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CAPITOLO 40 | LEARN ME HARD, OH LEARN ME RIGHT

"Lanquan li jorn son lonc en mai." – "Quando i giorni sono lunghi in maggio."

(Jaufré Rudel)

QUANDO ENTRO a La Libellula ho due bicchieri di infuso alle erbe tra le mani e un sacchetto con due bagel ancora caldi precariamente sotto un braccio.

Allo scampanellio della porta d'ingresso Will alza la testa dalla sua posizione alla cassa, un sorriso leggero sulle labbra mentre si alza per venirmi incontro.

Ricambio la sua espressione, porgendogli uno dei due bicchieri.

"Cardo speziato," gli dico, recitando il nome dell'infuso che ho comprato al minuscolo negozio di alimentari pakistano lungo la strada, "Il tuo preferito."

Will prende la tisana dalle mie mani e io lo supero, per appoggiare il mio bicchiere sul tavolo della cassa e potermi dedicare ai bagel di sesamo.

"Tieni," aggiungo, porgendogliene uno. Lui mi osserva, interrogativo, e io stringo le spalle, "... è il minimo, visto che non ti fai pagare per le lezioni di latino."

"Trattengo i soldi dal tuo stipendio," ribatte immediatamente.

Nasconde il mezzo sorriso nella sua tisana e io tiro un sospiro di sollievo, appoggiandomi una mano – un bagel – sul cuore.

"A proposito," prosegue, "L'Eneide è praticamente finita, ormai."

Annuisco, recuperando la mia preziosa – e ormai un po' rovinata – edizione dallo zaino. "Ci stavo già pensando," ammetto, sedendomi. "Cosa ne dici di Orazio?"

Scuote appena la testa, percorrendo con un sospiro lento la distanza dalla cassa agli scaffali di poesia.

"Non ti piace?" chiedo, inclinando il capo senza capire. Guadagno del tempo dando un morso al mio bagel, trattenendomi soltanto all'ultimo dall'aggiungere, credo che Orazio sia perfetto, per un uomo come te. Pulvis et umbra sumus (1).

"E' uno dei miei autori preferiti," ammette, e io gli sorrido. "... ma credo sia ora di passare alla prosa."

"La prosa fa schifo," ribatto rapida con una smorfia che non mi premuro di celare nella tisana. Penso a Ian McEwan e mi sento in colpa, ma la prosa latina è tutta un'altra storia. "Ti prego, non dire-"

"Cicerone?"

"William, no."

L'ombra di un sorriso divertito si fa strada sulle sue labbra quando uso il suo nome completo e si passa le dita sul mento, tra la barba, un sospiro esasperato. "Sai," ammette, "Mi ricordi una persona che conoscevo."

"Oh."

C'è una luce diversa, nei suoi occhi grigi, che ancora mi richiama alla mente quella sera ormai lontana in cui abbiamo sistemato libri e parlato di Aiace. Vorrei chiedergli chi èchi era?quella persona, ma mi trattengo, perché una volta anche lui mi ha detto non devi parlarne, se non ti va, e io posso rispettare il suo silenzio.

Mi nascondo nel mio ultimo sorso di tisana, concedendo a Will qualche momento in più per inseguire un ricordo, e realizzo che gli uomini della mia vita sono presenze silenziose, quiete intorno a me. Osservatori attenti, con occhi che dicono sempre più delle parole. Perché ad amare le parole, invece delle persone che le dicono, si finisce a farsi male, ricordo ancora la voce di Vicky, spezzata e sottile.

"... Olivia?"

Appoggio il bicchiere di carta ormai vuoto sul tavolo, alzando nuovamente lo sguardo verso Will: ha finito il suo bagel, ma ha ancora un po' di infuso ancora nella tazza che tiene della mano sinistra, e mi guarda come se potesse leggere sul mio viso tutto quello che mi passa per la testa. Osservatori silenziosi.

Gli ho lasciato del tempo per tornare ai suoi ricordi, ma ho finito per smarrirmi nei miei.

"Scusami, mi sono distratta," commento, rivolgendogli un sorriso. "Allora, cosa mi proponi di Cicerone?"

Quella sera, quando torno a casa, ho con me un'edizione linguisticamente commentata delle Lettere: Will è stato clemente, scegliendo quanto di meno noioso possibile Cicerone avesse da offrire. Quando appoggio il libro sul tavolo della mia cucina, noto un segnalibro colorato spuntare dal volume: lo apro in silenzio, in attesa di scoprire cosa Will voleva che leggessi per primo.

C'è il testo latino, ma non sono ancora così brava da tradurre volando, così scelgo di concentrarmi per ora soltanto sulla traduzione.

Scorro le righe, e quando trovo la frase giusta, quella frase capace di arrivare dritta al mio cuore, mi chiedo se tanto tempo fa Will non abbia mostrato questa lettera anche a quella persona che gli ricordo, per convincerla della bellezza della prosa latina. Spero che l'abbia fatto, e spero che ci sia riuscito.

Sappi quest'unica cosa: se avrò te, non mi sembrerà di essere morto del tutto (2).

*

Maggio scorre lento, le giornate di sole primaverile che si fanno sempre più lunghe e frequenti.

I risultati dell'esame di Storia e Critica del Cinema arrivano un giorno oltre la metà del mese – in ritardo terribile, ma cosa non si perdona al Dipartimento di Spettacolo? –: James mi prende per mano portandomi fuori per festeggiare il mio ventinove, mentre io non la smetto un attimo di citare a raffica Orson Welles e di chiamarlo Rosabella.

La serata trascorre tra le mille luci colorate del luna park, le mani impiastricciate di zucchero filato e un mal di pancia annunciato alla fine di una enorme confezione di pop-corn al caramello.

James prova a vincere un pupazzo per me buttando giù il maggior numero di barattoli, sotto lo sguardo divertito di un settantenne dalla barba grigia e lunghissima - fallendo miseramente.

Alla fine, il peluche devo vincermelo da sola.

"Scegli quello che vuoi, bambina," mi incoraggia il vecchio, indicandomi con la mano la schiera di pupazzetti appesi alle sue spalle.

Bacio James su una guancia, alzandomi sulle punte con entusiasmo per arruffargli i capelli e mi faccio consegnare un lupacchiotto grigio e per nulla minaccioso, soffice sotto le mie dita.

"Adorabile," sorrido, lasciando che James mi circondi le spalle con il braccio.

"Ah-ah," commenta - con la mano libera inspira una lunga boccata di fumo dalla sua sigaretta, avvicinandola alle mie labbra per permettermi di fare altrettanto quando glielo chiedo, mentre continuiamo la nostra passeggiata stretti l'uno all'altra.

La Marlboro sulla mia lingua ha un inconsueto retrogusto dolciastro. Mi lecco appena le labbra, distrattamente, realizzando che quel sapore così insolito è zucchero filato. Alzo lo sguardo per dirlo a James, ma lui mi sta già guardando.

"Cosa c'è?" chiedo divertita, mentre la presa della sua mano sulla mia spalla si allenta. Le sue dita scivolano sulla mia schiena fino a stringermi il fianco, mentre lentamente ci fermiamo nel mezzo della strada di ciottoli del luna park. Mi attira a sé con dolcezza, inspirando l'ultima boccata di fumo dalla sigaretta e spegnendola a terra con noncuranza.

"... ho qualcosa sulla faccia?" domando con una mezza risata, passandomi le dita sulle labbra sotto il suo sguardo.

Le note di una canzone disco un po' troppo anni ottanta arrivano dalle casse del vicino labirinto degli specchi, mentre una donna da una bancarella ci invita a provare il suo tiro a segno. C'è una luna quasi piena alta nel cielo buio, e i suoi occhi blu che mi guardano così, sotto i raggi della notte e le luci stroboscopiche del luna park sono abbastanza perché io mi ricordi quale aggettivo abbia usato per descriverlo, una volta, oltre ad adorabile. Selvatico – come un lupo.

James si china su di me, un sorriso appena accennato ma inconfondibile sulle labbra, e quando sono già pronta a ricevere un bacio si scosta leggermente, quanto basta per parlarmi all'orecchio.

"Ti voglio."

"James-"

La mano sulla mia schiena si allarga, spingendomi ancora di più contro di lui, e la sensazione fisica di quanto davvero mi desideri in questo momento è sufficiente a rendermi le gambe di gelatina. Mi bacia il lobo dell'orecchio, scendendo con i denti fino all'incavo del mio collo, la barba che sfrega sulla mia pelle e un effetto ben diverso dal solletico che mi percorre da capo a piedi.

"Adesso."

Porca puttana.

Stringo con una mano il bavero della sua camicia di flanella, l'altra che stringe ancora il piccolo lupacchiotto, e mi sposto leggermente nel suo abbraccio per poter incontrare le sue labbra. Ho le guance in fiamme e la testa leggera, e faccio fatica a ricordare di essere nel bel mezzo di una delle viuzze del luna park, circondata da giostre, musica e persone.

Gli circondo il collo con le braccia, il pupazzo ancora disperatamente stretto nella destra, e trattengo a fatica un gemito quando la sua mano sulla mia schiena scende appena e l'altra si infila nella mia giacca di jeans, accarezzandomi sotto la stoffa.

Ci separiamo soltanto per riprendere fiato.

Rapita, osservo l'ombra predatoria nei suoi occhi blu, la piega maliziosa del suo sorriso leggero mentre si lecca appena le labbra prima di parlare.

"Sai di zucchero filato."

Il tragitto dal luna park al suo appartamento è una corsa scomposta, spezzata da baci, risate mal trattenute e mani nei capelli. A neppure un isolato dal Nelson, James mi sospinge nel buio contro il muro di mattoni di un vicoletto deserto, intrappolandomi così bene tra il suo corpo e la parete d'argilla che ho le gambe intrecciate attorno alla sua vita e le sue mani mi stringono le cosce, prima di ricordami che siamo letteralmente a trenta secondi da casa sua.

Gli rubo il mazzo di chiavi dalla tasca posteriore dei jeans, ridendo e fuggendo su per la rampa di scale esterne dopo avergli pizzicato il sedere.

"Se ti prendo-"

Mi raggiunge quando ho già infilato la chiave nella toppa, afferrandomi per i fianchi e spingendosi contro di me, le dita che iniziano senza esitazione a risalire sotto la mia maglietta attraverso la giacca di jeans sbottonata.

Devo appoggiare la mano destra sul legno della porta – il lupacchiotto schiacciato per la zampa contro il mio palmo -, l'altra che rimane stretta sulla chiave senza trovare la coordinazione per girarla e far scattare la serratura.

"Cristo santo," sospiro con ben poca grazia quando le sue dita scivolano di nuovo in basso, slacciandomi senza difficoltà il bottone dei pantaloni – alle mie spalle, sento il sorriso affacciarsi sulle sue labbra premute sul mio collo, e il suo respiro nel mio orecchio.

Uso l'ultima briciola di forza di volontà che mi è rimasta per aprire la porta e trascinare James all'interno, voltandomi per poter unire la mia bocca alla sua. Lancio il peluche verso il tavolo della cucina, senza premurarmi di controllare dove vada a finire, e afferro James per le spalle, liberandomi scompostamente della sua camicia di flanella e mordendogli il labbro quando lo spingo contro la porta per richiuderla.

Mi muovo contro di lui, lottando con la sua lingua mentre lascio che mi aiuti a togliermi la giacca, sbarazzandomi insieme anche della mia maglia a maniche lunghe in quel mezzo secondo in cui ci separiamo.

Mi lascio osservare per un momento, una spallina del mio semplice reggiseno di cotone scivolata giù – lo sguardo di James, illuminato appena dalla luna che filtra dalle finestre, corre sulla mia pelle nuda, un'ombra di dolcezza oltre al desiderio.

Il ritmo di questa notte cambia all'improvviso – siamo stati violenti e di fretta, e in un battito di ciglia, quando si preme di nuovo su di me alla ricerca delle mie labbra, la danza si fa lenta e silenziosa. Ci spostiamo fino al letto, un passo dopo l'altro, una scia di indumenti sempre più inutili che segnano la nostra strada.

Quando tocchiamo le lenzuola, siamo nudi, e io non posso aspettare un attimo in più.

"Jamie..."

Nel buio, ho gli occhi aperti rivolti alle travi di castagno del soffitto.

"Mh..."

La risposta di James è un sussurro roco sulla mia pelle: le sue labbra, i suoi denti e la sua lingua risalgono con lentezza dal mio ombelico sul mio addome, il peso del suo petto che preme sulle mie cosce, tenendomele aperte.

Ho le mani affondate nei suoi capelli scuri, le dita strette attorno alle ciocche nell'istinto disperato di avere il suo viso davanti al mio. Dimentico ogni cosa quando la sua bocca trova i miei seni: la mia schiena si inarca, sollevandosi dalle lenzuola, mentre la mia mano destra abbandona i suoi capelli per scivolare dalla sua nuca fino a metà schiena.

"Vieni qui," mormoro con un sospiro, affondando le mie unghie corte nella sua spalla per sospingerlo verso di me.

La sensazione del corpo di James che si muove sul mio è meravigliosa, in un modo quasi osceno: la sua lingua abbandona la mia pelle mentre risale, sistemandosi contro di me. Il suo petto preme sul mio mentre allaccio le cosce attorno alle sue per averlo ancora più vicino.

C'è un momento – un istante sospeso, prima che sia dentro di me: la sua bocca si separa dalla mia, lasciandomi le labbra arrossate, umide e disperate per un altro tocco, e la luce della luna rischiara il suo viso. Ogni cosa per i tuoi occhi, amore mio.

Mi guarda, una mano sulla mia guancia. Mi accarezza lo zigomo con il pollice, un gesto delicato e così affettuoso da farmi sentire improvvisamente ben più nuda dell'essere senza vestiti.

Schiudo le labbra, ma la sua bocca è sulla mia e le mie cosce si stringono ancora di più sulle sue gambe per accoglierlo lentamente dentro di me.

Chiudo gli occhi, una mano che risale per stringersi sulla sua nuca e il ti amo ancora sulle labbra.

*

Nella tarda mattina di un martedì, io e James ci separiamo con un bacio a fior di labbra davanti al portone del mio palazzo: lui deve incontrare insieme a Jacob un paio di fornitori, e io mi sono accordata con Emily e Grace per pranzare insieme alla caffetteria dell'università, appena prima del mio tutorato di linguistica pomeridiano.

Cercare di sembrare più adulta, con l'arrivo della primavera e delle prime temperature tiepide, si rivela ogni anno una missione complicata: non mi trucco perché non lo so fare e non ho davvero la pazienza di imparare, e quando è ora di abbandonare i collant di lana spessa e i pantaloni di tweed il mio guardaroba si riduce a un varietà dubbia di magliette simpatiche, di jeans comodi e di all-stars colorate.

Per oggi, sono riuscita a trovare un maglioncino nero piuttosto leggero da infilare dentro i blue jeans per coprire la mia t-shirt giallo limone – malgrado la riga in mezzo, i capelli dritti e la coda alta, James mi ha detto con un sorriso che avrei potuto tranquillamente confondermi con i miei studenti del primo anno.

Nella notte ha piovuto: i marciapiedi sono ancora chiazzati di pozzanghere e io posso ancora sfoggiare le mie stringate di pelle rovinata, che forse riescono a salvare il salvabile.

Una volta Cece mi ha detto che questo mio sembrare inesorabilmente più giovane mi sarebbe tornato utile, a un certo punto della mia vita, ma io non le ho mai voluto dare retta: i due anni con Kevin sono stati un'eterna lotta contro il mio sembrareessere?un'eterna ragazzina, come se ci fosse sempre qualcosa da dimostrare – nessuno me lo aveva chiesto, ma ogni cosa mi faceva sentire così.

Saltello tra le pozzanghere, il passo allegro e i pensieri lontani.

In caffetteria, trovo Emily sulla porta, lo zaino sulle spalle e tra le braccia una borsa carica di libri presi in prestito in biblioteca. Ha finito i corsi ed è in pieno caos di raccolta di testi per la tesi, e malgrado il sorriso raggiante con cui mi racconta che oggi quella vecchia carampana del signor Crane è stata quasi quasi sopportabile, io non riesco a fare a meno di ripensare alla mia ultima fuga dall'ufficio di Kevin e allo stato di abbandono in cui è caduta la mia tesi in queste settimane.

Sorrido quando raggiungiamo Gracie che ha già occupato un tavolo, offrendomi di fare per tutte la coda alla cassa.

Non posso fuggire per sempre.

Il pranzo con le mie amiche è rilassante e tranquillo: lascio che sia Millie a raccontare di tutte le sue mirabolanti avventure nei corridoi della Biblioteca Bodleiana alla ricerca dei materiali per la sua tesi, e glisso quanto più possibile le domande sulla mia – le mie amiche mi chiedono a che punto sono e se farò in tempo per la sessione di luglio, e io rispondo che non lo so, perché al momento sono un po' incagliata sulle battute finali. Incagliata, certo.

Grace mi accarezza appena il braccio, annuendo comprensiva, "Non deve essere facile, soprattutto con McKidd."

L'osservazione mi coglie alla sprovvista, e per poco non rischio di farmi andare di traverso il sorso di caffè americano con cui ho scelto di accompagnare le mie uova. La mano della mia amica ha lasciato il mio avambraccio, e quando Gracie prosegue, passando ad arrotolarsi attorno all'indice una ciocca sottile di capelli rosso fuoco, capisco con sollievo cosa intendesse dire.

"... voglio dire, non deve lasciartene passare liscia nemmeno una!" – cerca Emily con lo sguardo, che annuisce. – "Sto di nuovo male se ripenso alle lezioni di filologia."

Mi mordo il labbro, cercando di accompagnarmi alla loro risata.

Anche io sto di nuovo male se ripenso alle lezioni di filologia, ma non per lo stesso motivo.

Il tutorato pomeridiano è lento e macchinoso: il primo appello della sessione estiva programmato dalla professoressa Lee si avvicina inesorabilmente, e i miei studenti stanno lentamente migliorando, anche se hanno bisogno di essere guidati con pazienza attraverso ogni passaggio di ciascun esercizio.

Controllo il cellulare soltanto a lezione finita, quando ormai tutti sono usciti dall'aula e io sono rimasta sola alla cattedra, a sistemare lentamente le mie cose.

Apro la notifica del mio nuovo messaggio senza riflettere, perché James aveva promesso di farmi sapere cosa avrebbe comprato per la cena di stasera, ed è troppo tardi quando mi rendo conto che non è lui il mittente.

Dobbiamo parlare. Puoi venire nel mio ufficio?

È stato inviato dieci minuti fa.

Sospiro, rimettendomi seduta alla cattedra nell'aula vuota, qualche quaderno ancora di sistemare. Il pensiero che Kevin possa aver controllato gli orari delle mie lezioni mi fa stringere lo stomaco. Quello di affrontare una conversazione con lui mi fa venire da vomitare.

Mi serve un nuovo, profondo respiro, e un lungo minuto in cui non faccio altro che strapparmi la pelle del pollice con le unghie delle altre dita.

L'ultima volta in cui ho visto Kevin gli ho dato uno schiaffo con tutte le mie forze, la volta prima ci siamo chiesti perdono sull'orlo delle lacrime, quella prima ancora ci siamo quasi strappati i capelli, e quella prima... È amaro dover fare così tanta fatica per ritrovare qualche ricordo felice – e se ora ripenso allo sbuffo esasperato di Jamie che non riesce a colpire tutti i barattoli del tiro a segno, quella sera al luna park, non so se posso dire di essere stata felice davvero, prima.

Quando ho deciso, scrivo rapidamente.

Non nel tuo ufficio. In caffetteria tra dieci minuti.

Mentre aspetto una risposta finisco di sistemare le mie cose nello zaino, fingendo che la vibrazione improvvisa del mio cellulare non mi faccia stringere lo stomaco in una morsa così stretta.

Va bene.

Posso farcela, in caffetteria, penso, cercando di calmare il ritmo del mio respiro. Sento il battito rapido del cuore nel mio petto, così violento che per un istante mi sembra arrivi a premermi sulle orecchie e fino alla gola. In caffetteria va bene, riprovo, sistemandomi lo zaino sulle spalle e avviandomi fuori dall'aula a passi lenti. Saremo circondati da altre persone, obbligati a mantenere una facciata di cortesia e a non strapparci di dosso i sentimenti con i denti e con le unghie.

Non posso fuggire per sempre. Tanto vale iniziare da qui.

*

I raggi abbaglianti e aranciati del sole al tramonto inondano la caffetteria: Kevin è seduto al tavolino accanto alla vetrata, così esposto allo sguardo del viavai di clienti all'interno e degli studenti di fretta che attraversano il cortile interno, che per un attimo non posso fare a meno di chiedermi se anche soltanto la scelta di quel tavolo non sia un nuovo gesto di sfida.

Poi ricordo che quello è lo stesso tavolino da cui ho incrociato il suo sguardo, così tanto tempo fa – le lezioni di filologia romanza erano iniziate da così poco e io gli avevo sorriso, osservandolo al bancone mentre lui sorseggiava il caffè.

"Grazie per essere venuta," mi dice, alzandosi in piedi quando mi avvicino.

C'è un'espressione di circostanza sul suo viso, qualcosa che tenta senza successo di essere un tiepido sorriso. Rimango sorpresa un istante di troppo, quando si alza, abbastanza perché lui se ne accorga: che sia per imbarazzo o educazione, si sposta appena per scostare la mia sedia da sotto il tavolo.

"Vuoi qualcosa?" chiede, lo sguardo che passa per un momento verso il bancone prima di tornare su di me.

"Un americano," annuisco appena, l'unghia del medio che torna a calcare la pelle del pollice della mia mano sinistra mentre prendo posto. "Grazie."

Prendo posto lentamente, seguendolo con lo sguardo mentre si allontana verso la cassa. Si è offerto di prendermi un caffè e io l'ho ringraziato – l'ultima volta in cui l'ho visto ho detto vaffanculo dopo avergli dato uno schiaffo.

Quando ritorna, allungando sul tavolino il mio bicchiere di americano fumante, l'aroma profumato del caffè è un debole sollievo alla tensione che stringe ogni nervo del mio corpo.

Forse ho sbagliato a chiedergli di vederci in un luogo pubblico, a pensare che stare sotto gli occhi di altri – per quanto siano pochi i clienti del bar a quest'ora – mi avrebbe in qualche modo aiutata a mantenere la calma. Lo realizzo soltanto ora, che stupida: è stare sotto i suoi, di occhi, a farmi impazzire.

Mi rifugio nel caffè, distogliendo lo sguardo dal suo mentre lui prende posto davanti a me: seguo per qualche lungo secondo un nutrito gruppetto di studenti che attraversa di fretta il cortile, oltre la vetrata, cercando di indovinare per quale lezione siano in ritardo.

"Olivia."

Distolgo lo sguardo dalla giornata di sole fuori, riportandolo sull'uomo seduto davanti a me.

"Kevin."

La mia replica, secca ma non ostile – vuota -, lo porta a stringere le mani di fronte a sé, sul legno del tavolino. Sto per dirgli che giocare con l'anello che porti al dito sotto gli occhi della tua ex-amante non è molto furbo, quando ricordo di essere in caffetteria. Forse allora è servito a qualcosa, scegliere un terreno neutrale.

Kevin mi guarda, studiando per un momento che a me sembra troppo lungo le ombre nei miei occhi. Quando parla di nuovo, smette di torturarsi le mani; nel suo tono non c'è più traccia della sottile sfumatura di rimpianto che ha vibrato sul mio corpo quando ha pronunciato il mio nome, e io non vorrei che questo repentino cambio di direzione mi cogliesse così impreparata.

"Dobbiamo parlare della tua tesi. Ho qualche appunto..."

Si china per frugare nella propria tracolla, alla ricerca di una cartelletta zeppa di fogli: lo ascolto, non davvero del tutto, spiegarmi le sue idee sulla struttura delle conclusioni del mio elaborato, e mi ascolto balbettare qualcosa – neanche fossi lontana dal mio corpo, dispersa da qualche parte oltre la vetrata – a proposito delle idee che avevo sviluppato.

Kevin è concentrato, lo sguardo serio mentre segna per me con un pennarello i punti più importanti delle osservazioni che ha preparato per me.

Deve essere così, allora, rifletto, quello che succede quando il tuo relatore vuole davvero vederti per parlare della tua tesi. Credo anche che la bruciante sensazione di vuoto che mi scava il petto non dovrebbe essere qui, ma non so come cacciarla via.

"... se c'è qualche domanda che vuoi farmi, qualsiasi dubbio dovessi avere, puoi passare in ufficio quando vuoi," mi dice con dolcezza. Il suo tono mi ricorda la gentilezza con cui mi ha spiegato la metafonesi, quel giorno lontanissimo in cui ancora non eravamo niente. Oh.

"Olivia."

Alzo la testa dai fogli stesi davanti a noi, odiando la stretta nel mio petto al suono del mio nome. Un battito del mio cuore, il velo scuro della nostalgia nei suoi occhi azzurri – un'ombra così rapida che potrei averla immaginata.

"... non ho gestito niente come avrei dovuto, da quando-"

Da quando ci siamo lasciati? Da quando ci siamo innamorati? Da quando?

Annuisco con forza, rimanendo in silenzio – per fortuna, il mio cenno del capo è sufficiente a fermare quella frase. Non voglio saperlo, da quando.

Kevin si passa una mano tra i capelli ramati, e per un istante rivedo il leone in gabbia a cui tante volte l'ho paragonato.

"... ma questo," scivola con le dita sulla carta sparsa tra di noi, "... questo posso farlo bene. Per te."

Siamo sempre stati perfetti, con i fogli della filologia romanza allungati tra di noi – un'unica mente. Da qualche parte lungo la strada, siamo diventati un unico cuore. O forse è stato il contrario, o forse è successo tutto in un solo momento.

L'unica cosa che so, adesso, è che devo davvero smetterla di fuggire.

"Io..." – mi interrompo, raccogliendo le parole, convincendomi di trovare interessante il fondo del mio bicchiere vuoto, neanche fosse una lezione di Divinazione. – "Sì."

Mi chiedo se sia il suo modo per chiedermi perdono, per espiare la sua colpa – Espiazione. Soltanto il pensare Kevin accanto a questa parola mi fa sentire a disagio.

Vattene, questo non è il tuo libro.

È il suo.

*

Le ultime settimane di maggio sono pigre e assolate, a tratti scandite dagli ultimi acquazzoni primaverili: osservo il bel tempo scaldare Oxford o lo scrosciare della pioggia abbattersi sulla città dalla finestra del mio salotto, impermeabile ai mutamenti del cielo e al passare dei giorni.

Ogni tanto, percepisco su di me lo sguardo intenso di James, i suoi occhi che mi seguono nei miei movimenti spenti e distratti.

Sento il suo sguardo su di me, una sera particolarmente fredda dopo un temporale, quando devo recuperare da un cassetto dell'armadio una coperta per poter continuare a controllare le esercitazioni di linguistica generale da accoccolata sul divano. La maglietta blu dell'Università di Glasgow è proprio lì a guardarmi dal fondo del cassetto, a dirmi ciò che è finito, convinciti, è finito (3), e io devo chiudermi in bagno per asciugare le lacrime e nascondere i singhiozzi arrabbiati.

Mi guardo piangere davanti allo specchio, cercando di ricordare con forza tutte le volte in cui Kevin mi ha fatto del male – ma quello che mi rimane, soltanto, è la sensazione dolceamara di aver amato qualcuno e di averlo perduto per sempre. Vicini, ma senza sfiorarci davvero – mai più. Ci si sente così vuoti, quando qualcosa finisce?

Jamie si siede accanto a me sul divano, quella sera, osservandomi mettere da parte i fogli degli esercizi di linguistica generale per prendere Tristano e Isotta dalla mensola, alla ricerca dei miei ricordi disseminati oltre quella copertina blu notte. Lui non dice nulla, ma so che segue il profilo del mio viso alla luce calda della lampada.

I giorni scivolano, e io riprendo a scrivere le conclusioni della mia tesi, cercando di non chiedermi cosa proverò quando sarà ora di schiacciare l'ultimo punto fermo sulla tastiera del computer.

Ripeto a James di non preoccuparsi per i miei silenzi, perché è soltanto la fatica dello scrivere, dell'incastrare alla perfezione i turni in libreria e di preparare gli ultimi tutorati di linguistica - il mio sorriso tiepido e noncurante non lo convince.

"Se non vuoi parlarmene va bene, te l'ho già detto," mi dice a bassa voce, allontanandosi dal mio abbraccio per potermi guardare negli occhi. "Ma almeno non mentire."

Non c'è rabbia o accusa, nel suo tono. È James – il mio uomo pacato, paziente, gentile. Mi chiedo se stia pensando di essere sul punto di perdermi.

Lascia che ritorni tra le sue braccia, sistemandomi le mani sui fianchi e lasciando che io mi stringa a lui.

"Ti voglio bene," mormoro sulla sua pelle, nascondendo gli occhi umidi di lacrime nell'incavo del suo collo. Quando non dice nulla, baciandomi con un sospiro tra i capelli, mi si spezza il cuore.

Forse, a perderlo sarò io.

*

Io non sono coraggiosa.

Io non parlo.

Io leggo, scrivo, mi torturo, immagino vite e storie per tutti gli altri.

Io scappo: l'ho fatto con Keeran – non partire, mavourneen, non partire – e l'ho fatto con Kevin – devi andare via, gli ho detto, ma in fondo, ero io a fuggire.

Sto cercando di imparare, però.

Oggi è l'ultimo giorno di maggio, ed è stata una lunga e splendida giornata di sole.

Oggi è il giorno in cui racconterò a James ogni cosa.

Malgrado abbia fatto buio già da un'ora, quando metto piede fuori da La Libellula, l'aria della sera è calda e avvolgente. Attraverso il semaforo e cammino lungo il marciapiede, a ormai poco meno di un isolato da casa – porto il cellulare all'orecchio, mordendomi il labbro.

"Ehi," risponde una voce pacata e un po' ruvida dall'altra parte. Come, non lo so, ma potrei dire che Jamie è scozzese anche soltanto da come mi dice 'ehi'.

"Ehi," ribatto con un lieve sorriso. Frugo nelle tasche con la mano libera, alla ricerca del mio pacchetto di Lucky Strike – avrò bisogno di fumarne una per calmarmi, anche prima di salire fino a casa. "Sei già al Nelson?" chiedo, la voce un po' tremolante, "... non sento il solito folk del giovedì."

"No, ci sono Jake e Sibyl stasera, io-"

Si interrompe all'improvviso e io mi chiedo cosa lo abbia distratto, mentre svolto l'angolo e ne approfitto per parlare, "... no, perché stavo pensando, se per caso volessi-"

Mi interrompo anche io, perché sono ormai a non troppa distanza dal mio palazzo e alla luce aranciata dei lampioni della via realizzo che cosa lo ha bloccato a metà del suo discorso – io.

James è in piedi davanti al portone del mio condominio, una sigaretta quasi finita tra le dita e il cellulare vicino all'orecchio nell'altra mano.

Chiudo la chiamata, avvicinandomi a lui mentre spegne il mozzicone di sigaretta e mi osserva con un accenno di sorriso.

"Ehi," ripeto docilmente, sporgendomi appena in avanti per baciarlo su una guancia.

"Ehi," ribatte con affetto, e io realizzo un'altra cosa – non solo potrei dire che è scozzese, da come mi dice 'ehi', ma potrei dire anche che mi vuole bene.

Il suo sguardo trova il mio, e quando parla di nuovo, l'atmosfera della sera cambia all'improvviso.

"Dobbiamo parlare."

Annuisco, sentendo l'agitazione crepitare potente sotto la mia pelle.

"Vuoi salire?" gli chiedo, scivolando un mezzo passo indietro e sciogliendo il nostro abbraccio.

Jamie scuote appena la testa. "Restiamo qui," dice soltanto.

La luce calda del lampione disegna ombre più marcate sugli spigoli del suo viso; io mi guardo in giro, alla ricerca di una panchina non troppo distante lungo il marciapiede che sia libera. Gli prendo timidamente la mano, sfregando una volta soltanto il pollice sul suo palmo. Sono qui.

"Vieni con me."

Camminiamo in silenzio, io che lo guido lentamente verso il posto che ho scelto. Mi ritorna alla mente quella serata al ristorante cinese, quando tornando a casa abbracciati e con l'odore del fritto ancora appiccicato addosso mi aveva baciata davanti al portone. Sorrido appena, cercando di attingere da quel ricordo così bello il coraggio che mi serve per affrontare questa conversazione.

"Non so se ci crederai," inizio, mettendomi seduta. "Ma è il motivo per cui ti ho chiamato."

Incrocio le gambe spostandomi di lato per poterlo guardare negli occhi, mentre lui allarga il braccio sulle assi di legno dello schienale, orientando il busto verso di me.

Accenna appena un sorriso. "Certo che ti credo," dice soltanto.

È una frase che mi riempie il cuore e allo stesso tempo mi fa bruciare di vergogna.

Mi frugo nelle tasche, terminando finalmente la ricerca di accendino e Lucky Strike. Me ne accendo una in silenzio, lo sguardo abbassato sui nodi del legno mentre raccolgo i miei pensieri.

"E' successo qualcosa, non è vero?" – James parla di nuovo e io alzo lo sguardo. "Holly, se vuoi lasciarmi e non sai come-"

"Jamie-" cerco di interromperlo.

"-dimmelo e basta."

Il silenzio cala su di noi: questa volta, è James a distogliere gli occhi dal mio viso, lo sguardo duro e contratto concentrato sulla strada immersa nella semioscurità. Mi spingo appena in avanti, la mano libera dalla sigaretta che sale ad accarezzargli una guancia: la barba punge sotto le mie dita, e in un attimo James è di nuovo con me e io sono a casa.

Abbiamo questi modi soltanto nostri di non farci andare via.

Sfrego un'ultima volta il pollice sul suo zigomo con un sorriso un po' mesto, portandomi la sigaretta alla bocca per trarne una lunga boccata. Gliela porgo, aspettando in silenzio che faccia altrettanto.

E poi racconto, racconto ogni cosa.

Nel buio della notte, metto lentamente a nudo la mia anima e il mio cuore per questo osservatore silenzioso pacato, paziente, gentile.

Jamie mi ascolta rievocare i miei ultimi tre anni di vita, mentre la figura di Kevin si costruisce davanti a lui.

Mi chiedo come lo immagini, la descrizione filtrata dalle mie parole: cerco di prendermi la mia parte di colpe, perché lui ha tradito e mentito ma l'ho fatto anche io, perché io lo sapevo, e mi chiedo se riuscirò mai a rendere giustizia a tutto quello che c'è stato. Forse è blasfemo parlare di giustizia, e forse è davvero tutto fin troppo semplice, visto con altri occhi.

Le parole sono uno strumento potente.

Non mi nascondo, raccontandogli di quel giorno lontano di novembre in cui l'ho visto per la prima volta al Nelson, e del perché l'ho voluto e cercato così tanto, quella notte di fine gennaio. Volevo la sua bocca sulla mia e il suo corpo su di me, e volevo soltanto smettere di pensare. Ma è stato tanto tempo fa.

"... ed è il mio relatore, perché ovviamente," concludo, amara e sarcastica, "... unire di nuovo il professionale al privato, un'altra volta, era sembrata così una grande idea..."

Sospiro, passandomi una mano sul viso. James mi porge la sua Marlborola terza – invitandomi a prenderne una boccata. Inspiro con lentezza, il sapore del fumo immediatamente sulla lingua.

"Per questo, quando sei tornata dal suo ufficio..." mi chiede, lasciando che la sua voce si spenga quando non trova un modo per concludere la domanda.

"Sì," annuisco, porgendogli di nuovo la sua sigaretta. "Avrei voluto, ma non sapevo-" mi blocco. "Sei arrabbiato?" chiedo, la gola stretta e la voce tremula. Me ne pento immediatamente. Dio, è una domanda così stupida.

Mi asciugo gli occhi con una mano, rigirandomi per essergli seduta accanto e non più a gambe incrociate davanti.

Il braccio di James, ancora allungato dietro di me sullo schienale della panchina, trova la mia spalla, chiudendosi sulla mia giacca di jeans: mi attira a sé senza dire nulla, lasciando che io appoggi una guancia sul colletto morbido della sua camicia di flanella e nasconda il naso nel suo collo. Getta a terra con l'altra mano il mozzicone di Marlboro, spegnendolo definitivamente sotto la suola della scarpa.

Nel silenzio, aspetto.

"No, sinceramente no," risponde, calmo.

La sua mano lascia la mia spalla e lui si scosta appena, mentre io mi rimetto dritta sulla panchina – James guarda davanti a sé per un altro lungo momento, prima di tornare a incrociare il mio sguardo. Vorrei tornare a nascondermi nel suo abbraccio, ma so che ora non mi stringerebbe. La realizzazione di avergli fatto del male è insopportabile.

Si passa una mano tra la barba, un respiro quasi stanco alla ricerca delle parole. "Tutti abbiamo dei segreti, e io lo capisco, davvero, perché non sia stata la prima cosa che ti sia volata fuori dalla bocca, quella sera al pub."

Dalla gola mi sfugge uno sbuffo un po' strozzato, a metà tra una risata nasale e un singhiozzo.

"Ehi, Gordon, ho avuto una storia di tre anni con il mio professore di filologia romanza, perfetto, ora scopami," mi scimmiotto, la voce rapida e più stridula. Farebbe quasi ridere, se non mi stessi asciugando gli occhi. "Già, decisamente no."

"Ma è stato prima," continua, il lieve sorrisetto sulle labbra alle mie parole che si spegne quando riprende a parlarmi. Gioca con un'altra sigaretta, senza accenderla. "C'è stato un momento, non so dirti quando..." s'interrompe, rimettendosi il pacchetto di Marlboro nella tasca della camicia.

Aspetto, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo. James si passa una mano tra i capelli, una piega quasi imbarazzata sulle labbra. "Non sono bravo in queste cose, tu lo sai," dice finalmente, e io devo fare appello a tutto il mio autocontrollo per non abbracciarlo.

Sospira appena, la mano che finalmente gli abbandona i capelli, "Ho sempre pensato che dirlo non servisse, che i fatti parlassero da soli-"

Schiudo le labbra, sentendo il battito impazzito del mio cuore imprigionato tra le costole.

"Jamie..."

"Non ho finito."

La mano che stava tra i suoi capelli scivola sulla mia guancia, il pollice che mi accarezza delicatamente lo zigomo, come sempre, mitigando la decisione nella sua voce. "Non voglio litigare." – la sua mano lascia la mia pelle.

Schiudo di nuovo le labbra, senza riuscire a dire niente.

James mi guarda, la piega triste di un sorriso sulle labbra.

"Sono innamorato di te," dice con semplicità. "E non posso stare qui e chiederti di restare con me, ora. Perché ti guardo, adesso, e l'unica cosa a cui riesco a pensare è che non so se hai aspettato così tanto a parlarmene perché non sapevi come, o se in fondo hai sempre pensato che non ne valesse la pena."

Ha la voce ruvida, che si spezza alle ultime parole come non l'ho mai sentita.

"... che sarebbe finita, perché saresti tornata con lui."

Vorrei dire qualcosa, ma non riesco – perché i suoi dubbi sono anche i miei, ed è una benedizione e una maledizione insieme che al mondo esista qualcuno così capace di leggere nel mio cuore.

"Tu devi chiarire delle cose, tesoro, e devi farlo da sola."

Lasciamo che il silenzio si snodi tra di noi ancora per qualche istante, nel buio della notte. Quando James si alza in piedi, la morsa della realtà torna a stringere ogni nervo del mio corpo.

Lo imito, senza dire nulla; lui non abbandona per un istante il mio sguardo – non facciamo un passo, perché le sue mani sono delicatamente sulle mie spalle in una stretta che è quasi un abbraccio o l'anticipazione di un bacio.

"Funziona, che funziona un po' come vuoi tu," dice, chinandosi appena per cercare le mie labbra.

Sorrido appena, gli occhi ancora umidi quando la sua bocca trova la mia: è un tocco delicato, ed è già finito prima che le mie mani possano trovare il bavero della sua camicia di flanella.

"Sai quello che provo, adesso. Quando lo saprai anche tu, sai dove trovarmi."

(1) Orazio, Odi, IV, 7

(2) Cicerone, Familiares, 14.4

(3) Catullo, VIII, traduzione di Salvatore Quasimodo

Okay, friends, questo parto plurigemellare è quello che vi lascio prima di prendermi due settimane di pausa per poi tornare con l'ultimo capitolo e l'epilogo - ebbene sì, pare che finalmente in questi giorni riuscirò a sbarazzarmi dell'ultimo esame della mia carriera universitaria, incrociamo le dita! Spero che questo bagno di angst e porno e poi ancora angst vi sia piaciuto, io ce la sto mettendo davvero tutta per interpretare i sentimenti combattuti di Holly - ovviamente non è finita finché non è finita, e io vi aspetto alla prossima!

Un bacio! ;P

Holly

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