Capitolo 3

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Aveva usato gli unici soldi messi da parte per il biglietto più economico che avesse trovato per spostarsi da Parigi a Firenze, fortunatamente non erano due posti troppo lontani e si trovava già in Europa quando il fratello aveva deciso di donarle la libertà. Non era sorpresa che non l'avessero chiamata da casa per impedirle di fare quello che era certa chiunque pensasse fosse una pazzia. Non si aspettavano altro da lei se non passi falsi, uno dopo l'altro e invece Vivian questa volta avrebbe dimostrato a tutti gli Archibald di che pasta fosse fatta, che essere diversi da loro non significasse necessariamente essere sbagliati.

Nella stessa giornata rinunciò agli studi, quindi non era più ufficialmente iscritta all'università più prestigiosa d'Europa e si liberò della divisa fastidiosa e rigida, si era sentita soffocare per tre anni dentro quegli odiosi indumenti, ora voleva tornare a respirare. Per prima cosa si tolse la cravatta, poi la giacca e camicia, alla fine la gonna da stronzetta ricca che le ricordava tutti i giorni quando si guardava allo specchio chi fosse, chi dovesse essere a tutti i costi.
Sfilò lungo i corridoi grigi sfoggiando una terribile tuta grigia e una felpa della Champion verde scuro, larghissima e caldissima. I capelli tenuti sciolti alla faccia delle stupide regole di quel posto, urlava felicemente: sono libera, merde. Sono senza un dollaro ma non devo più niente a nessuno.

Non aveva nessuno da salutare, nessun professore da avvisare, solo Lorenzo e la sua compagna di stanza a cui aveva lasciato una lettera sulla scrivania.

Appena fu fuori dalla struttura si voltò a guardarla, i piedi saldi a terra nelle reebook bianche e verdi puntati in direzione dell'enorme e antico edificio, imponente e opprimente. Il campus era formato da un parco abbastanza grande, vicino si trovava un laghetto dove spesso Vivian si era ritrovata da sola a cercare di acquietare i pensieri tristi, la grande struttura era composta da un grosso edificio in stile vittoriano dove si svolgevano le lezioni: una grande scalinata di pietra portava all'ingresso imponente e ampio dove poi un salottino elegante accoglieva chiunque non andasse troppo di fretta per fermarsi a leggere un libro, ripassare prima delle lezioni. Ai lati dell'ingresso due colonne imponenti in stile dorico reggevano un bassorilievo in pietra in cui era inciso il nome dell'università: Université Pierre et Marie Curie.

Disposti a schiera una serie di edifici accoglievano gli studenti, un branco di povere anime la cui unica possibilità era scegliere la vita che altri avevano già deciso per loro, stretti in una divisa che toglieva loro l'anima. Ogni edificio era costeggiato da un vialetto di pietra che serviva a spostarsi senza sporcare le scarpette da mille dollari dei rampolli delle famiglie più ricche del mondo.

Addio.

Si sistemò il borsone in spalla e controllò il telefono per assicurarsi che non vi fossero messaggi di Lorenzo, le sarebbe piaciuto salutarlo per l'ultima volta.
Lo rivedrai lí.

Si voltò verso la strada, adesso era sola: il sole tramontava dietro le colline e gli alberi mentre il buio si divorava l'atmosfera e lei lasciava per sempre l'accoglienza del lusso sfrenato per l'incertezza più totale.
Fece un profondo respiro, s'inebriò dell'odore dell'erba umida e l'attraversò un birivido di freddo fastidioso, doveva muoversi ad andarsene.

Fece un passo in avanti, pronta a chiamare un taxi, poi ricordò che non aveva soldi per un taxi. E adesso? Come faceva la gente senza taxi?

« Vi! » Una voce arrivò da lontano, era in affanno come se stesse correndo. Si voltò facendo muovere i capelli morbidi dietro la schiena. « Vivian! »
« Lore? »
« Volevo salutarti... non tornerò in Italia fino a Natale, per tre mesi non ci vedremo. »
« Riuscirai a sopravvivere senza di me per tre mesi? » Abbassò lo sguardo, in realtà neppure lei era tanto certa di riuscire a cavarsela troppo bene sensa di lui, ma non lo diede a vedere. Lorenzo era cosí dolce che a volte pensava di non meritarselo, la sua voce era profonda ma comunque vellutata, carezzevole.

« Dovrò trovarmi un'altra biondina senza cervello. » Alzò le spalle, vederla in tuta era strano, l'aveva sempre vista in divisa o comunque con gli indumenti del campus, mai cosí. Osservandola capí bene quanto fosse stata costretta, quella parte di mondo non era proprio il suo posto.
« Allora sei nel posto sbagliato, qui sono tutte genietti del cazzo. »
Rise e risero insieme, fin quando non ne poterono più e calò il silenzio. Allora lei si avvicinò a lui e lo guardò intensamente, quasi avesse paura di dimenticarsi come fossero i suoi occhi, la sua faccia.
Forse era già innamorata, forse aveva solo paura della solitudine.

« Non fare cazzate Marchetti. »
« È Mar-chet-ti. Sbagli sempre. » Pronunciare correttamente il suo cognome era praticamente impossibile per la più svogliata delle americane, tuttavia gli sorrise perchè infondo lo sapeva che gli piaceva da morire il modo in cui accarezzava con il proprio accento le lettere che componevano il suo cognome.

Non aspettò più e lo baciò, questa volta il bacio sapeva proprio di addio e nient'altro. « I'll miss you. » Glie lo sussurrò piano all'orecchio, come a volerlo imprimere in modo indelebile nella sua mente.
« Anche tu. »

Si abbandonarono cosí, quasi controvoglia menrre Vivian camminava da sola verso la fermata dell'autobus più vicina. Non ricordava l'ultima volta che ne avesse preso uno e sperava che il controllore non vi fosse. Esistevano i controllori in Francia? Non aveva i soldi per acquistare un dannato biglietto di uno stupido autobus e l'unica cosa che e la preoccupava era non avere nessuno realmente pronto a tirarla fuori dai guai. C'era un modo di risolvere le cose anche senza soldi?

Lesse gli orari sul cartellone alla fermata, tra qualche minuto sarebbe passato quello per andare all'aereoporto.
Puoi farcela Vivian.

Strinse il borsone tra le dita e lo tenne ben saldo sulla spalla anche quando salí, il mezzo era mezzo vuoto, insieme a lei un vecchietto e un tizio che aveva tutta l'aria di non essere proprio lucido. Si morse una guancia e prese a fissare il finestrino, non aveva mai visto il mondo da dietro al vetro di un autobus, sembrava cosí nuovo e affascinante che s'incantò. Si notavano un sacco di cose che dai vetri del taxi o dell'auto privata erano invisibili, la vita pareva scorrere più lenta su quelle sedioline di plastica sporche.

La sua era rialzata, arancione e lucida mentre tutto attorno a lei era illuminato di bianco, pareva che quel mezzo dovesse rompersi da un momento all'altro, il vecchietto si teneva pronto ad uscire fermo, ancorato con le mani strette attorno al tubo verdognolo che serviva per reggersi.

Controllò l'ora al cellulare, aveva qualche minuto per rilassarsi. Poggiò la schiena e continuò a perdersi fuori con lo sguardo, pensò alla gente comune che prendeva quel mezzo tutti i giorni e probabilmente non si rendeva conto di quanto fosse magico, poter stare fermi e aspettare.

In aereoporto fu cosí strano non trovare nessuno pronto ad accoglierla, dovette fare tutto da sola: già essere arrivata fin lí era per lei una grande conquista. Tirò fuori il telefono con il biglietto fatto prima e si preparò a scappare sull'aereo.

Era estasiante non trovare fotografi, paparazzi, nessun Archibald o qualcuno che fosse lí a guardarla solo perchè si era resa partecipe dell'ennesimo scandalo. Adorava l'Europa.

Le persone andavano di fretta, qualcuno entrava nei negozi dell'aereoporto, altri correvano al gate per paura di dover passare la notte lí.
Anche lei si mosse a controllare dove fosse la sua partenza, appena lesse il numero 10 camminò a passo svelto lungo il corridoio semi vuoto, oltrepassò la fila di panchine ormai diventate accampamento di chi avrebbe trascorso lí le prossime ore e tutta contenta esibí documento e biglietto prima di passare ai controlli. Aveva cosí poca roba che fu un percorso decisamente breve.

Tirò un sospiro di sollievo solamente quando fu però sopra l'aereo, mentre poi questo partí si rilassò al punto che chiuse gli occhi e si addormentò.
Si risvegliò che erano già atterrati e un'hostess stava per destarla. « Siamo arrivati. »
Le parlò in italiano ma Vivian capí comunque, o meglio, andò a logica. Comunque non pensava le avesse detto una cosa cosí importante.

Prese il suo borsone e s'incamminò verso l'uscita, fu subito catapultata in un altro universo, era assurdo come in Europa spostandosi di poche ore in aereo si arrivava in un luogo totalmente diverso e nuovo: la lingua era a lei incomprensibile, i modi di muoversi della gente e anche il modo in cui vestiva. Che cosa doveva fare?

Controllò i messaggi sul cellulare che le aveva inviato prima Lorenzo.
C'erano due numeri e delle indicazioni su cosa fare.

Vai subito a prendere le chiavi della casa, è un mio amico ho garantito io non gli interessa l'anticipo.
Domani mattina invece vai al bar dove ti ho trovato il lavoro, ho detto che parli un po' di italiano e di francese anche se le cose che dici a me sarebbe meglio non le ripetessi a nessuno. 😹😹

Che idiota.
Un altro messaggio con l'indirizzo del posto dove le aveva trovato da lavorare, a lei, che non si era mai guadagnata nulla in vita sua.

Chiamò subito il tizio della casa e le arrivò dall'altra parte un « Pronto? » Che lei non seppe tradurre subito.
« Buonasera, sono l'amica di Lorenzo e sono appena arrivata a Firenze, tra... mezz'ora massimo posso passare a prendere le chiavi? »
« Viviana? Ah, si, allora— le chiavi sono sotto lo zerbino, terzo piano scala A.
Ti scrivo l'indirizzo, passo domani a spiegarti tutto. »
Subito le arrivò un messaggio con l'indirizzo, si sentiva della musica in sottofondo e si rese conto in quell'istante che fosse domenica sera. Che idiota, le venne da ridere.
« Grazie mille, allora buona serata! »
« A domani! »

Quel tipo le sembrò strano ma non ci diede troppo peso, era impegnata a capire come muoversi e cosa fare.
Non aveva idea di dove fosse la via dell'appartamento, di come arrivarci e di dove si trovasse effettivamente lei in quel momento. Aprí google maps e fortunatamente aveva solo da prendere un autobus per raggiungere la città e poi poteva muoversi camminando.

Controllò il portafoglio, le erano rimasti davvero pochi euro che aveva cambiato prima in Francia ma ora non aveva idea di cosa farci.
Andò verso il primo punto assistenza e chiese informazioni, riuscí a farsi capire un po' in italiano un po' in inglese, quindi trovò il mezzo giusto e ci salí sopra.

L'Italia vista da dietro un finestrino era ancora più bella della Francia, si vedeva fosse la città di Lorenzo, le sembrò tutto dolce e accogliente come era lui.
Non v'era freddezza tra gli italiani, nessuno troppo imbronciato come il più tipico dei francesi, tutti ben vestiti. Perfino il tizio al telefono le era sembrato simpatico, tutto sembrava volgere per il verso giusto.

Viaggiò fino a destinazione, le sarebbe piaciuto ascoltare un po' di musica ma non volle correre il rischio di ritrovarsi con la batteria del telefono morta, quindi si limitò a canticchiare in mente il ritornello delle sue canzoni preferite, distraendosi ogni tanto.

Quando arrivò presso l'ingresso dell'abitazione si rese conto che fosse un palazzo molto vecchio, ma non di quelli fatiscenti e squallidi: piuttosto sapeva di antico, sicuramente era più vecchio dell'America, anche se da quello che aveva potuto vedere in Europa era tutto più vecchio della sua ex casa.

Ricordò della chiave sotto lo zerbino, abbassò lo sguardo: non c'era nessuno zerbino! Forse intendeva quello sull'uscio di casa, ma come ci arrivava senza entrare dal portone?

Merda.
L'aria iniziò a diventare fredda e la struttura intanto che aumentava l'ansia si trasformava da affascinante a inquietante. Ai lati della porta v'erano due piccole colonne di pietra, la versione rimpicciolita di quelle dell'università: mentre sopra in alto uno stemma enorme, che diavolo significava?

Una soluzione, ti serve una soluzione.
Pensò che l'idea migliore fosse quella di citofonare a tutti e sperare che qualcuno le aprisse, o attendere che uscisse un inquilino. Lasciò il borsone scivolare a terra, era diventato troppo pesante.

Allungò l'indice verso il citofono in ottone brillante, i nomi erano incisi su delle targhette e sembrò una cosa molto elegante.
Non è che Lorenzo mi ha infilato in un palazzo di stronzi ricchi?

Eppure sembrava piuttosto decadente, lontano dal centro rispetto agli altri.

Proprio mentre stava per premere il dito contro il pulsante corrispondente al nome impronunciabile del primo mal capitato, la serratura del portone scattò. Grazie al cielo!

La superficie lignea si aprí rivelando la luce calda del pianerottolo, Vivian si chinò subito per recuperare il suo borsone e si affacciò per entrare, decisa a non prestare particolare attenzione e chiunque vi fosse oltre la soglia.
Una voce sottile disturbò la sua fuga. « Buonasera, vivi qui? »
Ma è tipico degli italiani voler fare amicizia con tutti?
« Si, da adesso, sono appena arrivata. » Solo all'ora ci fece caso, alzò lo sguardo stanco e subito la turbò l'espressione arrogante del tizio appena incontrato, si chiese se si sforzasse o avesse proprio una faccia antipatica per natura.
I lineamenti erano duri, gli occhi piccoli e scuri mentre le labbra... quelle sembravano disegnate con un pennello, ma nel complesso il suo istinto le diceva che fosse una persona da cui tenersi alla larga.
« Infatti, non mi sembravi un volto conosciuto. » Si scostò i ciuffi lunghi da davanti al viso, i capelli corvini incorniciavano il suo volto chiaro facendolo sembrare qualcosa di cosí perfetto che faceva paura.
Non sembrava umano.

Indietreggiò. « Allora ci vediamo, se anche tu abiti qui ci incontreremo spesso. »
« Puoi starne certa. » Sibilò quell'ultima espressione quasi sottovoce, sembrò una minaccia.
Poi cercò nella tasca della giacca di jeans un pacchetto di sigarette e li aprí, se lo portò vicino alle labbra senza staccare lo sguardo dal viso sgomento di Vivian e con i denti ne estrasse una che bloccò tra le labbra.

Poi le fece un occhiolino e andò via per la sua strada.
Non sapeva neppure il suo nome.
Che tipo strano.

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