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CAPITOLO 29 | BUT IN THIS TWILIGHT OUR CHOICES SEAL OUR FATE

when you plunged the knife into me

you also began bleeding

my wound became your wound

didn't you know

love is a double-edged knife 

you will suffer the way you make me suffer

(Rupi Kaur)

*

STORIA e Critica del Cinema prosegue, e oltre al professor Carling – Robbie, se fossi talmente pazza da ascoltare Sibyl – conosco anche la vera titolare del corso, la professoressa Monica House: ogni volta in cui la ascolto, rapita, parlarci delle origini del mezzo cinematografico, capisco davvero per quale motivo i miei compagni in triennale non facessero altro che dire meraviglie della sezione spettacolo.

Le mie giornate sono così piene – turni a La Libellula, tutorati di recupero per gli studenti del primo anno che ancora non hanno sconfitto la Linguistica Generale, James – che riesco quasi a convincermi di star ignorando la mia tesi, la filologia romanza e tutti i pensieri che porta con sé soltanto per colpa della mia vita impegnata.

Ci sono volte però, quando sono sola tra le mie coperte e il sole dell'alba ha appena cominciato a filtrare dalle persiane chiuse, in cui riesco a risentire la sensazione del braccio di Kevin che mi circonda l'addome e del suo viso vicino al mio orecchio, il petto che si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro.

Sono i giorni più belli, sono i giorni più brutti.

*

"Gardner, ha un momento?"

Alzo lo sguardo dalla cattedra ancora ingombra di tutti i miei fogli, trovandomi davanti la figura minuta della professoressa Lee.

L'ultima piccola coda di studenti sta lasciando la classe, dopo due lunghe ore spese a rivedere insieme vecchie prove d'esame e a risolvere ogni dubbio possibile sul rotacismo.

"Certo," sorrido brevemente, continuando a raccogliere le mie cose.

La professoressa percorre con me un tratto di strada sotto gli archi dei cortili interni dell'università, parlandomi del convegno che sta organizzando per la fine di aprile qui a Oxford: una settimana di interventi di dottorandi e studenti, tutti sul tema del mutamento sintattico nelle lingue indoeuropee.

"Stavo rileggendo la sua presentazione per il mio corso, recentemente," mi spiega, mentre io ripenso alle notti insonni trascorse a spulciare citazioni dei Rig-veda per l'esame di linguistica storica, "... se le interessa, potrebbe essere un contributo valido per il convegno. Andrebbe ampliata, ma è un buon materiale di partenza."

La linguistica storica non è né tra le materie d'indirizzo della mia magistrale né la mia preferita – e come potrebbe, quando c'è da competere con la filologia romanza? -, ma devo dire che mi sento piuttosto lusingata dal fatto che la professoressa Lee abbia pensato a me. È un'opportunità che non aggiunge nulla ai miei crediti universitari, ma resta comunque un'occasione in più per ampliare il mio curriculum accademico – quest'anno mi laureo e non ho la minima idea di cosa fare della mia vita, whoops.

Così annuisco, dicendo che mi interessa, e lascio che mi spieghi i dettagli dell'evento lungo la strada per la caffetteria – mi dice che mi manderà una mail al più presto con tutte le informazioni che mi servono e le prime note alla mia presentazione.

Ci salutiamo davanti al bar, lei diretta verso il suo ufficio e io alla ricerca di un caffè americano.

A quest'ora del pomeriggio, la caffetteria è un caotico via vai di studenti in transito tra una lezione e l'altra. Mi guardo in giro, facendomi strada tra la fiumana di persone alla ricerca dell'inizio della coda verso la cassa.

Il mio sguardo passa distrattamente oltre, verso il bancone, mentre mi alzo in punta di piedi per cercare di capire sei ci siano dei bagel di sesamo freschi – c'è un uomo, di spalle, impegnato a sorseggiare un caffè, e io improvvisamente ricordo tutto quello a cui stavo cercando così disperatamente di non pensare.

La coda per la cassa avanza e io rimango immobile, lasciandomi superare da un paio di ragazze immerse nelle loro chiacchiere.

Quando Kevin si volta, sto già uscendo dalla caffetteria.

*

Te lo ricordi quell'invito nella mia vasca? Beh, è ancora valido ;)

Mezz'ora e sono da te.

Il martedì è il giorno di chiusura del Nelson, e da qualche tempo anche uno dei miei giorni preferiti.

James apre la porta di casa mia alle tre del pomeriggio, le chiavi della jeep ancora in mano e una busta di carta nell'altra.

"Ehi," mi saluta con un accenno di sorriso. "Ti ho portato della birra," annuncia, sollevando appena la busta.

Sorrido a mia volta, e il progetto che avevo di afferrarlo avidamente per il bavero della camicia di flanella e trascinarlo dentro casa senza troppi complimenti viene completamente dimenticato quando percorro i lineamenti del suo viso – è un dettaglio, ma è fondamentale.

"James!" esclamo, sgranando gli occhi.

Il sorriso sulle mie labbra si allarga quando lui inclina appena la testa e inarca un sopracciglio, osservandomi senza capire.

"Cosa c'è?"

Chiudo le mani sul suo viso, sfregando i pollici sulla pelle liscia delle guance. "La barba!" rido, sporgendomi per baciarlo.

Accarezzo i lineamenti del suo viso completamente privo di barba, mentre la sua bocca si muove sulla mia. Chiudo gli occhi, lasciandomi trasportare dalla sensazione del sapore di fumo sulla sua lingua e dalla sua mano che si chiude sulla mia schiena, avvicinandomi al suo petto.

"Non ti piace?" mi chiede divertito, baciandomi brevemente un'altra volta - senza una reale traccia di dubbio nella voce.

Cammino all'indietro, trascinandolo dentro casa e chiudendo la porta. "Stai bene," scrollo le spalle, prendendo la borsa dalle sue mani e muovendomi verso la cucina. "Almeno, eviterai di bruciarmi le cosce per quanto, mezza giornata?" aggiungo con leggerezza, sorridendogli di sbieco mentre appoggio le birre sul tavolo.

Ride sommessamente e si sfrega il mento con una mano, guardandomi sistemare le bottiglie nel frigorifero. "Può darsi."

Quando mi volto, mi ritrovo imprigionata tra il suo corpo e il mobile della mia cucina – le sue mani si chiudono sui miei fianchi, risalendo sotto la maglietta di cotone, e il suo viso si china appena sul mio, catturando le mie labbra.

Faccio fatica a tenere il passo del suo assalto, e mi lascio sfuggire un gemito roco quando la sua lingua cerca la mia e una delle sue mani scivola a stringermi il sedere per far aderire maggiormente i nostri corpi.

"Ehi," respiro sulla sua bocca, passandogli le dita tra i capelli.

James inclina il capo per scendere a baciarmi il mento e poi il collo. "Ehi," ribatte con un sorriso sulla mia pelle, mentre io mi impegno al meglio per togliergli la camicia.

Sembra sul punto di dire qualcos'altro, prima che io lo interrompa riportando il suo viso all'altezza del mio, baciandolo con la stessa irruenza che lui mi ha riservato appena qualche momento fa.

La sensazione dell'assenza della sua barba soffice sulle mie guance mentre mi bacia è nuova – piacevole. Mi stacco dal mobile, spingendo ancora di più contro di lui; la mano che era sul mio sedere sale appena, sistemandosi alla base della mia schiena e muovendomi a passo sicuro oltre la porta della cucina, mentre l'altra scivola sulla mia pelle sotto la maglietta fino a trovare i miei seni. Mi accarezza con le dita, e un suono basso e soddisfatto lascia la sua gola nello scoprire che non ho addosso il reggiseno.

Cammina all'indietro verso il divano, lasciandosi guidare dalle mie mani sul suo petto. Lo faccio sedere sui cuscini, sistemandomi senza troppi complimenti a cavalcioni su di lui e assalendo la sua maglietta.

"Non mi avevi promesso una vasca?" mi prende in giro con un sorriso mentre mi libero della sua maglia, abbandonandola sul pavimento.

"Dopo," rispondo, mentre lancio lontano anche la mia t-shirt in un unico movimento. Senza concedergli un altro momento inizio a muovermi su di lui, deliziata dalla sensazione della stoffa dei suoi jeans attraverso i miei pantaloni leggeri.

Stringo le dita tra i suoi capelli scuri, piegandogli il viso per poterlo baciare. Mi morde appena il labbro inferiore e le sue mani fanno ritorno sui miei fianchi, accarezzandomi e prendendo il controllo dei miei movimenti su di lui.

"Potresti venire anche così, non è vero?" mi chiede, spostando il capo per parlarmi all'orecchio.

Ad enfatizzare le sue parole, le sue dita si stringono di più sulla mia pelle. C'è un accenno di sorriso sornione sulle sue labbra, terribilmente simile a quello della notte in cui mi ha chiesto di pregarlo.

Chiudo gli occhi, percorsa da una familiare sensazione di piacere quando il suo respiro percorre la mia pelle e la sua voce roca parla di nuovo.

"Solo muovendoti su di me..."

"James..."

Nascondo il viso nell'incavo del suo collo senza trovare la forza di fermarmi, alla ricerca di uno sfogo a tutta la disperata eccitazione che sento crescere dentro di me.

Una mano di James abbandona il mio fianco per affondare tra i miei capelli sulla nuca, costringendomi a tornare a incrociare il suo sguardo.

"Guardami, Holly."

Schiudo le labbra, e mentre le mie mani continuano a stringere tra i suoi capelli vorrei solo dirgli che è bello, bellissimo – poi la sua bocca si chiude sul mio seno, a torturare il capezzolo con la lingua mentre i suoi occhi rimangono posati su di me e io sto venendo, e nient'altro ha importanza.

*

"Devo comprarmi una vasca," dice James, scostandomi i capelli bagnati da un lato per baciarmi il collo.

Sorrido, alzando lo sguardo verso il soffitto del mio bagno e reclinando la nuca sulla sua spalla.

"Le donne nude dentro la vasca non sono in omaggio, lo sai?" rispondo con leggerezza, voltandomi per baciarlo su una guancia.

L'acqua è ancora calda: di schiuma bianca ne è rimasta poca e sono piuttosto convinta che il pavimento sia da asciugare, ma sono così appagata e impigrita dal sesso da non trovare in me la forza di preoccuparmene.

"No?" chiede divertito. Mi circonda l'addome con un braccio, sott'acqua, sistemandomi contro il suo petto, e intreccia una gamba con la mia.

"No," sospiro, totalmente rilassata. "Dovrai tornare sempre qui..." mormoro, strascicando le parole e nascondendo il viso nella sua guancia liscia.

James sorride sulla mia tempia, baciandomi delicatamente.

La luce aranciata del sole al tramonto filtra appena dalle persiane e io chiudo gli occhi, godendomi la sensazione del suo corpo a farmi da cuscino e delle sue dita che si spostano a massaggiarmi lentamente la nuca.

Abbandoniamo la vasca solo quando ormai l'acqua è diventata tiepida: sul tappetino del mio bagno, James si scrolla i capelli bagnati, guadagnandosi il lancio di un asciugamano sulla faccia e una sequenza di imprecazioni troppo divertite per riuscire a risultare credibili.

"Birra?" chiedo allegra, raggiungendo la mia camera da letto alla ricerca dei miei vestiti.

James mi segue docilmente dal bagno, con addosso solo i suoi boxer neri e l'asciugamano sulle spalle per frizionarsi i capelli. Annuisce, percorrendo le mie gambe nude con lo sguardo mentre indosso la maglietta abbondante che uso come pigiama.

"La Gordon è la tua," mi dice con un accenno di sorriso, ammiccando.

Alzo gli occhi al soffitto, passandogli accanto per uscire dalla stanza. Gli afferro l'asciugamano e glielo tiro giù fino agli occhi, sporgendomi rapidamente per baciarlo sulle labbra e poi fuggire in cucina, senza preoccuparmi di indossare i pantaloni.

*

Questa settimana non avevo ancora fatto la spesa: nel mio frigorifero ci sono soltanto un cespo d'insalata, qualche yogurt e le birre portate da James.

Mi ha guardata scettico, inarcando un sopracciglio e chiedendomi come faccio di solito a sopravvivere. A quel punto, ho aperto il congelatore, mostrandogli la mia scorta di involtini primavera surgelati e di Hӓagen-Dazs al caramello.

Mezz'ora dopo siamo seduti sul mio divano, il tavolino basso apparecchiato alla bell'è meglio, le birre in mano e un piatto colmo di involtini primavera meravigliosamente fritti e unti che aspettano di raffreddarsi.

Bevo un sorso della mia Gordon direttamente dalla bottiglia, sistemandomi a gambe incrociate tra i cuscini.

"... L'appartamento era di mia nonna," gli spiego. Mi ha chiesto come diavolo facessi a permettermi l'affitto, considerando la retta universitaria e un discreto lavoro part-time, e una semplice domanda ha trascinato con sé una decisamente lunga serie di spiegazioni.

Mi allungo verso il tavolino per verificare la temperatura del mio cibo cinese. Accettabile. Gli passo il piatto, lasciando che si serva, e continuo a parlare.

"Quando ha conosciuto mio nonno è stato amore a prima vista, e così l'ha seguito a Galway." Mi sfugge un sorriso, ripensando agli occhi gentili e pieni d'amore di nonna Marie. "... la sua famiglia non glielo ha mai perdonato – mio nonno era un operaio irlandese e cattolico, non so ancora dirti quale delle due fosse peggio," proseguo, recuperando le esatte parole di nonno Sean quando raccontava questa storia.

Tra un involtino primavera e un sorso di birra, finisco di raccontargli di come mia nonna si sia sempre sentita una irlandese d'adozione, ma non abbia mai dimenticato la sua meravigliosa Inghilterra, e di come tutto questo suo amore abbia finito per conquistare anche me, che sono sempre stata la sua più piccola e preferita nipotina.

"Mi ha sempre incoraggiata a credere in me stessa e a inseguire i miei sogni, e quando se n'è andata..." – ripenso alla lettera che conservo nel mio comodino, e alla grafia tutta occhielli e corsivo di mia nonna, lucida e precisa fino alla fine. Ho dovuto attraversare il mare per trovare me stessa, piccolina mia. Forse un giorno vorrai farlo anche tu, e io voglio soltanto che tu abbia un porto sicuro dove attraccare. – "... mi ha lasciato questa casa."

James stringe la mano sul mio ginocchio, accarezzandomi appena con le dita e guardandomi con un sorriso gentile. C'è affetto e comprensione nei suoi occhi blu. Spinge verso di me il piatto con l'ultimo involtino primavera, mentre io gli passo la mia bottiglia di Gordon e gli chiedo di raccontarmi le più recenti disavventure di Sibyl e Jacob oltre il bancone del Nelson.

*

James lascia il mio appartamento poco prima della mezzanotte.

Mi spazzolo attentamente i capelli davanti allo specchio del bagno, cercando con pazienza di districare i lunghi nodi biondi in cui si sono arricciati: è colpa sia dell'averli lasciati asciugare naturalmente, senza il phon, sia – principalmente - di James che quando bacia, morde, spinge, ha l'abitudine di affondarci le mani e stringerci le dita.

Quando ho finito recupero il computer portatile e mi infilo sotto le coperte, senza indossare i pantaloni del pigiama. Il cotone fresco delle lenzuola è una benedizione sulle mie gambe nude; le mie cosce sono arrossate dai denti di James: evidentemente, quando non può usare la barba per lasciare un segno, trova altri modi per non far perdere le sue tracce.

Controllo pigramente le email, memorizzando la lunga lista di informazioni per il convegno che la professoressa Lee mi ha inviato nel tardo pomeriggio, e promettendomi di stampare al più presto in copisteria la sua nota di osservazioni alla mia presentazione sulla sintassi del verbo nel sanscrito vedico. Che vita interessante.

Sistemo al suo posto il computer e mi rituffo nelle coperte, spegnendo la luce e affondando il viso nel cuscino, i muscoli piacevolmente rilassati da tutto il sesso di questa giornata. Domani alle undici c'è lezione di Cinema, e la professoressa House ha promesso che ci fornirà l'elenco di film che dobbiamo guardare e studiare da soli per l'esame.

Chiudo gli occhi, pensando a quali nuovi modi troverà Sibyl per imbarazzare suo fratello, e all'improvviso il mio cellulare sta suonando e vibrando sul mio comodino - la sveglia segna le due passate, e io non ricordo neppure di essermi addormentata.

Mi sfrego gli occhi, intontita dallo schermo illuminato del telefonino, mentre cerco di capire che mi stia chiamando – quando leggo il nome sullo schermo, mi sollevo di scatto dal cuscino, improvvisamente di nuovo sveglissima.

"Pronto?" chiedo con un filo di voce, ogni nervo del mio corpo in attesa.

"Livia," risponde la sua voce – è poco più di un sospiro, ma è quanto basta perché una irrazionale sensazione di calore scivoli sulla mia schiena.

Oltre al suo respiro, riesco a sentire della musica e delle chiacchiere in sottofondo.

"Kevin," dico piano. Non avrei dovuto rispondere, penso, senza volerlo davvero. Oppure, dovrei smetterla di sentirmi di nuovo sua quando pronuncio il suo nome.

Mi risistemo tra i cuscini, passandomi una mano tra i capelli – saranno di nuovo annodati, alla fine di questa conversazione, già lo so – e guardando senza realmente vederlo il soffitto della mia camera da letto.

"Ti ho vista, oggi, in caffetteria," parla di nuovo. "Sei scappata..." La sua voce è sempre ambrosia e pugnalata, ma c'è qualcosa di diverso che non riesco ad afferrare.

"Non ero io."

Ride nel mio orecchio, basso e senza una reale traccia di divertimento nella voce. "Non sei mai stata capace di mentire."

Mi mordo la lingua, perché vorrei davvero – Tu sì invece, tu sì.

"Avremmo potuto parlare," continua, mentre io inizio a tormentare la pelle a lato dell'unghia del pollice con le altre dita. "Dobbiamo parlare," si corregge. "Livia, dio mio, mi manchi così tanto..."

L'ultima frase è soltanto una pugnalata, ma la sua voce – lenta, spezzata, triste – accende un campanello d'allarme nella mia testa.

"Kevin, dove sei?" chiedo, senza riuscire a nascondere la preoccupazione nel mio tono. "Sei ubriaco?"

C'è una pausa, in cui mi concentro per cogliere quanto più possibile i rumori sul fondo della telefonata.

"Sono al Red Lion," risponde finalmente, e io mi passo una mano sul viso. "... solo qualche Glen McKenna, alla nostra salute. Ti ricordi-?"

"Sì," parlo velocemente sulla sua voce. Non posso permetterglielo, dovrei riattaccare. Non avrei mai dovuto rispondere, non è vero?

"Eri bellissima," rivela, come se mi stesse confidando un segreto. "Lo sei sempre."

Un uomo da whiskey, una Principessa d'Irlanda. Un sorso di Gordon, una ragazza di Galway – un confronto che spingo agli estremi della mia mente con tutte le forze che mi rimangono, perché a cosa servirebbe?

"Tua moglie-"

"Non voglio parlare di lei. Voglio parlare di te. Con te." – Fa una lunga pausa, e io mi chiedo se stia buttando giù l'ultimo sorso di whiskey. "Dobbiamo parlare," ripete nuovamente, sempre più convinto. "Dovrei venire lì da te."

Mi risollevo dai cuscini, il battito del cuore accelerato nel mio petto. "No, Kevin, ascolta..."

"Perché no?" mi parla sopra, e io mi ritrovo a stringere il lenzuolo tra le dita.

"E' tardi, devi tornare a casa tua," calco su quel tua, perché in neanche dieci minuti di conversazione sono sull'orlo di una crisi di nervi e di lacrime. "E non dire quello che so che stai per dire, ti prego, perché potrei-"

La presa della mia mano sul lenzuolo si allenta, mentre la mia rabbia cala, trasformandosi in tristezza. Condannata a capirlo anche senza parole, sempre. Lo avresti detto, non è vero? Casa è dove sei tu.

"Lo so. Mi dispiace."

Ci stiamo pugnalando a vicenda.

Cala il silenzio, mentre io mi concentro sul ritmo del suo respiro nel disperato tentativo di placare il mio. Oltre alla musica e alle grida allegre degli altri avventori del Red Lion, a un certo punto, riesco a sentire la campana dell'ultimo giro.

"Torna a casa, non guidare," gli dico, spostando la mano dal lenzuolo per passarmela tra i capelli. "Hai capito?"

"Ti amo, mo leannan. Lo sai, non è vero?" chiede.

Non so cosa lo spinga a farmi così tanto male – il whiskey o la disperazione, ma so cosa spinga me a farmene altrettanto.

"Lo so. Ti amo anch'io. Buonanotte, Kevin."

Chiudo la chiamata e mi rifugio tra le coperte. Forse, se mi impegno abbastanza, domani mattina sarò riuscita a convincermi che è stato solo un sogno. 


Amici, eccoci con un altro capitolo! Come sempre, sono curiosa di sapere cosa ne pensiate!

Un bacio, a venerdì prossimo!

Holly

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