Capitolo 5 - Vacanze di Natale (Parte 2)

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L'auto rallentò davanti all'edificio di testa di una serie di graziose case a schiera. Appena il cancello si aprì, prese posto nel vialetto, costeggiato da un ordinato prato all'inglese che pareva circondare i tre lati del fabbricato a due piani.

Recuperate le valigie, seguirono Philip oltre i tre gradini che portavano al portico in legno. Dal centro della copertura di esso pendeva una lampada che rischiarava il buio del tardo pomeriggio.
L'uomo armeggiò un attimo con la porta e la aprì con tanta foga da far sussultare la ghirlanda natalizia che vi era attaccata.

Entrando in casa furono accolti da un inebriante profumo di arrosto e da un abete colmo di luci e decorazioni che svettava di fronte a loro nell'angolo dell'ampio soggiorno. Dalla porta vetrata scorrevole della cucina, proprio accanto a esso, provenne una squillante voce femminile.
Un istante dopo, una donna fece capolino dalla soglia e attraversò di corsa la stanza per gettarsi tra le braccia del figlio.

Eve osservò la bionda staccarsi da Daniel e girarsi verso di lei, per fissarla con i suoi gioviali occhi celesti.
Comprese al volo le sue intenzioni e fece un mezzo passo indietro, già temendo ciò che sarebbe successo.

Ok, sta volta però non mi fregano!

Portò avanti la mano destra per anticiparla, mettendola bene in vista, ma Diana la ignorò, per stringerla in un energico abbraccio.

Maledetti Hiwatari!

La donna per fortuna si staccò subito, ma solo per cercare di stamparle due baci sulle guance, che Eve riuscì abilmente a schivare all'ultimo istante facendo arretrare la testa in un disperato gesto istintivo.

Danny rimase in disparte, trattenendo a stento le risate. L'espressione della collega mentre la madre le faceva l'interrogatorio era impareggiabile: lo sguardo sconvolto e un sorriso tirato colmo di imbarazzo, mentre annuiva alla parole della donna con lievi e convulsi cenni del capo. Come poteva quella ragazza essere la stessa che mesi addietro lo aveva sequestrato e aveva tenuto in scacco per settimane un'intera centrale di Polizia? Nei suoi occhi, sempre sicuri e determinati, in quel momento leggeva solo panico e insicurezza.
Eve era tanto brava nel proprio lavoro, quanto era negata per gli spontanei rapporti umani.
Per un attimo ebbe l'impulso di filmare quella scena con il cellulare, John avrebbe pagato oro pur di vederla.

Diana aveva attaccato a parlarle come una mitraglietta, riempiendola di domande e complimenti. Non le dava nemmeno il tempo di rispondere, da tanto che era entusiasta per il fatto che l'amica di suo figlio fosse lì.
Stava dicendo che non le avrebbe mai permesso di passare il Natale da sola: «Se non avessi accettato, cara, saremmo venuti noi da te in America, portandoci dietro l'intero albero di Natale e pure l'arrosto!»

«Ehi, questa ha molto l'aria di una minaccia!» scherzò Eve con un sorrisetto imbarazzato.

«Ci puoi giurare, cara!» Aveva del carattere la donna. I suoi occhi, molto simili a quelli del figlio, anche se più chiari, esprimevano gioia e determinazione. La ragazza non dubitò nemmeno per un istante che l'avrebbero fatto veramente.
«Scusate, devo controllare l'arrosto. Intanto voi andate a mettere via le valigie, che la cena è quasi pronta!» Diana si voltò e trottò verso la cucina, con i capelli biondi a caschetto che le ondeggiavano sulle spalle.

Daniel sentì qualcosa sfiorargli le gambe e abbassò gli occhi.
«Ciao, Neko!» Portò la mano verso il gatto dalla lunga pelliccia arancione che gli si stava strusciando sulle caviglie, e gli grattò la testa.

Eve lo fissò incuriosita, «Neko?»

«Vuol dire "gatto" in giapponese.»

«Che fantasia...»

Philip si intromise nel discorso: «Avevamo preso in considerazione anche la versione tedesca, ma sai com'è... "Katze" non suona granché bene; quindi siamo stati costretti a optare per il giapponese!»

La ragazza fece una risatina e si accucciò a terra. «No, no, direi che Neko è perfetto.»
Protese la mano verso l'animale, che guardingo rimase qualche istante ad annusarle le dita, poi ci sfregò sopra le guance. Si avvicinò e le si strusciò sulle gambe, mentre lei gli accarezzava il morbido pelo fulvo dalla testa fino alla voluminosa coda.

«Allora noi andiamo su.» Daniel imboccò le scale, proprio accanto alla porta d'ingresso.

Eve fece per seguirlo, ma Phil fu più veloce: afferrò la sua valigia e iniziò a trascinarla verso il piano superiore, ignorando le obiezioni dell'ospite.
«Qualcuno dovrà pur farlo!»

Il figlio si voltò, attirato da quel tono volutamente polemico. Incrociò il suo sguardo d'accusa e scosse la testa con gli occhi al soffitto.
Scese qualche gradino per prendergli la valigia dalle mani. «Va bene, faccio io!» esordì con voce forzatamente seccata, e prese a salire portando i bagagli di entrambi.

La ragazza ridacchiò, seguendo i due al piano di sopra.

«Eve, per te abbiamo preparato la camera di Francis. Poi, quando lui arriverà, dormirà di là su una brandina insieme a Danny.»

---

«Non avete scelto dei nomi molto nostrani per i vostri figli» constatò Eve, seduta al tavolo della cucina, mentre ammirava lo splendido panettone artigianale ricoperto di glassa verde e pistacchi, che il padrone di casa stava tagliando per il dopocena.

«Beh, sai, cara, il fascino dello straniero-» asserì Diana mentre lanciava uno sguardo carico d'amore al marito mezzo giapponese e mezzo tedesco.

«Non volevamo dei semplici nomi italiani» la interruppe lui, «volevamo qualcosa che sottolineasse le loro origini multietniche, così che a primo impatto tutti gli avrebbero chiesto se fossero stranieri, e potessero sfoggiare con onore le loro origini.»
Le fece l'occhiolino.
«Sai che figurone ci fai a rispondere a una ragazza: "sì, sono mezzo giapponese... vuoi vedere la mia katana?"» Sollevò un angolo della bocca con fare ammiccante.

«Phil!» la moglie sbottò indignata e, mentre gli altri scoppiavano a ridere, si rivolse all'ospite che le sedeva di fronte, sulla panca addossata alla parete finestrata: «Non ascoltarlo, cara, a Phil piace scherzare, soprattutto dopo qualche bicchiere di vino. Non è vero, Philip?» Guardò torva il marito, che proprio come il secondogenito stava quasi piangendo dalle risate.

«Dai, Didi, è risaputo che un bicchiere di vino rosso a pasto fa solo che bene! Chiedilo a tuo figlio se non ci credi!»

Dopo la risposta dell'uomo, riferita a Francis che studiava medicina, Diana non poté fare altro che sciogliersi, rassicurata soprattutto dal fatto che anche la ragazza stesse ridendo insieme agli altri.

I tre Hiwatary ripresero senza sosta a chiacchierare, come avevano fatto durante tutta la cena.
Eve finì per estraniarsi, ignorando i loro discorsi perlopiù incentrati su persone di cui ignorava l'identità, per puntare tutta l'attenzione sul suo pezzo di panettone.
A testa china e con aria di estrema concentrazione, tolse col coltello la crema al pistacchio dal suo incavo, per poi spalmarla su tutta la fetta. Quando fu soddisfatta dell'uniformità del suo lavoro, poté finalmente iniziare a mangiarla, spezzettandola accuratamente in modo che ogni boccone contenesse la stessa quantità di crema, oltre ai frammenti della glassa verde che ricopriva una parte del bordo.

Nemmeno si accorse che Danny aveva smesso di parlare e la fissava ridacchiando, «Guarda che quel povero panettone devi mangiarlo, non vivisezionarlo!»

«Ray, fatti i cavoli tuoi! Sai benissimo che mi piace che ogni morso abbia lo stesso sapore completo. Sennò in un morso c'è solo crema e nell'altro niente!»

«Il morso con sola crema è il migliore! Per questo io mi mangio prima la parte con solo panettone, così poi posso godermi il pistacchio. Guarda e impara, Eve!» Diede un enorme morso alla sua fetta e iniziò a masticargliela in faccia.

«Cogl-» fece per rispondergli in malo modo, ma vista la presenza dei genitori si trattenne, limitandosi a trafiggerlo con un'occhiata colma di rancore.

La voce di Diana la distolse da quella silente minaccia: «Perché hai chiamato Danny in quello strano modo? Cosa significa "Ray"?»

Trasalì e si girò verso di lei con espressione di lieve imbarazzo. Non si era resa conto di averlo chiamato così, aveva sempre evitato di farlo davanti agli altri.

«Sì, Eve, spiega a tutti perché mi chiami Ray!» Daniel smise di masticare per guardarla con aria di sfida e le labbra sporche di crema incurvate in un sorrisetto strafottente.

Eve si voltò di scatto per rispondere al suo sguardo digrignando fugacemente i denti, avendo cura di celare con la mano la bocca dalla vista degli altri; poi cambiò subito espressione e sfoggiò un sorrisetto disinvolto, «Oh, è una sorta di nome in codice...»

«Certo...» sibilò torvo il giovane .

Lo ignorò e continuò imperterrita: «Beh, Diana, come ben saprai, tuo figlio e io ci siamo conosciuti quando lui ancora era in Polizia, durante le indagini sul "killer dei killer". Era stato chiesto alla CIA un aiuto e sono stata mandata io, perché conosco perfettamente l'italiano, oltre alle mie spiccate doti investigative.»

Non si lasciò distrarre dal sarcastico "seh" sussurrato da Danny, che la fissava con occhi a fessura.

«Ovviamente, vista la natura delle indagini, tutti dovevamo essere anonimi, quindi ci chiamavamo con nomi in codice, e per tuo figlio era stato scelto "Ray"... non so nemmeno per quale motivo... Ormai mi ero abituata a chiamarlo così e quindi ho continuato a farlo anche quando poi ci siamo ritrovati alla CIA.» Sfoderò il suo più convincente sorriso, «Tutto qui.»

Il compagno mimò l'ennesimo muto "seh".

«E invece qual era il tuo nome in codice?» la incalzò Philip.

Rimase interdetta, bloccando a mezz'aria la mano che reggeva un pezzetto di panettone. L'unica cosa che le veniva in mente era "killer", ma non era di certo il caso di dirlo.

«Tigre! Noi la chiamavamo "Tigre". Ma le sue doti investigative erano talmente spiccate, che dopo un po' abbiamo iniziato a chiamarla "Power Ranger"... "Pink Power Ranger"!»

L'intervento di Daniel la scosse. Dovette mordersi l'interno delle guance per impedirsi di insultarlo. «Sì, proprio così... ma non mi è mai piaciuto nessuno dei due!» Si lasciò sfuggire una risatina imbarazzata, poi si infilò in bocca il panettone, iniziando a masticarlo con violenza.

«Ma poi che fine ha fatto il "killer dei killer"? A un certo punto è sparito, no? Mi sembra che fosse proprio il periodo in cui eri stato sequestrato, vero, Danny?» chiese curioso l'uomo.

Per poco il boccone non le andò di traverso. Ingoiò a forza e improvvisò una risposta al volo: «Oh, lui è... scomparso nel nulla! Probabilmente deve aver percepito il fiato di Polizia e CIA sul collo e deve aver lasciato stare. Oppure dopo aver sterminato quell'ultimo clan si è messo il cuore in pace. Chi può dirlo?» Allargò le mani con i palmi distesi verso il soffitto e sollevò le spalle, sperando che il discorso su quel dannato periodo fosse chiuso.

Diana, però, poco dopo tornò alla carica: «E invece, quella donna che ti aveva sequestrato, tesoro? Hai poi saputo che fine ha fatto?»

La ragazza si irrigidì sulla panca con il bicchiere d'acqua stretto in mano fermo a mezz'aria.
Daniel percepì un'ondata di calore sferzargli le guance, ma rispose pronto: «Oh, quella psicopatica... l'hanno sicuramente rinchiusa in qualche manicomio!» Ridacchiò.

«Ma cosa dici? I manicomi non esistono più!»

«Sì, scherzavo, ma'! È rinchiusa in una prigione di massima sicurezza dove nel mentre cercano di rimetterle un po' a posto il cervello, perché era completamente schizzata!»

Eve gli lanciò uno sguardo carico di odio e lui in risposta le scoppiò a ridere in faccia.
Il solito maledetto coglione.

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Il respiro era affannato, le gambe pesanti. 
Rallentò la corsa fino a fermarsi, non aveva più energia.
Si piegò in avanti per riprendere fiato, le mani strette sulle ginocchia a sostenersi, ma ogni affannato inspiro era inutile: nonostante il vento gelido le sferzasse il volto imperlato di sudore, nemmeno un soffio d'aria pareva entrare attraverso la bocca spalancata.
Iniziò ad annaspare nel disperato bisogno di ossigeno; poi un rumore la paralizzò, come un tuffo nell'acqua fredda: uno schiocco sordo, seguito da un opprimente silenzio che le comprimeva i timpani.

Sollevò lo sguardo, ma non vide niente: davanti a lei c'era solo una sconfinata distesa di bianco.
Ovunque girasse la testa, non c'era nient'altro che quell'indistinto nulla a circondarla.

Gridò così forte da farsi bruciare il petto, ma nessun suono fuoriuscì dalle labbra.
Il panico si stava impossessando di ogni cellula del suo corpo. Quando tentò di prendere un profondo respiro per urlare di nuovo, quel candido nulla le saturò i polmoni, graffiandole la gola come carta vetrata.
Le mani si strinsero sul collo. Uno spasmo sferzò il petto, poi un altro, altri ancora. Per quanto fossero sempre più forti e dolorosi, non riuscivano a far uscire la densa nebbia fredda che le bloccava le vie aeree. A ogni colpo di tosse era come se quella le penetrasse ancora più a fondo nella carne, dolorosa come un pugnale ghiacciato.

Cadde in ginocchio, ma non incontrò il terreno. Le gambe affondarono in una palude di grigia cenere e fogli accartocciati che scricchiolavano a ogni convulso movimento dei suoi arti, mentre cercava di uscire da quelle sabbie mobili che la stavano rapidamente inghiottendo.
Ogni spasmodico tentativo non faceva altro che farla affondare sempre di più nelle oscure profondità di quel freddo mare di densa polvere. Ormai le era arrivato al petto, schiacciandole i polmoni in una morsa che le toglieva il respiro.

Attraverso le lacrime, scorse una sagoma scura tra la nebbia. Protese le braccia verso di essa implorandole aiuto con un muto urlo disperato, mentre la trappola di cenere ormai le lambiva la gola.

L'indistinta figura la raggiunse e le afferrò un braccio.
Una lancinante scarica gelata si sprigionò da quel punto, come se quella mano le stesse ustionando la pelle.
Una smorfia di dolore le deturpò il volto; poi una spaventosa risata riecheggiò nel nulla, perforandole il cervello.

Si agitò nel tentativo di liberarsi da quella stretta, affondando ancora di più nelle sabbie mobili. Ormai era sommersa fino al mento.
Non aveva più via di scampo.
Guardò per l'ultimo istante la terrificante sagoma scura che risaltava in quell'infinito bianco accecante, pervasa dagli spasmi delle risa.
Poi venne inghiottita dalla cenere.
E fu il buio.

Gli occhi non vedevano più, attorno a lei c'era solo un'impenetrabile tenebra che come fumo nero fluiva incessante dal basso, trascinando con sé puzza di bruciato e morte.
Sentiva il corpo pesante. Continuava a cadere in quell'oscuro abisso sempre più gelido, trafitta dalla risata che pareva provenire da ogni direzione e non le dava tregua.

Si svegliò di colpo, il respiro affannato, la mente ovattata dal terrore e dalla nebbia. 

Spalancò gli occhi, ma quel buio impenetrabile non scomparve. 

La testa scattò sul cuscino in ogni direzione, nel vano tentativo di vedere qualcosa attraverso le tenebre, mentre la risata continuava a rimbombarle nelle orecchie.

Allungò d'istinto la mano verso l'interruttore, ma sbatté le dita prima del dovuto su qualcosa che lì non ci doveva essere. Fece scorrere convulsa i polpastrelli su quella superficie spoglia, senza riuscire a riconoscerla.
Quella non era camera sua.
Non sapeva dove fosse. 

Il panico invase ogni suo muscolo, come migliaia di aghi ghiacciati che le penetravano la pelle.
Si sentiva soffocare, il respiro era sempre più rapido e affannato. Scattò a sedere e mosse le mani attorno a sé alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, qualsiasi appiglio che potesse riportarla alla realtà, mentre le risa imperversavano feroci nella testa. 

Solcò con le dita il materasso fino al bordo, ne percorse il perimetro finché le nocche incontrarono una superficie dura. La risalì, e sulla sommità finalmente riconobbe la forma di un oggetto conosciuto; lo strinse con forza con entrambe le mani, come per paura di perdere quella sua unica ancora di salvezza. Trovò un pulsante e la luce dello schermo del cellulare la abbagliò. Lo indirizzò con mosse convulse come una torcia attorno a sé, per fendere il buio dell'ambiente in cui si trovava.
Il cervello, ancora annebbiato dal panico e dall'incessante rimbombo della risata, non riconobbe quella stanza. 

I battiti accelerarono, alimentati dalla paura.
Individuò la porta e d'istinto scattò verso di essa, lanciandosi sull'interruttore. 

Un'ondata di luce si sprigionò dal soffitto, scacciando la tenebra, e con essa le agghiaccianti risa.
Si guardò intorno. Era al sicuro, non c'era nessuno lì, ma il panico non voleva abbandonare i suoi muscoli, non ce la faceva a riprendere fiato. La sua mente ovattata non riusciva a capire cosa fosse quella stanza, in cui decine di volti sconosciuti la fissavano da ogni parete.

Il cuore continuava a galopparle in gola, si sostenne con le mani alla porta, mentre recuperava lentamente la lucidità e riordinava i pensieri.
Tutte quelle foto raffiguravano lo stesso bambino, poi ragazzo, e uomo. Era certa di non averlo mai visto, eppure, nonostante quei particolari occhi a mandorla, aveva qualcosa di familiare.

Un nome si fece largo nella sua mente: Francis.
Era nella sua camera.
In casa Hiwatari.
In Italia.
Al sicuro.

Il battito iniziò a rallentare, mentre il suo sguardo scorreva su tutti quei volti ignoti, finché si posò su una fotografia vicino a lei, in alto accanto all'uscio. 
Si mise in punta di piedi, appoggiandosi a un mobile per riuscire ad afferrarla con la punta delle dita e staccarla dal muro.

Due ragazzini posavano uno accanto all'altro, poco più che adolescenti. Avevano gli stessi capelli scuri spettinati e pressoché identici sorrisi. Solo lo sguardo li distingueva: due lucenti perle nere incastonate in quel particolare taglio a mandorla, in contrasto ai ridenti occhi occidentali dell'altro. Si perse nel blu di quelle iridi che da mesi la accoglievano dopo ogni brusco risveglio; trovare il viso incoraggiante di Ray che sbucava dal bordo del letto a castello era ormai diventata una certezza, quel punto fermo che dissipava gli incubi e la riportava alla realtà.

Ritrovò all'istante la calma, e la nebbia che ancora le pervadeva la mente si dissolse.
Senza nemmeno accorgersene, le labbra si incurvarono in riflesso al sorriso di quel ragazzino, non poi tanto diverso dal giovane con cui ormai condivideva ogni sua giornata. Nonostante gli anni, quella solare espressione era rimasta la stessa, irresistibilmente contagiosa.

Rimase immobile a contemplare la foto per un tempo infinito, con il respiro lento e la mente sgombra.

Si scosse, attraversata da un pensiero. Chissà se aveva urlato nel sonno? Non avrebbe mai voluto spaventare Phil e Diana.
Ray dormiva nella stanza accanto, se avesse gridato sarebbe sicuramente già accorso per accertarsi che andasse tutto bene; o almeno questo era ciò che sperava.

Si voltò verso la finestra. La sera prima era così stanca per il viaggio e per le chiacchiere, andate avanti fino a tardi, che si era buttata a letto senza accorgersi della tapparella completamente abbassata.
La raggiunse e, cercando di fare meno rumore possibile, la sollevò di qualche decina di centimetri, quanto bastava per far filtrare la luce dei lampioni. 

Si mise a letto e spense la luce con l'interruttore lì accanto, quello che in preda al panico non era riuscita a trovare.
Seppur flebile, il bagliore che proveniva dalla finestra era sufficiente a rischiarare il buio, tracciando le sfocate sagome dei mobili.

Chiuse le palpebre e riprese sonno, con la fotografia dei due fratelli a vegliarla dal comodino.





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