A cavallo di una scopa

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Nel mio villaggio babbano le scope si usavano solo per pulire il pavimento. Ho sempre pensato fosse limitante, ma di certo non mi sognavo di inforcarne una. Tuttavia, capii fin da bambina che le scope avevano una loro magia intrinseca. Quando papà non c'era ed ero al sicuro nel fienile mi stendevo sulla paglia e ordinavo alla scopa di muoversi, avanti e indietro, avanti e indietro, nel frattempo io potevo leggere un libro e ottimizzare il mio tempo. Mamma spesso mi trovava sdraiata a quel modo e mi urlava dietro minacciando di andare a prendere la sua bacchetta. Nei suoi racconti spesso ci aveva parlato del Quiddich e i miei due fratelli ne erano sempre stati attratti, tantè che una delle poche incursioni nel monto magico prima dell'inizio della scuola di magia fu proprio a vedere una partita di Quiddich con la mamma. Da ex giocatrice lei era assolutamente esperta sulle regole e sulle strategie e ci faceva addirittura vedere i loro schemi, la differenza e la strategia da usare per ogni palla. In fondo ero sempre stata una fan del mondo del Quiddich a mio modo ovviamente. L'unico libro magico che aveva parlava proprio del gioco del Quiddich e l'aveva sfogliato fino a renderlo logoro. Fui una delle prime a volare su una scopa: le scope mi obbedivano de sempre, montarci sopra e volare era solo il passo finale.

Non avevo mai sofferto di vertigini: avevo passato l'infanzia a guardare giù dalle scogliere, non mi spaventava l'altezza e allora cosa poteva fermarmi? Apparentemente nulla, se non che la mia costituzione ossea era tendente al fragile e quando mi colpivano cadevo come un origami di carta pesta. Questo poteva fermarmi? Ovviamente no. Stare in infermeria a bere sieri e intrugli era orribile, ma era anche perfetto: ero esentata dalle lezioni e potevo richiedere tutti i libri che volevo dalla biblioteca. Una vera vacanza!

Mia mamma mi mandava strillettere una dietro l'altro dicendo che un giorno o l'altro mi sarei fatta ammazzare col Quiddich e che papà era preoccupato mi spezzassi l'osso del collo. Il fatto era che al suo contrario sul campo usciva la mia indole più battagliera: come vi dicevo, il cappello parlante non sbaglia mai. Invece che pensare alle traiettorie, alle strategie, ai passaggi come mia madre mi aveva insegnato, io non indietreggiavo di fronte allo scontro fisico e soprattutto detestavo che un mago mi schernisse in quanto strega e in quanto mezzo sangue. Mi faceva venire le bolle al cervello e perdevo completamente il mio autocontrollo.

Come se parte del sangue babbano che mi scorreva nelle vene facesse di me una strega di serie B, un'indegna. Invece che abbattermi il pensiero mi faceva ribollire d'ira e finivo per dimenticare tutte quelle rigide regole che nella vita seguivo così diligentemente. Erano anni complicati: il nome di Grindewald cominciava a risuonare sui giornali e c'era molta preoccupazione a scuola per questa idea che solo i puri maghi dovessero avere accesso alla formazione scolastica. Abbot era semplicemente allucinato dall'idea di vietare ad un giovane bambino mago l'accesso alla scuola, di qualsiasi casata fosse, indipendentemente dal suo sangue o dalla sua taratura sociale. Questo era uno dei fondamenti della scuola, ma non tutti i maghi era d'accordo e non tutti gli alunni erano così furbi da tenere l'adesione a queste idee estremiste segreta. A diciott'anni ti sembra sempre di aver capito tutto del mondo ed è allora solitamente che ti arriva la lezione più dura. Fa parte della vita suppongo.

Uno spavaldo diciottenne mise fine alla mia carriera di Quiddich. Era la finale per decidere il vincitore della Coppa di Quidditch: Grifondoro- Serpeverde. Uno scontro di gioco mi fece cadere dalla scopa, persi i sensi e precipitai a terra. Mi risvegliai in infermeria quasi un giorno più tardi. Il preside aveva chiamato i miei genitori: fu lì che capii quanto era grave. Vedere mio padre, sacerdote presbiteriano, mettere piede in una scuola di magia, significava che avevo davvero rischiato di morire. Quell'evento mi lasciò una commozione celebrale, diverse costole rotte e un desiderio insano di vedere Serpeverde schiacciato su un campo da Quiddich che tutt'oggi non riesco a tacitare. Rimasi a letto per diversi mesi e non riuscivo più a trasformarmi. Albus, allora mio professore di trasfigurazione, era davvero preoccupato: temeva che quello scontro di gioco cambiasse la mia percezione della magia, che facesse di me un mago a metà più di quanto il mio sangue non avesse fatto.

All'epoca ero capo scuola , prefetto e fresca vincitrice del premio di trasfigurazione : in quella scuola mi ero abituata a vincere e non accettavo ora quella sconfitta. Alla fine, studiai per gli esami finali da quel letto e ottenni i migliori voti del mio anno, una magra consolazione ai miei occhi in confronto alla coppa di Quiddich.

Da allora mi piace sbirciare i ragazzini del primo anno quando prendono in mano la loro prima scopa: c'è qualcosa di istintivo e primordiale tra un mago e la sua scopa, qualcosa che lascia un segno. Quel legame è una magia, qualcosa che non ha bisogno di bacchette eppure c'è e persiste, come se gli oggetti percepissero la magia che c'è in noi e decidano come reagire ad ossa. Perché la magia vera è nella scopa o nel mago? O forse in entrambi? C'è sempre qualcuno che sulla scopa ci sta a meraviglia. E parte della magia è che torna a ripetersi anno dopo anno, come le assegnazioni del cappello parlante. La magia è un flusso che scorre dalle vecchie alle nuove generazioni e non importa quanto il mondo magico o babbano siano cambiati: la magia è qualcosa che il mondo non potrà mai dimenticare del tutto.


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