Capitolo 26

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Giulia le mandò un messaggio spiegandole dove si trovasse il jet e a che ora partisse, dovette prendere due autobus perchè non aveva i soldi per il taxi. Quella situazione cosí paradossale la fece ridere, ma non era divertita, piuttosto molto nervosa. Forse quel viaggio in mezzo ad altra gente sul mezzo pubblico più detestato da chi lo usava tutti i giorni si sarebbe rivelato l'ultimo assaggio che avrebbe avuto della sua vita da indipendente.

Arrivò in aereoporto con la sua borsetta in pelle e gli abiti chiaramente poco adatti ad una che si apprestava a volare su un aereo dal valore di almeno sei milioni di dollari, probabilmente erano abituati a scortare persone imbellettate in chissà che gioielli preziosi. Invece lei sembrava la classica persona mediocre che mai si sarebbe potuta permettere un lusso simile. La squadrarono come a chiedersi se fosse davvero quella Vivian Archibald di New York che risultava dai documenti.

Quanto ingannavano le apparenze, bastava una maglietta diversa e subito la gente cambiava atteggiamento.

I sedili di lusso erano più comodi delle poltrone che aveva in casa, tutto incominciava ad essere esageratamente confortevole, troppo. Sul tavolo era posato un calice in cristallo e una bottiglia di champagne francese, era sicuramente opera di Giulia. Vivian decise di berlo, stava per servirsi da sola quando ricordò in quelle occasioni ci fosse sempre qualcuno pronto a sporcarsi le mani al posto suo. Richiamò il cameriere con un cenno del capo e pensò che per un po' anche anche lei avesse fatto quel lavoro, si chiese cosa stesse pensando lui in quel momento. Riuscí per la prima volta in tutta la sua vita a mettersi nei panni di qualcuno che non avesse il suo stesso conto in banca. Forse vivere da sola non era stato cosí inutile.

Le fu riempito il bicchiere, ringraziò il ragazzo con un altro cenno del capo e tornò alle sue cose. Non aveva idea di quante ore ci sarebbero volute, sicuramente troppe.
Fu all'ora che si assopí, dopo aver preso il primo sorso di uno champagne troppo costoso per non sembrare diverso da qualsiasi cosa avesse assaporato in Italia.
Aveva un retrogusto amaro, sapeva di passato.

Riaprí gli occhi che era arrivata in ereoporto, non si era portata neppure una giacca pesante nella fretta di scappare via, si stropicciò gli occhi e raccolse le sue cose. Camminò lungo il corridoio illuminato, in mezzo alle poltrone e spostando le sneakers sulla moquette rossa.

Già non sopportava più quel posto.
Appena scese l'ultimo scalino una Jeep nera si fermò come se avesse perfettamente calcolato il momento in cui avrebbe toccato il suolo con i piedi. L'unica cosí perfezionista della famiglia era Giulia, maniaca del controllo sul lavoro e fuori, soprattutto fuori.

Lo sportello davanti si aprí e infatti la vide mostrarsi in tutto il suo splendore, non aveva idea di che ore fossero, il fusorario l'aveva distrutta e stordita completamente. C'era ancora la luce ma non era mattina, forse pomeriggio?
Comunque l'aereoporto di New York non era mai stato cosí inospitale.

Si avvicinò alla cognata, indossava un cappotto nero e dei guanti in pelle dello stesso colore, da sotto probabilmente la solita camicia chiara e un tailleur fatto su misura. I tacchi a spillo erano il suo marchio di fabbrica, la sua divisa. Si chiedeva come diavolo facesse a guidare con quei trampoli ai piedi.

Le sorrise cordialmente come faceva sempre, cambiò la maschera che aveva usato fino a quel momento per indossarne un'altra, quella che per tutta la vita le si era plasmata addosso. « Bentornata. »
« Grazie. » Non le venne da dire altro, avrebbe voluto sapere di più su John ma non osava chiedere, erano rare le volte in cui le fosse permesso esprimere i propri pensieri, con il passare del tempo aveva sempre più evitato.

Entrarono entrambe nell'auto e calò il silenzio.
« Ti accompagno direttamente da John? »
Era possibile? Vivian si guardò allo specchietto, era in uno stato orribile. Sarebbe stato contento di vederla in quelle condizioni? Forse per farlo contento sarebbe stato meglio darsi una sistemata.
Forse voleva solo prendere tempo, Vivan aveva sempre visto il fratello come una roccia, saperlo vulnerabile la terrorizzava. « Si, in che condizioni è? »
Giulia strinse le mani attrorno al volante. « Gli hanno sparato, non hanno preso nessun organo vitale ma c'è mancato poco.
È stato operato d'urgenza, sta riposando. » Il viso rimase impassibile, come se stesse raccontando cosa avesse fatto il giorno prima, la nuova arrivata non era quasi più abituata a tutta quell'apatia e riluttanza nel mostrare qualsiasi tipo di emozione, infatti rabbrividí. Si fermarono al semaforo e Giulia si voltò per squadrarla, i boccoli dorati le ballarono sulle spalle e lo sguardo azzurro inevitabilmente controllò le unghie rovinate di Vivian, i capelli secchi e il viso poco curato.
Se non fosse stata troppo riservata l'avrebbe ammonita, le avrebbe detto che stava meglio quando faceva uso di droghe pesanti.

Rimase zitta, eppure la minore degli Archibald le lesse quelle parole in faccia, ma non la ferirono. Stava uno schifo fuori, ma per la prima volta aveva provato cosa significasse avere la testa in ordine, la mente quasi serena.
Ripensò a Michael e si domandò cosa avrebbe detto di lei vedendola in quel modo, lo sguardo si perse oltre il finestrino mentre le strade si riempivano di persone ben vestite e gli edifici diventavano più alti e lussuosi.

Vivevano in un posto che la maggior parte delle persone non poteva neppure permettersi di sognare.
Arrivarono in fretta al Presbyterian Hospital, un posto dove chiunque non possedesse abbastanza denaro da comprarsi il diritto alla vita, veniva lasciato fuori a morire.

Lí c'era il fratello, si chiese quale delle finestre che davano sulla strada affacciasse sulla sua stanza, forse nessuna, forse aveva preferito qualcosa di più riservato che desse sul giardino interno. L'ultima volta che l'aveva visto si erano urlati le cose peggiori, adesso se ne pentiva cosí tanto, aveva spiegato le sue verità, ma anche tante cattiverie tirate fuori solo per il gusto di ferirlo.

Le sneakers si posarono a terra sull'asfalto, il freddo gelido di Manhattan non le era mancato per niente. Si sfregò le mani contro le spalle e provò a prepararsi psicologicamente a qualsiasi cosa l'attendesse.
Giulia andò a parcheggiare l'auto, Vivian non voleva aspettarla, preferiva incontrare John da sola.

Salí le scale della struttura fino al portone principale, era un edifico alto e nuovo, tutto bianco fuori e anche dentro. La luce del sole lo illuminava dalle finestre del corridoio e lo faceva sembrare accogliente. Alla reception la fermò una signora, la osservò da capo a piedi, ancora una volta i suoi abiti la presentarono prima che potesse aprire bocca.
« Sono Vivian Archibald, sono venuta per mio fratello. »
Quella lí sicuramente non se l'aspettava, strabuzzò gli occhi e per poco non le caddero gli occhialetti che teneva sospesi sul naso rugoso.
Aveva i capelli scuri e liscissimi, una frangetta avrebbe dovuto renderla più giovane invece la faceva sembrare solamente più strana, antipatica. Gli occhi piccolissimi erano contornati da una riga di matita nera, le labbra striminzite invece non se l'era truccate.

La bionda non nascose una punta di soddisfacimento nello sguardo, quel potere le era mancato, ma non abbastanza da essere contenta di aver rimesso piede a Manhattan.

« È al piano di sopra, la stanza è la 19, se vuole posso accompagnarla. » Le tremava la voce, eppure alla giovane ereditiera non fece pena, avrebbe dovuto riflettere prima di parlare.

Fece cenno di no con il capo e svaní subito dopo verso l'ascensore, si guardò finalmente allo specchio: aveva proprio un aspetto orribile, se solo avesse avuto i suoi soldi altro che capelli lisci e frangetta, si sarebbe rinchiusa in una spa.

Le era bastato tornare in America per riempirsi del solito egoismo tossico che le impediva di essere preoccupata per chiunque, era un'arma fantastica quando voleva distrarsi.
Camminò lenta contando le stanze, i numeretti fuori dalle porte.

Il posto sarebbe dovuto essere movimentato e invece sembrava vuoto, mentre quella parte di ospedale le pareva un film horror. Troppo silenzio, riusciva ad udire il suo cuore battere e i propri pensieri mentre la luce a neon illuminava il pavimento in marmo e rendeva l'ambiente estremamente spoglio.
Arrivò presso la porta 19, i numeri erano appesi in evidenza e sembravano volerla risucchiare verso di loro.

Magari dormiva, non voleva svegliarlo. E se non fosse stato felice di vederla?
Non era quello il momento di essere codarda.

Aprí lentamente la porta, attenta a non fare troppo rumore e se lo vide davanti, vulnerabile come non mai, appeso a troppi fili per essere davvero ancora vivo.
Si bloccò, per un attimo e le venne da vomitare dallo spavento, gestire lo stress non era una cosa che sapeva fare bene.

In mezzo alla stanza, su un letto circondato da macchinari di cui ignorava il nome e l'utilità, giaceva il corpo di John Archibald.
Chi aveva osato ridurlo in quel modo?

Richiuse la porta e si avvicinò al fratello, stava ancora dormendo, forse era l'effetto di qualche medicina o preferivano tenerlo a riposo.

Nella sala risuonava fastidioso e indisturbato il rumore dell'apparechio che gli contava i battiti del cuore.
« Allora ce l'hai davvero, un cuore. » Fece quella battuta stupida come se lui potesse sentirla, sorrise da sola e poi tirò lo sguardo verso l'alto. Le mani presero a tremarle sul bordo della struttura che reggeva il letto. Era insopportabile la vista di lui distrutto in quel modo.

Da sotto le coperte si mosse qualcosa. « Si, ma non dirlo a nessuno. Ho una certa reputazione da mantenere. » La voce flebile e rotta di John giunse alle orecchie di Vivian come il più bel suono mai udito, aveva rischiato di perderlo, di non vederlo mai più e tutto quello che si erano lasciati l'ultima volta che si erano incontrati le sarebbe rimasto come un peso sull'anima per sempre.

Gli occhi castani si schiusero per riservarle la solita occhiata di rimprovero che in realtà voleva solo significare "ti voglio bene", detto in una lingua che comprendevano solo loro. « Non serviva farti sparare per farmi tornare. » Si portò una ciocca dorata dietro l'orecchio, fece finta di pensare intensamente a qualcosa e poi si chinò per sussurrargli piano l'ennesima cavolata.
« Bastava anche una cosa meno grave, tipo una coltellata, una rissa seria. »

A quel punto John si mise a ridere, ma un colpo di tosse gli bloccò la voce e una fitta che gli doleva all'altezza del petto lo costrinse a rilassarsi nuovamente. Si portò una mano sopra l'area interessata come se servisse ad alleviare la sofferenza e prese un respiro profondo.
Era lí che l'avevano colpito.

Vivian aveva paura di chiedere. « Ti ha chiamata Giulia scommetto. » Pareva quasi dispiaciuto, mentre Vivian era cosí entusiasta, ormai disabituata ai giochetti mentali degli Archibald.
Gli sorrise, non pensando fosse una cosa cosí strana, alla fine era sempre una di famiglia. « Si, esatto. »
Lui strinse le labbra, come se non fosse contento di quella notizia. « Qui stanno succedendo delle cose pericolose, sinceramente ero contento che fossi in Italia, eri al sicuro. » Non pensò a niente di eccessivamente spaventoso, in realtà lí nessuno era mai completamente in salvo, lei l'aveva capito anni prima e si era spesso chiesta con che coraggio crescessero dei figli condannati a vivere in quell'ambiente, ma non erano più affari suoi.

Era ovvio tutti sapessero che fosse in Italia, Giulia non aveva esitato a mandarle lí il jet e neppure le aveva domandato dove si trovasse. « Quindi eri tu quel tizio che ho visto sotto casa? Cioè, l'avete mandato voi? » Volle una conferma, solo per essere sicura di non aver messo a rischio la vita dei suoi amici, di non essere un problema per nessuno che le volesse bene.

L'espressione del fratello divenne immediatamente seria.
« Chi? » Calò il gelo.
« Una sera tornando da lavoro ho visto qualcuno sotto casa, erano tipo le tre di notte, ero sicura che mi stesse fissando anche se era lontano. »

John strise i denti contraendo il volto stanco. Sembrava preoccupato.« Forse hai fatto bene a venire qui, allora. »
Ma che diavolo stava succedendo?

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