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A svegliarla fu quell'odore. Mentre il dormiveglia si dileguava, Rose cercava di identificarlo. Fumo? No, non era acre come fumo. Era qualcosa di più piacevole. Qualcosa di dolce. Era un profumo di... biscotti.

Rose si svegliò completamente, rizzandosi a sedere sul divano. Dalle finestre, il chiarore del mattino inoltrato inondava il soggiorno. Rose ricordò tutto. Miki in ospedale. Suo padre ubriaco sulla poltrona. E lei che lo uccideva... con dei dardi di fuoco usciti dalle mani.

"Vi siete svegliata, principessina?"

La voce era venuta dall'altra stanza. Rose rivolse lo sguardo alla poltrona dove aveva trovato suo padre: vuota. Si alzò. Nonostante la stanchezza e la mancanza di sonno, i suoi sensi lottavano per tornare vigili. Avvertiva uno strano pizzicore lungo le braccia, fino alla base del collo. Come brividi elettrici.

Camminò prudente fino al corridoio. Si fermò davanti all'ingresso della cucina. Per alcuni secondi, la sua mente si rifiutò di credere a quello che vedeva.

Papà reggeva con dei guantoni da forno rosa una teglia piena di biscotti. Indossava un capello da chef, e un grembiule da cucina decorato con un motivo floreale.

"Buongiorno," disse papà. "Ho pensato che avresti avuto fame, una volta sveglia." Sorrideva. La cosa più assurda è che suo padre sorrideva. Rose non ricordava di averlo visto sorridere da anni.

Papà appoggiò la teglia sul tavolo, e con una spatola cominciò a raccogliere i biscotti per metterli su un piatto. Erano a forma di cuore.

"Non hai idea di cosa ho trovato aprendo i cassetti bassi della credenza", disse ridendo. "Per esempio, gli stampini per i biscotti. E anche una confezione di sintopasta pronta da mettere in forno. Sarà stata lì da dieci anni. Era quasi scaduta!"

Rose era impietrita. C'era qualcosa di completamente diverso in lui, qualcosa di... incoerente. Lo guardò meglio. Era sbarbato di fresco, e indossava una camicia pulita. Ma non era solo quello. Era come se si muovesse con più leggerezza.

"Papà, stai... bene?" fu tutto quello che Rose riuscì a dire.

"Mai stato meglio. Ma cosa fai lì in piedi? Non assaggi?"

Rose, con molta prudenza, si avvicinò al tavolo. Tenendo sempre d'occhio suo padre, si sedette. Lui, sorridente, le porse il piatto con i biscotti. Lei ne prese uno. Osservò quella forma di cuore dal colore bruno dorato, più scuro lungo i bordi. Assaggiò. La pasta ancora calda del biscotto le inondò il palato di delizia. Era così buono che Rose si sentì quasi commuovere.

Si accorse di avere una fame indiavolata. Finì il biscotto e ne prese subito un altro. Papà prese la caraffa del caffè, e ne versò due tazze, una per sé e una per lei. Oh no. Adesso lo allungherà col whisky, come tutte le mattine. E l'incanto finirà.

Papà sorseggiò il caffè liscio, senza neppure metterci lo zucchero. "Sei, vuoi puoi finirli tutti", disse. "Io ho lo stomaco sottosopra." Scosse la testa pensieroso. "Devo proprio darci un taglio col whisky".

Rose lo guardò interrogativa. Buoni propositi. Un'altra novità. Rose mandò giù una sorsata di caffè e prese un altro biscotto.

"Non crederai di cavartela così facilmente, principessina." Suo padre allungò la mano verso il suo viso. Le titillò la punta del naso con l'indice.

Rose sentì il suo cuore perdere un battito. Il biscotto le si fermò in gola. Dovette mandarlo giù faticosamente con altro caffè. Non era un pugno. Non era uno schiaffo. Mi ha solo toccato il naso. Finì la sorsata e sentì il bisogno di riempire i polmoni con un sospiro.

"Ieri sera te ne sei sgattaiolata via senza dire niente" continuò papà. "Non è stato carino."

"Mi dispiace papà. Non accadrà più", si affrettò a dire Rose. "C'era questa festa, e..."

Suo padre scosse la testa. "Vorrei solo che me lo avessi detto. Capisco che... non è sempre facile parlare con me. Ma d'ora in avanti dovremo fare uno sforzo. Tutti e due, per parlare di più". Allargò le mani e fece spallucce, come a dire: questo è tutto.

Rose si sentiva persa. Avere paura di suo padre era il punto di riferimento del suo mondo. Come doveva rapportarsi a quell'uomo gentile, seduto all'altro lato del tavolo? Quell'uomo che odorava di colonia da quattro soldi e indossava un capello da cuoco, proprio il mattino dopo che...

Il pensiero attraversò Rose come un fulmine. Istintivamente si girò verso il punto dove, poche ore prima, aveva visto il sangue di Miki. Il pavimento era pulito di fresco. La sua mente cercò di mettere insieme i pezzi. Miki in un letto di ospedale, con un occhio pesto. Suo padre ubriaco sulla poltrona. E il pezzo più assurdo di tutti. I dardi di luce rossa.

"Ho la tecnopeste" disse Rose al vuoto.

"Scusami, signorina?" domandò papà, dopo un altro sorso di caffè.

Rose tornò a guardare negli occhi quell'uomo. "Ieri sera hai picchiato Miki. Ora è in ospedale" disse freddamente. Ecco. Ora l'incanto si sarebbe rotto. Ma non poteva durare a lungo.

Papà sembrò disorientato. Poi chiese a Rose: "Ho perso il controllo un'altra volta, vero?"

Rose annuì, senza avere il coraggio di aggiungere nulla.

"Come sta? L'hai vista?" chiese lui. Sembrava sinceramente addolorato.

"L'hanno tenuta in osservazione. Ha... battuto la testa. Oggi penso torni a casa."

Papà si tolse il capello con fare risoluto, come se avesse preso una decisione. "Tu finisci di mangiare e fatti una doccia. Dobbiamo andare a prenderla."

Si alzò dal tavolo. Rose lo seguì. Papà, davanti allo specchio del bagno, prese un pettine e cominciò a passarselo fra i capelli. Guardava la propria immagine riflessa con un misto di disorientamento, disapprovazione e dolore.

"Ma guarda che capelli" mormorò. "Quanto tempo è che non mi do una sistemata?" Continuò a lavorare col pettine furiosamente. Rose ebbe quasi l'impressione che volesse farsi del male, tirandosi in quel modo i capelli.

"Ehi Rose" disse lui, "forse dovresti prestarmi uno dei tuoi fermagli. Come starei con un fiocco rosso?" Accennò a un sorriso. Ma appariva in difficoltà. Sembrava voler nascondere coraggiosamente un dolore immenso.

Rose ebbe quasi la tentazione di mettergli una mano sulla spalla, per consolarlo. Poi si ricordò dell'occhio pesto di Miki. Si trattenne. Tornò in cucina, osservò a lungo i biscotti a forma di cuore. Tutto il suo mondo sembrava sconvolto. Ma non aveva importanza. Perché aveva la tecnopeste. E presto sarebbe morta in qualche modo orribile.


Il governatore Hendricks esaminò con attenzione l'acero tridente bonsai. Prese una decisione. Con il tronchese concavo, tagliò di netto un ramo che tentava di crescere sulla parte superiore della chioma. Uno stupido ramo pieno di minuscoli germogli, che rischiava di rovinare la forma perfetta del bonsai.

"Bisogna essere spietati, Geldof", disse. Geldof non rispose. Era in ginocchio, e non era molto in forze. Se non crollava a terra, era solo perché due poliziotti lo sostenevano per le braccia. Gli stessi due poliziotti che probabilmente lo avevano picchiato per buona parte della notte.

"Occuparmi di bonsai mi aiuta a meditare, Geldof" continuò il governatore. "Un bonsai deve prosperare in uno spazio ristretto. Un po' come la società di Sieben, non trovi?"

Geldof non rispose. I suoi occhi pesti non denotavano molta attenzione. E probabilmente, aveva qualche dente rotto in bocca che gli avrebbe reso difficile parlare.

Hendricks sospirò. Proseguì pazientemente. "Occorre recidere i rami che rompono lo schema. Imporre una rigida disciplina. L'ordine complessivo deve essere preservato, costi quel che costi. Per questo, Geldof, siamo dovuti intervenire con te. Quella tua idea di organizzare un sindacato indipendente fra i minatori. Di indire... scioperi." Pronunciò la parola quasi con ribrezzo. "Nello spazio ristretto di una colonia come la nostra, porterebbe disarmonia. Non possiamo permettercelo."

La porta dello studio si aprì. Entrò Lower. Il suo lungo volto scavato sembrava ancora più magro del solito.

"Mi ha fatto chiamare, governatore?" chiese Lower. Poi si accorse della presenza dei poliziotti e di Geldof. Guardò con freddezza l'uomo inginocchiato.

Hendricks si tolse il camice da lavoro. "Dottor Lower, spero non si impressioni" disse gioviale. "Il mio amico e io stavamo solo avendo una conversazione".

"Sono uno scienziato. Non mi impressiono facilmente" rispose seccamente Lower.

"Tiratelo su", ordinò il governatore ai poliziotti. Faticosamente, Geldof fu rimesso sui propri piedi. Hendricks gli si avvicinò.

"Questo è buon giorno per te" disse. "Per stavolta, ritorni dalla tua famiglia. Ma con il sindacato indipendente abbiamo chiuso, vero?" Hendricks cercò segni di coscienza negli occhi pesti dell'uomo. "Vero, Geldof?"

Geldof raccolse le sue forze, e annuì docilmente con la testa.

Hendricks fece cenno che lo portassero via.

"Mi ha fatto venire per mostrarmi come risolve le vertenze sindacali?" chiese Lower.

Hendricks ignorò la sua insolenza. Prese dalla scrivania un tablet, da cui recuperò la foto di una donna nera. La mostrò a Lower.

"Ha mai sentito parlare della dottoressa Farida Marley?"

"Mai. Dovrei?"

"I miei ragazzi l'hanno arrestata ieri sera, durante la retata sulla Vanguardia"

"Forse la dottoressa ama ballare il powerpunk."

Hendricks si domandò se passare una notte in prigione avrebbe reso Lower più affabile. Purtroppo, aveva bisogno di lui.

"Farida Marley è membro dell'Alto Direttorio Scientifico dell'Unione. È giunta a bordo di una nave unionista. Pretendeva che imponessimo una quarantena sulla Vanguardia, per colpa di un virus mutante... come l'ha chiamato? Ah sì, Mercury. Virus di cui non abbiamo trovato traccia".

"E allora, cosa ci faceva su quella nave?" domandò Lower.

Il governatore Hendricks fissò Lower. "Voglio che mi aiuti a scoprirlo. Spero che non abbia impegni per stasera".

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