21 NELLA FORESTA

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Le fitte fronde degli alberi impedivano ai raggi del sole di scaldare il sottobosco, persino nelle ore più calde.

Dazira si strinse nella coperta infeltrita e logora mentre raccoglieva laboriosamente la legna da ardere per quella stessa sera e per il giorno dopo. A giudicare dall'umidità nell'aria, nell'arco di qualche ora sarebbe iniziato un acquazzone ed era meglio riuscire a raccattare e mettere al riparo quanta più legna secca possibile.

Da quattro giorni la ragazza dormiva slegata e, seppur sofferente, stava imparando a controllare l'istinto del demone.

«Stai migliorando» constatò Therar appoggiando sulla stuoia la carcassa fresca di una grossa lepre che risvegliò gli acuti sensi del Nero. «Presto sarà il momento di tornare al fronte».

Dazira si voltò verso di lui e sgranò gli occhi. Credeva davvero che avrebbe potuto affrontare tutto quel sangue ancora una volta se la sola vista della lepre e l'odore acre del suo sangue la facevano trasalire?

Eppure, Therar sembrava certo di ciò che stava dicendo. Come sempre. La fronte distesa, gli occhi scuri concentrati sul corpo dell'animale mentre lo afferrava nuovamente per scuoiarlo.

«Sei sicuro?» incalzò, infatti, la ragazza, riponendo i rami secchi sulla catasta e ponendosi proprio davanti a lui. Era alto, ma non quanto le era parso la prima volta che lo aveva incontrato. Negli ultimi tempi, Dazira aveva imparato a guardarlo come un compagno di avventura e parte della soggezione che lui le aveva provocato si era dissolta. Era un uomo riservato e quasi sempre vestito di nero, quasi a volersi nascondere, con un'arroganza fuori dal comune, ma dotato di un'intelligenza che lo elevava rispetto alla media.

Therar corrucciò le sopracciglia, mentre gli occhi gli si stringevano e la cicatrice che gli solcava il volto si faceva più evidente. «C'è qualcosa che mi devi dire che non so?» le domandò in tono neutro.

Dazira sospirò tesa. Come poteva dirgli che non aveva alcuna intenzione di tornare a combattere? Quelli erano gli ordini. E lui prendeva ordini, esattamente come lei.

«È come... se avessi sempre sete!» ammise la ragazza in tono preoccupato. «Un bisogno che non mi abbandona mai... più forte di prima!»

In risposta, Therar fece una smorfia di amara comprensione. «Forse non sparirà mai del tutto» dichiarò scuotendo la testa e facendo ondeggiare i capelli scuri non proprio cortissimi. «Ti stai disintossicando. E la morte è la tua droga! Più ci stai lontana, meno t'imbatterai nel rischio di cedere al demone!»

Quindi... anche lui riteneva che tornare a combattere fosse un rischio da non correre?

Dentro di sé, Dazira sentì montare un senso di sollievo. Non avrebbe più ucciso. Avrebbe potuto cercare la cura alla sua maledizione e avrebbe cambiato vita, provando a dimenticare. Per quanto possibile.

«Stai dicendo che devo evitare la battaglia?» chiese lei speranzosa.

Ma la risposta non fu ciò che lei sperava: «Limitati a mutilare, anziché uccidere».

«E se dovessi ricaderci?»

Non poteva farlo. Non ce l'avrebbe fatta, lo sentiva. E, forse, lo sapeva anche Therar... a giudicare dalla sua espressione incerta. Se ne stava seduto, con quella dannata lepre tra le mani mentre tirava il pelo dell'animale e parlava dell'argomento come se niente fosse. Ma Dazira aveva imparato a riconoscere quella finta indifferenza. Therar conosceva i rischi.

«Potrebbe capitare» considerò, infatti, il ragazzo, con una freddezza tale da farle accapponare la pelle.

Era chiaro: lei era qualcosa per cui erano disposti a sacrificare la vita di alcuni uomini. Era una vera e propria arma fisica e politica, un deterrente per i nemici di re Gohr. Se non si fosse più presentata in battaglia, la supremazia di Forterra sarebbe stata nuovamente in discussione.

Una forte ventata fece ondeggiare pericolosamente i teli dell'improvvisato giaciglio ove avevano trovato riparo mentre un brivido percorreva la schiena della ragazza che, minuto dopo minuto, stava prendendo consapevolezza della sua sorte.

Dazira si passò una mano tra i capelli, cercando di allontanare quella sensazione di reclusione che le toglieva il respiro. «Proverò questo tutta la vita?» domandò mentre la voce le si spezzava sull'orlo di una crisi di panico.

Ancora una volta, Therar non si voltò a guardarla mentre liberava la selvaggina dalla sua pelliccia, benché il suo silenzio fosse più che eloquente. «Dovrai usare la buona volontà e fare un po' di violenza su te stessa!» commentò con un altro strattone.

Buona volontà. Ergo, avrebbe dovuto soffrire una vita intera... ecco cosa le era costata la sua dannata curiosità di quella maledetta sera di quando aveva sedici anni!

Dazira sentì il corpo tremarle e la vista appannarle mentre si lasciava scivolare a terra, poggiandosi sulle sue ginocchia. «Io... non ce la faccio più ad essere quello che sono!» urlò disperata, preda dell'esaurimento nervoso. «Dobbiamo trovare una cura».

Con un ultimo strappo, Tharar liberò l'animale dal suo pelo e si sollevò in piedi. «Non esiste cura, Dazira!» sbottò in tono quasi spazientito. Quel ragazzo alternava momenti in cui sembrava in grado di leggerle dentro a momenti in cui pareva non capire nulla di lei.

«Che ne sai tu?» accusò la ragazza mentre le lacrime le affioravano sugli occhi e la rabbia si faceva strada nel suo petto.

«Lo so e basta» affermò lui mentre evadeva con lo sguardo in direzione della catasta di legna.

Divolo, quanto odiava quando Therar faceva il saccente! Per lui non era possibile contemplare un'idea diversa dalla sua. Avere una speranza. Per lui la vita era amara sofferenza e solo lui – a quanto appariva – sembrava in grado di comprenderla realmente. Ma non era così. Dazira non era stupida, nonostante il suo maestro si ostinasse a trattarla come tale.

«Lo sai e basta? Cosa sei? Una specie di oracolo?» La ragazza alzava i toni parola dopo parola.

Finalmente, lui si voltò a guardarla e, avvicinatosi a pochi centimetri dal suo volto, la fissò dritto negli occhi fulminandola minacciosamente. «Sono il tuo maestro!» le ricordò glaciale prima di voltarsi e allontanarsi di nuovo da lei mentre la ragazza si rendeva conto di aver trattenuto il respiro e riprendeva a ossigenare i polmoni.

Lei si sollevò nuovamente in piedi, scacciando lo sconforto. Non poteva averla vinta così. Con una minaccia silenziosa. «Sei un saccente presuntuoso insoddisfatto della vita, ecco cosa sei!» replicò Dazira sputando la frase con sdegno e parandoglisi davanti. «Hai venticinque anni e ti comporti come se fossi alla fine della tua esistenza! Come ti permetti di dirmi come devo vivere la mia vita? Proprio tu che sembri non sapere come apprezzarla! Tu che non credi in niente, vivi senza la speranza e senza amore per la vita e vieni a dire a me che devo essere come te!» Le sue parole erano un fiume in piena mentre Dazira dava voce a quei pensieri che sempre le avevano affollato la mente nei momenti di rabbia verso quell'individuo dai discutibili modi di procedere. «Ma che ne sai tu di quello che provo io? Tu non sei come me, per tua fortuna... ed io non sono te, grazie al cielo!» concluse lanciandogli un'ultima occhiata avvelenata prima che lui la sorpassasse senza nemmeno risponderle e si incamminasse verso il ruscello che i due avevano trovato a qualche centinaio di metri dalla capanna che avevano costruito.

«Forse lo so meglio di te, quello che sei» ribatté il ragazzo dopo qualche decina di metri, allontanandosi passo dopo passo.

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