DIECI

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CAPITOLO 10 | MAVOURNEEN

2017

"I heard that you're settled down

That you found a girl and you're married now.

I heard that your dreams came true,

guess she gave you things I didn't give to you."

[...]

"You know how the time flies

Only yesterday was the time of our lives

We were born and raise in a summer haze

Bound by the surprise of our glory days."

[...]

"Nothing compares, no worries or cares,

regrets and mistakes, they're memories made."

(Adele - Someone like you)

LA SALA e i tavoli sono addobbati e decorati nei toni del bianco e del lavanda: dietro ogni centrotavola, ogni fiocco, ogni fiore, riconosco l'occhio attento di mia madre e tutta la delicatezza di Esme.

Mi risiedo tra gli applausi degli invitati, lisciando con la mano una piega insignificante nella gonna del mio - sorprendentemente non troppo scomodo - abito da damigella color malva. Mi accanisco con il cucchiaino sulla mia fetta di torta, mentre tra le risate, uno degli amici di Dylan si alza per fare il suo discorso d'auguri agli sposi.

Ho parlato per cinque lunghi minuti di amore e futura felicità: ho detto sorridendo ad Esme e Dylan che sono la coppia perfetta, la ragione che mi spinge a credere nel matrimonio. La verità è che li ho avuti davanti ai miei occhi per vent'anni, totalmente meravigliosi nella loro vita fatta di piccoli gesti quotidiani d'amore, tutti compiuti senza un anello al dito, e so di non avere bisogno di credere nel matrimonio.

Come potrei?

Penso all'uomo con la fede al dito che mi aspetta in Inghilterra, e smetto di giocare con il piatto.

*

L'open-bar - il principale e fondamentale contributo di Dylan a questa festa, da quello che ho capito - mi aiuta a scacciare i cattivi pensieri, che non si addicono per nulla a una giornata felice come questa.

Il barista - che non mi offre assaggi di Scozia e non inarca il sopracciglio in modo indimenticabile - mi ha servito un variopinto cocktail alla frutta con tanto di ombrellino colorato. È dolcissimo fin quasi alla nausea e avrei preferito una birra, ma da vedere è molto carino.

Seduta sullo sgabello alto, con le spalle al bancone e le gambe accavallate, trovo un po' di sollievo per i miei piedi imprigionati dai tacchi alti mentre osservo gruppi e coppie scatenarsi sulla pista da ballo.

Dylan ed Esme volteggiano abbracciati al centro della sala, i sorrisi sulle labbra e gli occhi pieni di felicità. A poca distanza da loro, Charlie e Liam corrono e ridono, inseguiti da un Alex alquanto arruffato. Più in là, una Amelia impacciatissima, tutta ginocchia nodose e grandi occhi azzurri, muove impacciata i piedi tra le braccia di Connor Murphy. Sorrido, ripensando alla me di tanti anni fa, e bevo un lungo sorso del mio cocktail dalla ridicola cannuccia rosa acceso.

La voce accanto a me proviene direttamente dal mio passato.

"Bel discorso, prima."

Alla mia sinistra c'è un uomo con i gomiti appoggiati al bancone e un sorriso velato di tristezza mentre mi guarda: ha la carnagione olivastra, la barba folta e scura, e i suoi capelli sono un'onda di ricci perfetti per affondarci le dita. I suoi occhi scuri indagano il mio viso, e io mi ritrovo a ricambiare la sua espressione.

Keeran.


2014


"Honey just put your sweet lips on my lips, we should just kiss like real people do."

(Hozier - Like real people do)

Questa mattina sono uscita di casa avvolta in una sciarpa grossa quanto me, le mani infilate in spessi guanti di lana e una ridicola cuffia con un pon pon calcata in testa. Il mio fiato si condensa in nuvolette di vapore bianco mentre procedo velocemente in direzione della caffetteria dell'università, disperatamente bisognosa di un - altro - caffè caldo.

L'inverno è arrivato, Ned.

Al bar ordino un americano e un bagel al sesamo: mi sforzo di mandare giù a bocconi lenti la mia colazione, malgrado lo stomaco chiuso. Sono nervosa. Il modulo B del corso di filologia romanza inizia tra venti minuti, e dire che in questo momento ho i nervi a fior di pelle sarebbe una pallida espressione della mia situazione emotiva.

Addento il mio bagel, che è morbido e ancora tiepido. Mi torna in mente Joe, che il giorno dell'esame scritto di filologia è emerso dalla ressa al bancone della caffetteria, con i suoi capelli spettinati e il suo sorriso malandrino.

Sospiro. Sono trascorse neanche due settimane, e a me sembra una vita precedente.

Io e Joe ci siamo visti domenica pomeriggio. Davanti a una tazza fumante di tè alla vaniglia ho incespicato nelle mie stesse parole, alla ricerca del modo giusto per fargli capire che desidero essergli soltanto amica - qualcosa che non fosse un 'Ehi, il mio professore di filologia romanza mi ha baciata sulla porta di casa, e ora io non so più nulla della mia vita', perché evidentemente, il modo giusto non è dire la verità.

Quando sono tornata a casa, quella sera, ero triste. Ho rinunciato a qualcosa che poteva nascere, per qualcos'altro che è già nato e morto sul pianerottolo di casa mia. Come potrebbe essere altrimenti? Kevin McKidd è il mio professore - non potrà mai esserci niente tra di noi, non importa quanto io lo voglia. Oh, e io lo voglio davvero tanto.

*

Quando arrivo in aula, Emily, Gracie e Luke mi hanno tenuto un posto. In prima fila. Mi sorridono e mi fanno segno di raggiungerli, mentre io mi tolgo il giaccone e cerco di ricambiare la loro espressione. Prima fila, Holly, puoi farcela, penso, in fondo, è dove sei stata seduta per tutto il trimestre.

Mi siedo, faccio un respiro profondo ed è proprio in quel momento che il professor McKidd - Kevin - entra in classe. Il suo sguardo incrocia il mio mentre si dirige verso la cattedra, e io ricordo i suoi occhi azzurri ardenti che guardano le mie labbra, il sapore del whiskey e la sensazione della sua bocca sulla mia. Abbasso il capo, trovando momentaneo rifugio nella ricerca dell'astuccio e del quaderno dentro lo zaino.

"Buongiorno a tutti," saluta la classe, e io mi ritrovo ad alzare nuovamente gli occhi su di lui. Si è tolto la giacca, sta arrotolando le maniche della camicia e ha lo sguardo concentrato sull'altra metà dell'aula. "... prima di iniziare con il modulo B, oggi, vorrei darvi qualche informazione di servizio," dice, voltandosi per recuperare un gesso, "... questi," prosegue, iniziando a scrivere alla lavagna, "... sono gli orari di ricevimento aggiuntivi che osserverò per le prossime due settimane. Come avrete sicuramente visto, sono stati esposti fuori dalla nostra biblioteca i risultati della prova scritta, e siete tutti caldamente invitati a presentarvi nel mio ufficio per la correzione, qualsiasi sia stato l'esito della prova."

Quando si volta, fa un mezzo sorriso e si pulisce la mano sporca di gesso sui pantaloni scuri, come fa sempre.

"Ok, siamo pronti per cominciare?"

C'è un momento, in cui lui inizia a introdurre il primo argomento - l'epica -, che vorrei potesse durare per sempre. I suoi occhi si posano su di me mentre spiega, e io riesco a sentire sulla mia pelle tutto il trasporto che lo anima per la sua materia, materia che ormai sento anche un po' mia.

È un piccolo, perfetto momento, in cui, malgrado tutto sia diverso, nulla sembra cambiato.

*

Quel pomeriggio, dopo una tornata massacrante di lezioni e una pausa pranzo di quattro minuti, riesco a ritagliarmi un momento di tranquillità in caffetteria.

Il sole si sta già avviando al tramonto, colorando di riflessi aranciati i raggi che si insinuano tra le vetrate del bar, e la nebbia ha già cominciato a salire dalle strade.

Ho davanti a me gli avanzi di un muffin ai mirtilli e il quaderno di filologia romanza, alla pagina dove questa mattina ho annotato gli orari di ricevimento aggiuntivi che Kevin - il professor McKidd, dannazione, non ci capisco più nulla - ci ha messo a disposizione. Uno è oggi pomeriggio, dopo le sei. Oggi non sono di turno a La Libellula, e probabilmente è un orario di cui quasi nessuno si servirà. A chi piace rimanere in università fino a tardi? Anche il dipartimento sarà praticamente deserto...

Fermo la catena dei miei pensieri prima che mi conduca troppo lontano dalla realtà. Guardo l'orologio. Le cinque e venti.

Chiudo gli occhi, prendendomi la testa tra le mani.

*

L'ufficio è poco illuminato: la lampada sulla scrivania è l'unica fonte di luce al momento, e crea strani giochi d'ombra sul suo viso, chino su un libro.

Faccio un respiro profondo e batto due deboli colpi sullo stipite della porta aperta, quanto basta per manifestare la mia presenza. Alle mie spalle, solo la penombra dei corridoi deserti che ho percorso per arrivare fin qui.

Alza lo sguardo, probabilmente sorpreso che qualcuno si sia presentato a questo orario così scomodo - e io ho anche tergiversato, sono le sei e venticinque, ormai - e poi un nuovo, improvviso stupore attraversa il suo viso, Lo vedo nei suoi occhi, nelle sue labbra appena dischiuse. Sì, sono io.

"Livia," si lascia sfuggire, e in un istante è come essere trasportati indietro. Sensazioni mai sopite mi percorrono da capo a piedi, e il nodo che sento alla gola e alla bocca dello stomaco si fa più stretto.

"Professore," ribatto velocemente. Lo vedo corrugare appena la fronte, quasi stupito - dispiaciuto? - al mio uso di un appellativo formale. Andiamo, cosa ti aspettavi? "Posso?"

"Prego," mi invita ad entrare, richiudendo il libro ed alzandosi in piedi.

Raggiungo la prima delle due sedie davanti alla scrivania, mentre lui la aggira per dirigersi verso la porta. Con uno sguardo distratto mentre mi tolgo la giacca, noto la copertina del libro chiuso sulla scrivania. Stava leggendo Tristano e Isotta.

Un rumore inaspettato e improvviso mi fa voltare di scatto la testa, giusto in tempo per vedere la figura di Kevin, di spalle, e la sua mano che abbandona la serratura sotto la maniglia della porta. Ha chiuso a chiave.

Torna al suo posto e io mi siedo lentamente, cercando nei suoi occhi chiari una risposta a quel gesto che mi fa scottare le guance.

"Non pensavo saresti venuta," ammette, spingendosi appena in avanti - e io vorrei solo che fosse vicino, più vicino.

"Perché no?" chiedo, facendo finta di non capire i sottintesi di quella frase, "... hai detto di passare per la correzione, qualsiasi fosse l'esito..."

Mi guarda, un sorriso macchiato di dispiacere sulle labbra, e la mia voce cade nel silenzio dell'ufficio. Sospiro, passandomi le mani tra i capelli, e abbandonando la maschera da persona risoluta che ho tentato di indossare. Potrò anche essere un'adulta, ma in questa stanza, davanti a lui, mi sento solo una sperduta ragazzina.

"Mi dispiace," mi dice, ripetendomi la frase con cui si è congedato da me, quella notte.

"Dobbiamo parlare," dico soltanto, con voce flebile.

"Credo anch'io."

Un lungo silenzio segue questa ammissione; non lo guardo negli occhi, lasciando vagare lo sguardo sul profilo del fornelletto elettrico e delle varie scatole di foglie di tè sul mobiletto a destra dell'ingresso. Sto disperatamente pensando al modo giusto per dire quello che devo dire, e se incrociassi il suo sguardo dimenticherei ogni cosa. Se il modo giusto non è la verità, allora qual è?

"Olivia," la sua voce ruvida mi richiama alla realtà, e io mi volto.

La sua mano scivola in avanti sulla scrivania, e le sue dita accarezzano appena il dorso della mia. Non toccarmi, vorrei dire, guardando la sua mano sulla mia, non ricordi dove siamo finiti l'ultima volta? Eppure, allo stesso tempo - toccami, ti prego.

Giro il polso, lasciando che il suo palmo accarezzi il mio. È ruvido, come lui, e delicato. Come lui.

Stavolta è Kevin a sospirare lungamente. Lo vedo chiudere gli occhi per un istante; le sue dita mi sfiorano per un'ultima volta prima di ritrarsi e io torno a sentire soltanto la sensazione del freddo legno scuro della scrivania.

"Iniziamo dal compito scritto," mi dice, "Vuoi?"

Annuisco, portandomi le mani in grembo.


2017


"Come sta Katie?" chiedo, rigirando la cannuccia nel mio bicchiere ormai vuoto.

"A casa con mia suocera, stanca e stufa," mi dice Keeran, sorridendo, gli occhi pieni d'amore. Beve un sorso del suo vino prima di proseguire, "... ormai mancano poco più di due settimane, ma ogni giorno ha sempre meno pazienza."

"Posso solo immaginare," commento, ridacchiando.

"Mi ha detto di salutarti, e di ringraziarti per la tutina."

Faccio un gesto un po' impacciato con la mano libera dal bicchiere, a dire che non fa nulla. "Salutamela anche tu."

Rimaniamo in silenzio, ma non in imbarazzo. Dovrebbe esserci più imbarazzo tra di noi, rifletto, eppure sono così felice che non ce ne sia - ed è la prova che, alla fine delle cose, la nostra amicizia è rimasta più forte di tutto il resto.

"Mavourneen?"

Sbatto le palpebre, guardandolo. "Mi hai chiamata-?"

Quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui mi hai chiamata così, Kee? Avevamo diciotto anni, mi baciavi sulle labbra e dicevi non partire, mavourneen, non partire... Se ti avessi dato ascolto, allora, oggi avrei il tuo anello al dito e un bambino dai bellissimi ricci scuri. Saremmo stati felici, ne sono sicura.

E io non avrei mai posato lo sguardo sull'altra metà del mio cuore.

Keeran alza appena una mano con un sorriso di scuse e io osservo l'anello che porta all'anulare sinistro. Un impegno, una promessa. "Mi dispiace, ma sei così silenziosa... Non è da te."

Gli stringo la mano, e appoggio il bicchiere sul bancone di legno, "Ti va di ballare?"

*

Quando avevo tre anni, ho conosciuto Keeran Sullivan.

Il primo giorno d'asilo mi ha tirato i capelli e io l'ho spinto faccia a terra in una pozzanghera, sigillando un patto di amicizia che sarebbe durato per l'eternità.

Quando avevo sei anni, ho abbracciato Keeran Sullivan.

I suoi genitori avevano portato la vecchia Betty dal veterinario, e la vecchia Betty non era più tornata. Avevamo raccolto qualche fiore dal giardino di mia madre e li avevamo sistemati all'ombra dell'albero nel prato del cortile, quello sotto cui la vecchia Betty era solita sotterrare gli ossi.

Quando avevo dieci anni, ho baciato Keeran Sullivan.

Piangevo sulle gradinate della palestra, perché Niall Donoghue mi aveva detto che ero brutta, e Keeran gli aveva fatto un occhio nero - la maestra lo aveva trascinato in presidenza per un orecchio, e quando ne era uscito, sospeso ma soddisfatto, gli avevo baciato le guance piangendo e ridendo, senza pensare.

Quando avevo quattordici anni, ho baciato Keeran Sullivan.

Eravamo seduti su una panchina del parco, tutti gomiti e ginocchia come solo gli adolescenti sanno essere. Ero appoggiata con la schiena alla sua spalla e leggevo Orgoglio e Pregiudizio, e il suo braccio mi stringeva con affetto.

Quando avevo sedici anni, ho fatto l'amore con Keeran Sullivan.

Sei sicura?, aveva chiesto con il respiro spezzato, i baci che scendevano lentamente sul mio addome. Avevo chiuso gli occhi, godendomi la sensazione delle sue guance ispide e stretto le mani nei suoi capelli scuri. .

Quando avevo diciotto anni, ho lasciato Keeran Sullivan.

C'era stato un bacio lungo e disperato e l'augurio, sussurrato a fior di labbra, di trovare in Inghilterra ciò che stessi cercando. Di cosa sei alla ricerca, mavourneen?, aveva chiesto. Lo avevo abbracciato un'ultima volta, rifugiandomi nella familiarità della sua figura. Me stessa.

*

"A cosa pensi?" mi chiede, chinando il capo fino al mio orecchio.

Ondeggiamo lentamente, stretti l'una nelle braccia dell'altro sulle note di un lento. Non siamo poi troppo diversi da Amelia e Connor, in fondo. Il pensiero mi fa sorridere.

È qui ed ora, tra le braccia di Kee, che non riesco più a mentire. Schiudo le labbra e mentre mi stringe - padre, fratello, amico, amante, ogni cosa -, racconto tutta la verità.

*

Who would have known how bittersweet this would taste?"

(Adele - Someone like you)

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