Capitolo 14 - Vacanze di Natale (Parte 11)

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Daniel staccò la schiena dalla parete per sporgersi oltre il letto, fino a raggiungere il portatile appoggiato sulla sedia. Armeggiò un istante sul touchpad finché l'intensa musica dei titoli di coda cessò di colpo, facendo calare il silenzio nella stanza.

Un sonoro sbadiglio soppiantò la quiete. Si voltò in direzione di esso giusto in tempo per vedere Eve che si stiracchiava a bocca spalancata, con la chioma in subbuglio per la prolungata frizione contro il muro.
Ridacchiò e tornò a guardare lo schermo, puntando verso l'orologio nell'angolo in basso a destra. Segnava le ventitré e trentotto.
Il piano aveva funzionato esattamente come previsto.
«Giusto in tempo!» esordì soddisfatto.

«Giusto in tempo per cosa? Mettersi il pigiama?» La ragazza si diede uno slancio scomposto per alzarsi dal materasso inferiore del letto a castello e gli sfilò accanto sbadigliando e spettinandosi ancora di più i ricci crespi mentre si grattava la testa.

«Niente pigiama, Eve. Anzi, mettiti il maglione rosso.»

Si bloccò a un passo dalla porta del bagno e si voltò a guardarlo con aria interrogativa, «Perché?»

«Perché porta fortuna! E datti una mossa, che non abbiamo molto tempo.»

«Fortuna per? Dormire meglio e non fare incubi?» ribatté ingenua.

Daniel tirò fuori il proprio maglione natalizio dalla valigia, che dalla notte prima, quando erano tornati alla CIA, ancora non aveva finito di disfare.
Poi le scoccò un'occhiataccia, «Non fare la finta tonta. Non ti lascerò andare a dormire. Dai, mettiti il maglione sopra la tuta, infila le scarpe e via!»
Indossò la maglia di lana, ma quando sbucò dal collo, la ragazza era ancora lì immobile a fissarlo con sguardo assonnato, tutt'altro che convinta.
«Veloce, che tra venti minuti è capodanno!»

Lei sbuffò, incrociando le braccia al petto, «No, dai, Ray, te l'ho già detto che non voglio andare alla festa che fanno in mensa! Checcazzo, ho già fatto abbastanza public relations in Italia! E ho bisogno di dormire, devo ancora riprendermi dal jet-lag, è già tanto se ho accettato di guardare questo film. Sto crollando dal sonno.»

«Non ti ho mica chiesto di fare festa fino a domattina. Almeno il brindisi di mezzanotte! Se non ti sbrighi, ti infilo il maglione a forza e ti porto fuori di peso!»

«Sì, certo, provaci pur-»

«Anzi... se non vieni sto qui a parlarti tutta la notte e non ti lascio dormire! Sai benissimo che sono in grado di farlo. Non ti darò tregua nemmeno un istan-»

«Va bene, va bene...» Eve sollevò le mani sopra la testa, «mi arrendo!» Sbuffò e iniziò a frugare nella sua valigia buttata accanto all'armadio, «Ma che sia un brindisi e basta. A mezzanotte e un minuto me ne torno qui a dormire.»
Trovò il maglione malamente arrotolato su se stesso e lo indossò, poi si infilò in bagno.

«Resta pure quanto vuoi, basta che vieni!» le urlò contro, «E vedi di sbrigarti lì dentro... e non chiuderti a chiave, così se ci metti troppo non ho bisogno di sfondare la porta!»

Quando un paio di minuti dopo uscì, Daniel era già appoggiato allo stipite della porta spalancata della camera, mentre tamburellava nervoso con il piede e fissava l'orologio sul cellulare.

«Sono pronta-»

«Dai, fuori di qui! Che è tardissimo!»
Attese che la ragazza uscisse prima di fare lo stesso e si incamminò deciso lungo il corridoio, facendo attenzione che lei stesse al passo.

Solo quando entrarono in ascensore Eve si accorse del sacchetto di carta che lui reggeva in mano. Quando gli chiese informazioni a riguardo non ottenne risposta.

Appena le porte si aprirono, attese che il compagno uscisse dalla cabina, seguendolo a spalle basse, ma si bloccò dopo un paio di passi, appena si rese conto che stava andando nella direzione sbagliata, «Ehi, Ray, la mensa è di là.»

«Lo so. Vieni!» le rispose senza smettere di marciare, mentre continuava a tenere sotto controllo l'ora e a schivare i colleghi che procedevano in direzione opposta alla loro. Molti meno del solito, comunque. Tutti coloro che avevano potuto tornare a casa o celebrare il capodanno in altra maniera erano assenti; i pochi rimasti nel Centro erano coloro che provenivano da troppo lontano per riuscire a festeggiare in autonomia e poi essere lì al lavoro il due mattina.

In breve raggiunsero il Garden immerso nella semioscurità, rischiarata solo dalla luna che svettava nel cielo stellato oltre la grande vetrata, e dall'illuminazione a pavimento che li seguiva man mano che avanzavano lungo il vialetto in acciottolato. Le bolle di luce sparse tra la vegetazione, attivate dai sensori di movimento, tradivano la presenza di alcuni altri colleghi.

Seguì un Daniel stranamente silenzioso, finché non lo vide fermarsi davanti a una panchina e voltarsi sorridente verso di lei.
Solo in quel momento si rese conto di dove l'avesse condotta.
Sulla superficie del laghetto, le ombre delle foglie del salice si scontravano con i riflessi della luna. Le grosse carpe koi nuotavano placide al di sotto, facendo danzare luce e oscurità tra le increspature generate dai loro guizzi sul pelo dell'acqua.

Si ipnotizzò ad ammirare quello spettacolo. Per quante volte l'avesse già visto, non smetteva mai di incantarla.
Fu richiamata da un sussurro: «Dai, vieni a sederti, che manca poco.»

Raggiunse la panchina e prese posto accanto al giovane, che come di consueto seguiva ogni sua mossa con un enorme sorriso.
Ripiegò le gambe al petto e le strinse tra le braccia, fermandosi con il mento appoggiato alle ginocchia a guardare oltre l'immensa vetrata le lontane luci della città sfidare il cielo stellato.

Dopo pochi istanti, in mancanza di movimento, anche i cerchi luminosi che affiancavano il vialetto si spensero, rendendo il panorama ancora più suggestivo.

Non dissero nulla, godendosi il silenzio turbato solo dal lontano brusio degli altri presenti e dallo sporadico guizzo delle carpe, finché quelle flebili voci si trasformarono in un urlo ovattato dalle fronde degli alberi. Un'esplosione di rosso e oro tinse il cielo, seguita da altre in diversi punti della città, immensi fiori che sbocciavano tra i palazzi. Dopo qualche secondo, i tuoni smorzati dalle vetrate iniziarono, come una lieve sinfonia, a fare da sottofondo a quella primavera di variopinte luci.

Rimase incantata ad ammirare lo spettacolo pirotecnico, con un dolce sorriso sulle labbra e gli occhi colmi di quei bagliori. La mente sgombra da qualunque pensiero, mentre inseguiva le sottili scie che andavano verso l'alto per poi deflagrare in un tripudio di scintille dalle forme e colori sempre diversi.
Poi un'esplosione accanto a sé la scosse. Voltò allarmata la testa per individuarne la fonte, giusto in tempo per incrociare i sorridenti occhi di Daniel. 

«Spumante italiano! Roba seria, mica l'acqua sporca che hanno qui!»
Stringeva una bottiglia, che sollevò verso di lei in un cenno di complicità.
Con la mano libera estrasse dal sacchetto posato al suo fianco due bicchieri trasparenti in plastica dura impilati uno sull'altro.
«Mi spiace, non ho trovato calici, dobbiamo accontentarci dei bicchieri che ho fregato in mensa.»

Una volta versato il vino, ripose la bottiglia stringendola tra le cosce e sollevò il bicchiere verso la compagna, ammirando il suo viso tinto dei cangianti colori delle esplosioni.
«Beh, buon anno, Eve!»

Lei non poté fare altro che imitare il suo sorriso e fece scontrare i loro bicchieri, «Buon anno a te, Ray.»

Diedero il primo sorso guardandosi allegri, poi si voltarono entrambi ad ammirare il panorama, mentre i fuochi pirotecnici diventavano man mano sempre più radi.

Era già di nuovo capodanno.
Era già trascorso un altro anno senza mamma e papà. Un altro anno senza vendetta.

La mano libera si serrò sugli anelli.

Odiava i capodanni, così come gli anniversari e qualunque altra ricorrenza le facesse rendere conto del tempo che scorreva. Ogni giorno trascorso senza raggiungere il suo obiettivo era un giorno sprecato, era un giorno in più senza Massimo e Janet.
Un giorno in più da sola.

«Eve, smettila.»
Quella voce la raggiunse a malapena.
«Non so a cosa tu stia pensando, ma smettila, ti prego. Ti stai rattristendo.» 
Eppure lentamente riuscì ad aprirsi uno spiraglio nei suoi pensieri.
«È festa. Non voglio che tu sia triste.»
A dissipare la nebbia che le soffocava la mente.

Si voltò verso quel richiamo e incrociò due solari occhi blu e quel sorriso a cui non sapeva resistere. 

Non rispose.
Rimase immobile a specchiarsi in quell'incoraggiante sguardo, conscia che le sue stesse labbra si stessero incurvando. Non poteva farci niente, per quanto si impegnasse, non riusciva mai a impedirsi di restare contagiata da lui. Col tempo aveva smesso di provarci, tanto era inutile.

Puntò di nuovo gli occhi sulla vetrata.
Odiava quella ricorrenza, eppure, per il primo capodanno dopo moltissimo tempo, non sentiva quel macigno di solitudine che le opprimeva il petto.
Forse da sempre.
Suo padre diceva che la notte di San Silvestro era la migliore per svolgere il suo lavoro. Era facile mimetizzarsi in mezzo alla folla festante e celare gli spari tra le esplosioni pirotecniche.
Anche prima dell'attentato, erano stati pochi i capodanni che aveva trascorso con lui.

«Dai, bevi ancora un po', che ti rallegri!» Il giovane le avvicinò il collo della bottiglia al bicchiere che stringeva in mano, premuto contro le gambe ancora piegate a sé.

I pensieri si dissolsero, di nuovo spazzati via da quella voce.

Si voltò verso di lui con un sopracciglio alzato, «Stai forse cercando di farmi ubriacare, Ray?»

«Perché no? Potrebbe essere divertente.»
Danny ridacchiò e iniziò a versarle lo spumante, ma si fermò subito dopo con aria pensierosa, «Certo, dipende da come ti prende la sbornia... Io sono da sbronza allegra. I miei amici dicono che divento ancora più chiacchierone e faccio un sacco di cazzate divertenti... Mi sa che da ragazzi mi facevano ubriacare apposta...» Aggrottò la fronte sempre più perplesso, «Però se a te prende la sbronza cattiva e diventi ancora più violenta, ci sarebbe davvero da preoccuparsi.»
Scoppiò a ridere da solo, sotto lo sguardo accigliato della ragazza.
«Sappi che se ti prende male, col cazzo che cerco di fermarti. Per prima cosa mi butto dalla finestra e corro il più lontano possibile da qui... sai... per evitare l'onda d'urto dell'esplosione che avverrà appena farai saltare tutto in aria!»
A fatica riuscì a tornare serio, trafitto dagli occhi a fessura di lei.
«Non ti ho mai vista ubriaca. Allora, tu sei da sbronza allegra o cattiva?»

«Non lo so.» Eve si perse qualche secondo a riflettere, «Non sopporto l'idea di perdere il controllo del mio corpo e di ciò che mi accade intorno, quindi non sono mai arrivata a quel punto.»
Lo fissò con un ghigno di scherno, «Ma se tu da ubriaco diventi più coglione, allora è molto probabile che io diventi più psicopatica e letale!»

«Allora meglio non rischiare... Ridammi il bicchiere!» Fece per toglierglielo dalle mani, ma lei lo ritrasse.

«Ehi, questo è mio! L'hai detto tu che è ottimo spumante italiano, non me lo farò rubare. Poi non penserai mica che perda il controllo con due bicchieri di vino?»

«Meglio prevenir-»

«Piuttosto, metti giù la bottiglia! Non credere di potertela bere tutta tu! A malapena ti sopporto da sobrio. Se ti prende la sbronza logorroica sappi che dalla finestra ti ci butto io!»

«Ehi!»

Rimasero immobili a scrutarsi in cagnesco a un palmo di naso, poi scoppiarono all'unisono a ridere.

Eve batté il bicchiere contro quello del compagno e buttò giù in un sorso quel poco di liquido che vi aveva versato.
Appoggiò di nuovo il mento sulle ginocchia e si perse a guardare il panorama.
I fuochi erano ormai cessati, ma il cielo era ancora invaso dal loro fumo bianco, che si dissipava spinto dal vento. Proprio come era accaduto alla nebbia nella sua mente.

«Grazie per non avermi trascinata in mensa» sussurrò senza distogliere lo sguardo, «Mi piace qui.»

«Lo so.»

Si voltò verso Daniel e lo sorprese a fissarla, con un sorriso imbarazzato e una mano che si muoveva nervosa sulla nuca. Le stava agitando qualcosa davanti al viso.
Appena mise a fuoco il sottile pacchetto, emise un lieve mugugno quasi di rimprovero e arricciò le labbra.

«Lo so, Eve, avevamo detto niente regali di Natale... ma ora non è più Natale, no? E poi in realtà non è neanche un vero e proprio regalo.»

«In che senso?»

«Intanto aprilo, poi te lo spiego.»

Con un altro versetto di disapprovazione afferrò il dono e iniziò a liberarlo dal nastro dorato, per poi aprire con cura la carta rossa, facendo attenzione a non rovinarla.

Si ritrovò tra le mani un quadretto con una semplice cornice in legno.
Una luce improvvisa lo illuminò, abbagliandola.
Si volse d'istinto verso la fonte: il compagno stava tenendo la torcia del cellulare puntata sull'oggetto.
Abbassò di nuovo gli occhi sull'immagine protetta dal vetro: una fotografia della famiglia Hiwatari davanti all'albero di Natale.
Francis aveva passato un'eternità ad assicurare la macchina fotografica al cavalletto e a scegliere l'inquadratura perfetta per quell'autoscatto.
I due fratelli con i loro magnifici sorrisi e i maglioni identici erano seduti ai piedi dei genitori. Lì accanto, Eve sorrideva serena, accomodata a gambe incrociate al fianco di Daniel.

«Avevi detto che non abbiamo foto nostre, no? Beh, in questa ci siamo proprio tutti. Poi la appendiamo il camera. Quindi diciamo che è un regalo per entrambi.»
Si girò a guardare il viso solare del compagno illuminato dal riflesso della torcia.
«Allora, Eve, dimmi: come è andato questo Natale? Continui a odiarlo o sono riuscito a farti cambiare idea?»

Abbassò di nuovo gli occhi sul suo stesso sorriso nella foto.
Per tutta la vita si era sforzata di non sostituire la sua famiglia con nessun'altra. Avrebbe dovuto rinnegare quello scatto, odiare quella vacanza. O almeno questo era ciò di cui era convinta fino a qualche settimana prima.
Anni passati a tenere le distanze da cosa?
Quella era solo una fotografia. Era solo stata un'ospite lì.
Quella non era l'unica foto di gruppo che era stata scattata; in quelle prima lei non c'era, non aveva voluto intromettersi. Ray l'aveva quasi costretta a forza a prendervi parte, sostenuto da tutti gli altri.
Lei non faceva veramente parte di quella famiglia.
Il sorriso però era sincero, non poteva negarlo.

«Credo di sì, Ray.» Si voltò verso di lui, guardandolo negli occhi, «È stato sopportabile... Ok, piacevole, dai! Questa volta devo ammettere che hai proprio vinto tu.»

Danny sghignazzò vittorioso e portò in avanti il pugno, che la ragazza dopo un istante di perplessità batté con il proprio.
Rimase ancora qualche secondo a gongolare, poi si fece serio, «Oh, mi sono sempre dimenticato di chiederti cos'è che ti ha detto mamma l'altro giorno, quando ti ha preso da parte subito prima che partissimo.»

Eve fissò i suoi occhi curiosi, poi sfoderò un ghigno furbo, «Non credo di potertelo dire.»

«Come no? Dai, lo voglio sapere!»

«No!»

«Dai, sono il tuo Hiwatari preferito! Devi dirmelo!»

«Assolutamente no! Anzi, sai invece io cosa avevo quasi dimenticato, "secondo Hiwatari preferito"?»

La guardò perplesso, mentre lei tirava fuori il cellulare dalla tasca e apriva le note. Ne scorse qualcuna, finché non trovò ciò che cercava. Si schiarì la gola e iniziò a leggere con enfasi: «"Noi la chiamavamo Tigre e Pink Power Ranger", poi: "quella psicopatica era completamente schizzata"...» Sollevò lo sguardo per puntarlo su di lui, «Ti ricorda forse qualcosa?»

Il giovane deglutì, «D-dai, sai che stavo scherzando...»

«Poi non hai detto ai tuoi di non abbracciarmi, per non parlare del fatto che mi hai sguinzagliato contro Francis. Lui tra l'altro è ancora in debito di un paio di dita spezzate, eh... Poi c'è quello scherzetto con Andrea riguardo il fatto che volevo vedere i gondolieri al Colosseo... o alla torre di Pisa... non ricordo... Poi, sempre con quell'idiota-»

«Ok, ho capito, ho capito, non serve che mi elenchi tutto. Quindi, che intenzioni hai?»

Lei gli scoccò uno sguardo di sfida, «Secondo te?»

Sbuffò sconsolato, «Come immaginavo.»
Sollevò le spalle volgendo i palmi verso l'alto, «Beh, ma che sfiga! Ora non possiamo pareggiare i conti. Ci tocca rimandare il discorso a data da definirsi.» Scosse la testa con falso disappunto, «Dovremo farcene una ragione, peccato!»

«Tu dici?» asserì lei con un ghigno.

«Sì, io dico! La palestra di notte è chiusa e non possiamo di certo pestarci qui o in corridoio, sono le regole.»

Eve si tirò in piedi sussurrando fra sé: «Tu e le tue regole del cazzo.»
Avanzò un paio di passi e gli fece un cenno col capo, «Dai, vieni.»

Più per curiosità che per vero interesse, la seguì fuori dal Garden e poi lungo i corridoi semi deserti, in cui riecheggiavano le lontane voci festanti dei colleghi in mensa; finché non si fermò in un'ala in cui non era nemmeno certo di essere mai stato.
Puntò gli occhi sulla porta che lei fronteggiava e pareva quasi mimetizzarsi sulla parete grigio antracite.
«"Accesso consentito solo al personale di servizio"» lesse a voce alta il cartello su di essa.
Non fece in tempo a scoccare alla compagna un'occhiata di biasimo, che lei spiccò un salto per aggrapparsi con le dita alla cornice superiore dell'uscio e iniziò a tastarne la ridotta superficie, come alla ricerca di qualcosa.
«Eve, che fai?»

La ragazza rispose con un mugugno, troppo intenta ad armeggiare mentre faticava a tenersi appesa con solo la punta delle falangi di una mano.

«Vuoi che ti tengo?» Le avvicinò le dita al fianco, ma non fece in tempo a sfiorarla che lei saltò giù e atterrò ai suoi piedi flettendo le ginocchia per attutire l'urto.

«Uno: non mi toccare. Due: lo vedi quel sensore lì a lato? È la serratura elettronica della porta.»

Lui puntò il dito verso lo scatolotto nero, «Questo?»

 «Esatto, ma attento a non avvicinarci la mano dove hai il bracciale, altrimenti registrerà che hai provato a entrare... e John lo saprà.»

Daniel ritrasse subito il braccio, allarmato, «Potevi dirmelo prima, eh! E ringrazia che ho usato la destra! Sennò adesso sarebbe già aperta e io sarei nella merda!»

«I nostri bracciali elettronici non sono autorizzati ad aprirla, lasceresti solo traccia di un imbarazzante tentativo.»
Scosse il capo e cambiò discorso: «Ti sei mai chiesto come si apre una porta con serratura elettronica durante un blackout o un guasto?»

«A calci?»

«No, con la chiave!» Eve esibì tra pollice e indice un sottile oggettino di metallo dalla forma bizzarra.

Armeggiò un istante con una placchetta mimetizzata sulla maniglia argentata, finché riuscì a spostarla per rivelare una serratura, che subito dopo aprì con un lieve scatto.

«Ray, tienici un piede in mezzo, sennò si richiude.» Si appese di nuovo alla sommità della cornice e infilò la chiave nell'incavo nascosto in cui l'aveva trovata.

«Quindi tutte le porte hanno lì sopra la chiave di emergenza?»

«No, solo questa. Ce l'ho messa io.» Lo fissò furba, «L'ho rub-»

«Ok, ok, basta! Non voglio sapere come te la sei procurata né quali e quante regole stiamo infrangendo.»

Eve ridacchiò e accese la torcia del cellulare, per poi attraversare il passaggio.
Si ritrovarono in un corridoio dalle finiture grezze. Al contrario della zona da cui provenivano, il controsoffitto era assente e le lampade al neon spente pendevano tra un intrico di tubi e condotti dell'aerazione.

Daniel la seguiva guardandosi attorno a bocca aperta, anche se in realtà non c'era nulla di interessante da vedere, solo linee impiantistiche, scaffalature metalliche e carrelli per le pulizie; eppure tutto lì dentro appariva inaspettato e in contrasto con il rigore e la pulizia che era abituato a vedere "dall'altra parte". 

«Immagino avrai capito, Ray, che questa è la zona di servizio, un enorme vano tecnico, insomma. Tutti questi corridoi portano a una colonna centrale con dei montacarichi che collegano tutti i piani, fino ai magazzini interrati. È da qui che riforniscono ogni stanza: i mobili per le camere, i banchi per le aule, la cartigenica nei cessi, il cibo per la mensa...» Si fermò dinanzi a una grande porta doppia, alta forse tre metri. Le bastò spingere il maniglione per aprirla. «i macchinari e le attrezzature della palestra.»

Prima che si richiudesse alle loro spalle, infilò una piccola lamina di metallo nel battente, per fare in modo che rimanesse incastrato e non permettesse all'anta, seppur accostata all'altra, di bloccarsi.

Daniel scrutò stupito lo stanzone immerso nell'oscurità. Erano in palestra, nella parte più distante e nascosta dalle vetrate dell'ingresso. Nonostante tutte le altre volte che c'era stato, a malapena ricordava quell'immensa porta e il cartello di divieto che vi era affisso.
Seguì la luce emessa dal cellulare di Eve fino al pavimento in tatami su cui si distinguevano i diversi riquadri delle aree di combattimento per le arti marziali.
La ragazza dopo un paio di balzi riuscì ad azionare l'interruttore di una piccola lampada di emergenza fissata alla parete lì accanto, che inondò i dintorni di una debole luce appena sufficiente a vederci.

«Qui e nei corridoi dove eravamo prima non ci sono telecamere?» le chiese.

«Ovvio che sì.»

«Quindi siamo fottuti?» sibilò in tono accusatorio.

«Tranquillo, se non succede nulla di male, alla CIA non frega un cazzo di controllare i video di sorveglianza interni. Prima che arrivassi tu ci venivo spesso qui la notte e non se n'è mai accorto nessuno... finché non sono venuta a prenderti di nascosto all'aeroporto la tua prima volta.» Eve sbuffò digrignando i denti, «Secondo te come ho fatto a scoprire quando saresti arrivato e a infilarmi nella macchina, eh? Quel giorno John si è incazzato parecchio e indagando ha scoperto anche tutti i miei precedenti. Quindi da quando ci sei tu ho preferito abbassare il tiro e tenermi questa alternativa come bonus.»
Fece un ampio cenno della mano indicando il quadrato disegnato sul morbido tatami lì accanto, 
«Prego, Ray, dopo di te.»

«Credevo che fossi troppo stanca e devastata dal jet lag» asserì furbo. 

«Esatto.» Gli fece un sorrisetto, «Vedilo come un vantaggio per te. Il mio regalo di non-Natale.»

«Cavolo, ma che generosità... Peccato che anch'io sono stanco e-»

«Smettila di dire stronzate, ce l'hai scritto in faccia che non vedi l'ora di iniziare per approfittare di quest'occasione.»
Sfilò il maglione e lo buttò nell'angolo, poi si mise in posizione facendogli cenno con le dita di farsi avanti.

---

Non mentiva quando diceva di essere stanca; eppure si sforzava di mantenere il suo classico aplomb, a tentare di apparire rilassata anche se in realtà era distrutta.
Avrebbe potuto fregare qualunque altro avversario, ma lui non era un avversario qualunque. Daniel la conosceva bene.
Aveva notato fin dalle prime battute che i suoi movimenti erano più lenti, le reazioni meno pronte. Eve stava passando molto più tempo sulla difensiva, cercando di riprendere fiato costringendosi a non spalancare troppo la bocca nonostante il disperato bisogno di aria. Il jet lag l'aveva proprio messa K.O., non era abituata quanto lui a simili viaggi intercontinentali da dozzine di ore. Non che lui non fosse a corto di energie, certo, ma mai quanto lei.

Da ogni suo gesto trapelava la fatica, il corpo pareva urlare pietà; eppure aveva il sorriso sulle labbra e gli occhi rilucevano limpidi, come volessero che quella lotta durasse per sempre.
Si stava divertendo.
Serena e senza pensieri, probabilmente troppo stanca per riuscire a ricordare.
Era come se stesse celebrando a modo suo quella festività. E lo stava rendendo partecipe. Stava condividendo con lui quel suo gioco.
Il voler pareggiare i conti era stata solo una stupida scusa per attirarlo lì. Non c'era vendetta nei suoi attacchi, nemmeno violenza.

Gli sembrava di stare giocando con lei da un'eternità, contagiato dal suo folle entusiasmo. Avrebbe voluto poter continuare a farla divertire.
Per sempre.
Ma si stavano autodistruggendo.
I muscoli bruciavano, i polmoni imploravano ossigeno, il cervello era sempre più lento e offuscato. Stavano andando avanti per inerzia, ma quanto ancora sarebbero durati?

In un moto di lucidità riuscì ad afferrarla e la sollevò, ribaltandola all'indietro.
Eve non riuscì nemmeno a reagire, sentì solo il doloroso impatto della schiena sul tatami, che le tolse quel briciolo di fiato residuo.

Rimase sdraiata immobile con gli occhi chiusi e la bocca spalancata.
I suoi pesanti respiri si mescolarono a quelli del compagno, che risuonavano a solo un palmo dal suo orecchio destro.

«Mi dispiace, Eve...» Quel sussurro strozzato dall'affanno era così vicino da sembrarle un urlo, «ma non ce la faccio più.»

Ruotò la testa fino a farla ricadere in direzione della voce e incrociò due occhi blu incorniciati dal volto arrossato, sottosopra. Era schienato anche lui, in direzione opposta, i visi talmente vicini che a ogni respiro si scompigliavano i capelli a vicenda.

Gli rispose con un filo di voce: «Allora va bene così.»

Daniel rimase immobile a specchiarsi in quegli stanchi ma sorridenti occhi azzurri.
Senza nemmeno volerlo, lo sguardo salì fino alle rosee labbra schiuse che fremevano per prendere aria, illuminate da microscopiche gocce di sudore.
Non desiderava altro che baciarle e saggiarne il dolce e salato sapore.
Anche se avesse potuto, però, in quel momento non ne avrebbe avuta la forza.
Si costrinse a chiudere le palpebre.
«Dovremmo tornare in camera, ma ora non credo di riuscire ad arrivarci» sussurrò, sforzandosi di cancellare quel pensiero.

«Nemmeno io.» Eve rimase un istante a pensare, ma anche il cervello sembrava non rispondere, proprio come i muscoli, «Alle cinque aprono l'ingresso. Mancherà solo qualche ora.»
Sospirò, «Fanculo, riposiamo un po' qui, poi ce ne andiamo dall'uscita principale come niente fosse.»

«Ci sto.» Daniel cercò di sollevare il braccio per porgerle il pugno, ma abbandonò subito l'idea, facendolo ricadere con un fioco lamento.
Combatté contro se stesso per costringersi a non aprire gli occhi e tuffarsi di nuovo in quell'irresistibile azzurro.
«Buonanotte, Eve» sussurrò in un ultimo lungo respiro.

«Ray.» Sentì quel richiamo solleticargli la fronte.
Rispose con un flebile mugugno.
«Diana mi ha chiesto di badare a te... e di proteggerti.»

Schiuse le palpebre e incrociò il dolce sguardo di Eve, mentre quelle parole continuavano a rimbombargli nella testa.
Sentì le proprie labbra incurvarsi.
«Prevedibile» sussurrò, e senza nemmeno volerlo proruppe in una risata indebolita dalla stanchezza, sotto gli occhi perplessi di lei.

La madre gli aveva mosso la stessa richiesta: di prendersi cura della ragazza.
Come se avesse avuto bisogno di sentirselo dire.

Le era bastata solo una manciata di giorni per capire che, dei due, quello da proteggere era lui, ma quella da salvare era Eve.

E finisce così questa parentesi vacanziera, decisamente molto più lunga del previsto (con un capitolo molto più lungo del previsto😅). 

Finalmente si torna al lavoro e alle cose serie... ma non prima del consueto piccolo intermezzo bonus! (Sì, lo so che anche le vacanze di Natale dovevano essere un capitolo bonus, ma poi sono diventate un'intera saga... Vorrei dire che non è colpa mia, ma... infatti è colpa di Ray che ha costretto Eve ad andare in Italia! E di John, che si è pure beccato la bustarella in panettone e torrone!) XD

Arrivederci al prossimo capitolo... bonus! (Lo giuro, questa volta è solo uno!) ^w^




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