17.2

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Therar aveva stabilito che sarebbero partiti e, avvertito il generale, i due avrebbero lasciato il campo quella stessa mattina. La ragazza stava diventando un problema e, prima avrebbero risolto la questione dell'inusuale fame del demone, prima sarebbero potuti tornare ad aiutarli al fronte, senza recare alcun pericolo per nessuno.

Dazira non aveva ben capito dove Therar volesse portarla, esattamente. Ma, in fondo, non aveva una grande importanza.

I due stavano caricando i loro ultimi oggetti personali sui loro cavalli, quella mattina soleggiata di primavera quando qualcuno corse loro incontro, fermandosi a pochi metri dalle loro figure in borghese, coperte da un mantello lungo che terminava a pochi centimetri dai loro piedi e che li avrebbe protetti dal freddo e le intemperie durante il viaggio, se mai ne avessero avuto bisogno. Il ragazzo si appoggiò alle sue stesse ginocchia, piegandosi in avanti, in affanno.

«Ernik, cosa...»

«Ti devo parlare» la interruppe lui, rivolgendo un'occhiata fulminante in direzione di Therar, con l'implicito messaggio a levarsi di torno.

Il maestro della ragazza afferrò le briglie dei cavalli. «Ti aspetto con i cavalli alla fine del dislivello!» avvertì capendo al volo mentre portava gli occhi al cielo, manifestando tutto il suo fastidio nei confronti del comandante.

Dazira spostò il peso da una gamba all'altra, incrociando le braccia davanti al petto. «Cosa vuoi, Ernik?» chiese in tono seccato.

«Stai andando via?» mormorò sorpreso, in risposta, il ragazzo, con una smorfia nervosa che faceva presagire una collera repressa.

«Sì» rispose Dazira in tono di sfida. Davvero credeva di avere il diritto di avanzare pretese su di lei? «E "non mi devo giustificare con te"!» gli fece notare, pronunciando le esatte parole che lui aveva detto a lei, quel giorno nella cella. Il giorno in cui le aveva detto addio.

Il ragazzo sospirò e la fissò con i suoi occhi nocciola. «Lo so» ammise. La sua espressione sembrava ferita e il suo volto era l'emblema del senso di colpa. E lei, quel sentimento, lo conosceva bene.

La ragazza scacciò il pensiero dalla sua mente, ricordandosi di quanto scema e sola l'aveva fatta sentire. Il fatto che si sentisse in colpa era il minimo. «Vuoi dirmi cosa c'è?» gli chiese osservando la sua insicurezza.

Lui sembrò sul punto di esplodere, incerto su cosa rispondere. «Resta» le disse infine.

Le stava davvero chiedendo di restare? Per quale cavolo di motivo? «Non è una mia decisione» affermò lei sterilmente. «E, anche se lo fosse, non hai il diritto di chiedermi una cosa del genere!»

Tra i due scese il silenzio. Forse Ernik si aspettava che lei lo capisse, che lo accogliesse a braccia aperte, dopo gli ultimi giorni passati nell'accampamento. Dopo che lei aveva difeso Amila. Ma ciò non cambiava la sua considerazione nei suoi confronti, e il ragazzo stava iniziando a farsene una ragione.

«Mi dispiace» sussurrò Ernik mordendosi il labbro inferiore e portando lo guardo a terra. «Mi sono sentito un verme per averti abbandonata...»

Ma Dazira non lo lasciò proseguire. «Pensi di farmi tenerezza?» C'era poi una domanda che le affollava la mente: avrebbe chiesto il suo perdono se lei fosse rimasta rinchiusa in quella maledetta prigione?

«Ti chiedo di perdonarmi» concluse lui, senza rispondere al commento della ragazza.

«Non so se è possibile!»

Ernik annuì, rabbrividendo per la freddezza dei toni di quella che, un tempo, era stata la sua migliore amica. «Capisco».

Con rassegnazione, il ragazzo si voltò e fece per andarsene, ormai consapevole che aveva ottenuto solo ciò che negli ultimi anni aveva seminato.

Dazira si girò a sua volta, decisa a raggiungere Therar, ma, nello stesso momento in cui mise un piede avanti a sé, si rese conto che mai più avrebbe vissuto con i rimorsi per qualcosa che avrebbe potuto evitare. Che ci sarebbe stato ancora qualcosa in sospeso. Che non era pronta a tagliare i ponti con lui. Nonostante tutto.

«Ma» esclamò a voce alta, in modo tale che lui la potesse sentire «se mai succederà, sarai il primo a saperlo!» affermò guardandolo con intensità ed una vena di rabbia che ancora non l'aveva abbandonata.

Il voltò del ragazzo si aprì in un sorriso. «Grazie» le disse.

«Addio, Ernik». In quell'istante le tornò alla mente la stessa immagine, più di due anni prima, quando era stato lui a dirlo a lei. Ma respinse quel pensiero. Qualcosa le diceva che, in fondo, non era un addio, come non lo era stato quello di Ernik.

Il ragazzo inspirò profondamente mentre un piccolo pezzo del muro tra loro crollava a terra. «Fai buon viaggio!»

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