il colpo mosse di lato la testa della vampira, i denti persero la presa sul braccio di Leonardo e alcune gocce di sangue le sprizzarono fuori dalle labbra. Rapido e intenzionato a non perdere quell'occasione, il ragazzo ritrasse la mano e si trascinò via dal corpo dell'amica, allontanandosi di qualche metro, mentre la sensazione di gelido terrore lo invadeva. La vampira lo avrebbe inseguito e avrebbe completato l'opera; non aveva risvegliato Charlotte, ma un mostro decerebrato schiavo dei suoi istinti.

Per fortuna quei timori rimasero per sempre inespressi. La francese si mise seduta, il corpo tremante e le braccia percorse da spasmi incontrollati. Si guardò intorno e appoggiò gli occhi dilatati su Leonardo: una scintilla di forza primordiale le attraversò lo sguardo, ma si spense subito quando un lieve sorriso si disegnò sulle labbra della donna. Poi rovesciò gli occhi all'indietro e ricadde nell'erba con un tonfo, immobile.

Con le palpebre spalancate e il fiatone, Leonardo rimase fermo per quasi un minuto, temendo che la bestia che aveva visto poco prima potesse alzarsi e assalirlo. Quando fu chiaro che la vampira non si sarebbe più mossa, il respiro iniziò a rallentare e l'adrenalina iniziò a disperdersi, rendendo il suo corpo lento, stanco e pesante.

Il mago si lasciò cadere nell'erba alta, tutti i rimasugli delle sue forze spesi per cingersi la ferita al polso per provare a bloccare il sanguinamento.

Aveva salvato la vita a una non morta, il peggio era di certo passato.

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