Capitolo 4

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Il trenino rosso era il suo preferito. Li piaceva farlo correre lungo la ferrovia che smontava e rimontava a suo piacimento e che, quando si stancava di giocarci, lo riponeva in una scatola lunga e piatta e che metteva sotto il suo letto in modo da averla a disposizione.

Natale era ufficialmente la sua festa preferita. Riceveva un solo regalo ma era ciò che chiedeva da mesi ai suoi genitori. Ed ora aveva dipinto sul volto un'espressione perennemente felice e soddisfatta, nel guardarlo correre per la ferrovia di plastica e superare case di cartone ben disegnate e colorate. Immaginò di essere in uno di quei vagoni gialli, di andarsene da quel quartiere e di raggiungere un posto lontano, dove finalmente avrebbe potuto essere felice per sempre. E avrebbe portato sua madre con se, l'unico componente della sua famiglia alla quale si era legato di più.

Era logico che i figli si affezionassero di più alla mamma che ad un papà, in un caso come quello poi, era inevitabile la cosa. Sua madre era l'essere più gentile e amorevole che conoscesse. Era buona, dolce e paziente se faceva qualche errore, come non sedersi correttamente a tavola, sbadigliare senza mettere la mano davanti la bocca o fare versi poco corretti mentre si mangiava. Consumavano i pasti nel grande salone della villa e quasi sempre da soli, visto che il padre lavorava molto. Era socio di un locale dove lavoravano solo di sera, non sapeva altro perché, ogni volta che chiedeva spiegazioni, la madre li diceva che non erano cose che un bambino doveva sapere e si accontentava.

Quella sera tutti pensavano che stesse dormendo e invece, il bambino, stava giocando ancora con il suo trenino, imitando con la bocca, a bassa voce, il suo suono. Leggeri "ciuff-ciuff" uscivano dalle sue labbra rosee e fanciullesche, come il suo nobile aspetto. In particolare, come sua madre, possedeva due iridi color ghiaccio che erano capaci di incantare e ipnotizzare chiunque. Una qualità, a detta di quest'ultima, che possedevano solo le persone speciali e che erano destinate a diventare qualcuno nella vita.

Col senno di poi non sapeva se lo diceva per farlo felice o se lo diceva giusto per incoraggiare i suoi sogni di bambino. Fatto sta che non ci aveva mai creduto sul serio.

Il suo trenino rosso si era appena scontrato contro il muro della galleria, che non aveva preso una giusta mira per entrare, e i vagoni gialli si staccarono uno dopo l'altro, finendo sulla ferrovia vuota. Sospirò sonoramente, un poco imbronciato, ma con pazienza si rimise a ricomporre i pezzi per poter continuare il suo gioco. Istintivamente ne lasciò cadere uno a terra, però, quando sentì un rumore di vetri a terra provenire dal soggiorno e, in seguito, delle urla.

<< Avrei dovuto lasciarti a fare la puttana a Gjirokastra, invece che portati qui con me e sposarti, lasciandoti poi dare alla luce quel marmocchio che dorme di là! >> Esclamò rabbioso un furente padrone, un marito poco premuroso –cambiato negli ultimi mesi- e un padre per niente amorevole. Tutte e tre le personalità negative erano racchiuse in Milon. Un tempo l'uomo più desiderato di tutta l'Albania, ora sadico, violento e ubriacone con il vizio del gioco.

Iliria lo guardava con gli occhi colmi di lacrime, alcune già cadute lungo la guancia candida. Con una mano se ne massaggiava una umida, colpita poco prima dalla mano dell'uomo in un sonoro schiaffo, il quale suono era rimbombato nel corridoio deserto.

<< Non dire così. E' tuo figlio. >> Provò a calmarlo, usando un tono più dolce e amorevole, mentre a stento tratteneva i singhiozzi. Iliria si era sempre sdoppiata per suo marito, in due personalità: la prima, moglie affettuosa e generosa; la seconda: madre attenta e premurosa. Ma non era ciò che cercava Milon. Lui agognava a qualcos'altro. Era sempre stato così.

<< E' un bastardo! >> Replicò lui, spegnendo con forza il sigaro in un bicchiere colmo di whisky, quasi lanciandolo al volo. << Mi chiedo chi ti sia scopata per dare alla luce un simile inetto. Non mi somiglia affatto. >> Con una mano prese a far passare la cintura nera attraverso le fessure dei pantaloni grigi, raccogliendola poi a in una mano, raggomitolandola. Distese i muscoli del viso, come se fosse stato calmato da una forza sconosciuta, e si avvicinò alla moglie china a terra, carezzandole dolcemente i capelli. << Ha bisogno di disciplina, tu lo sai. Deve diventare un uomo. >> Concluse, quasi in un sussurro.

<< Ma ha solo dieci anni. >> Obbiettò lei, solo per pentirsene alcuni secondi dopo, quando sentì una manciata dei suoi capelli rosso sangue stringersi in una morsa, che era quella del marito.

<< Non osare contraddirmi, donna! Tu sei solo una mia proprietà e le proprietà non parlano. >> Lasciò di colpo la presa, facendola barcollare un poco davanti a lui, prima che potesse riprendere il controllo dell'equilibrio sulle proprie gambe, magre e piene di lividi. Lividi che neanche il bambino aveva mai visto. Dall'uscio della porta, assisteva a tutta la scena con lo sguardo confuso e disgustato allo stesso tempo.

<< Ma puoi fare altro. >> Aggiunse Milon, allungando una mano verso il suo petto e con un gesto fulmineo strappò il corpetto nero di pizzo che indossava la moglie per la notte. Il suo seno bianco fu esposto alla sua vista, adesso calmata da luccichii maliziosi nelle iridi nero pece. Si avvicinò con passo felpato a lei, sovrastandola con la sua altezza nettamente superiore alla sua, avventandosi poi su quei seni succulenti che lo chiamavano a se con vemenza.

<< No, aspetta! >> Lo scostò poco dopo.

<< Che c'è? >> Chiese, visibilmente scocciato sia dal tono di voce che dall'espressione. Guardando la moglie, vide che guardava in una direzione. Lungo il corridoio vi era una porta semiaperta e quando Milon guardò nella sua medesima direzione, di colpo questa si richiuse.

Il bambino accorse sotto le coperte, sbattendo involontariamente col piede al suo trenino, mandando i pezzi in alcune direzioni della stanza. Si coprì fin sopra i capelli, sentendo nel corridoio dei passi avvicinarsi e sua madre piangere più forte. Anche i suoi occhi chiari stavano piangendo, avvolto in quelle coperte.

Ansia, paura e tremolio stavano ancora una volta avendo la meglio su di lui. Si era ripromesso che non avrebbe più pianto, che avrebbe difeso sua madre da quell'essere che doveva chiamare padre tutte le Sante volte che lo incontrava. Eppure piangeva e tremava ancora come una femminuccia. Si vergognava di se stesso perché quel mostro aveva ancora messo le mani su sua madre e lui non poteva fare nulla. Di fronte a quel tono e a quel suo sguardo si sentiva impotente.

Quando la porta si spalancò con un calcio, fu sicuro di sobbalzare. Ansimò rumorosamente, cercando con tutto se stesso di non farsi sentire. Ma più cercava di restare calmo, di non piangere e di reprimere la paura, e più lo sentiva avvicinarsi. Il suono della plastica rotta, poi, li fece realizzare che il padre gli aveva appena rotto un pezzo del suo trenino preferito. Per un altro avrebbe dovuto aspettare il Natale prossimo.

Solo quando le sue coperte vennero scansate brutalmente e fu costretto a girarsi verso quello sguardo che l'attirava e che prometteva solo ira furibonda. Tremò ancora quando quegli occhi malefici li sorridevano in modo cattivo, spaventoso. E giurò di aver urlato, sentendo la sua voce mormorare: << Eccoti qui, piccolo bastardo. >>

Quando aprì di scatto gli occhi, il sogno sbiadì nell'oscurità della stanza. Un clacson in strada lo destò da quello che era il suo ennesimo incubo, rendendosi poi conto di essere in un bagno di sudore. Non si aggrappò ai frammenti che sparirono, preferì lasciarli andare e, possibilmente, dimenticarli.

Allungò una mano verso il comodino alla sua destra e accese l'abat jour, illuminando un poco la sua camera da letto, sopra il palco scenico della rosa negra. Deglutì, chiudendo nuovamente gli occhi, sapendo già che non avrebbe trovato sonno. Una mano profumata, dal tocco soffice, e le unghie leccate di rosso, si posò sul suo petto nudo. Istintivamente si voltò a guardare la sua compagna di quella notte, ricordando vagamente le perle del suo abito di scena sparse per il corridoio, la biancheria strappata di dosso con vorace desiderio. Nel suo viso addormentato coglieva un trucco leggermente sbavato, rendendola quasi un clown da circo.

Un sorriso stanco e soddisfatto si dipinse sulle sue labbra, volendo scacciare i demoni del suo passato che lo perseguitavano anche nei sogni notturni. Mise i piedi sul pavimento freddo, posando i gomiti sulle gambe e guardando in basso. Appena in tempo per sentire un fruscio di lenzuola accanto a lui e la stessa mano di prima posarsi sulla sua schiena.

<< Lavdor, va tutto bene? >> Chiese la voce gentile della donna, dall'accento così simile al suo, e impastata ancora di sonno.

<< Continua a dormire. >> Commentò, senza neanche rispondere alla sua vera domanda. Non lo faceva mai, a dire il vero. Lui non doveva spiegare niente a nessuno.

Si alzò, lasciando che la mano di Fatmir potesse ricadere sul materasso di quel letto troppo stretto. Le diede le spalle, un poco imbronciata dal fatto che la ignorasse e un po' stanca per pensarci.

Lavdor si avvicinò alla finestra, tirando di poco le tende per vedere fuori un cielo plumbeo minacciare una pioggia mattutina. Dovevano essere le prime luci dell'alba o giù di lì. Osservò per un momento le poche vetture in strade totalmente deserte da gente a piedi, una statua posta al centro di una piazzetta con una ghirlanda in mano. Si versò dell'whisky in un bicchiere, senza ghiaccio, e prese a bere. Aveva bisogno di qualcosa che lo riportasse alla sua di realtà. E mentre lo faceva, distintamente, si poteva udire un ciuff-ciuff che richiamò a se i frammenti del suo incubo.

********

Da quella sera erano passate diverse settimane e con la riapertura del nuovo anno accademico, anche la punizione di Edith era crollata. La punizione consisteva nell'essere accompagnata a scuola da Kara e passare il pomeriggio a dare una mano a Don Long nell'organizzare una cena di beneficenza alla quale avrebbero presenziato solo le famiglie più facoltose di Chicago, escluso qualche invitato che dava il suo contributo con il cibo, quindi cucinare torte, primi, secondi e contorni.

Sembrava che Kara e Mrs. Hamilton si fossero messe d'accordo nella punizione da dare una alla sorella e una alla figlia. Entrambe, infatti, si ritrovavano ogni pomeriggio alla Cattedrale ma Corine sembrava non aver perso il suo sorriso e il suo entusiasmo nell'aver, almeno una volta, disubbidito alle regole.

Arrivò Settembre con i suoi colori, le foglie colorate che cadevano dagli alberi e il profumo di caldarroste per le strade della città. La gente iniziava a sfoggiare già i primi maglioni della stagione, per le temperature che si erano rapidamente abbassate negli ultimi giorni. La cerimonia di apertura del nuovo anno accademico alla Chicago State College iniziò con un piccolo concerto dove, tra i musicisti, vi era Corine che abbracciava il suo violino e suonava divinamente, come sempre. Edith se ne stava con gli altri studenti ad ascoltare, rapita da quell'unione di suoni che componevano un incastro perfetto di note orecchiabili. Lei sapeva suonare un unico strumento ed era il flauto dolce. Solo una volta aveva provato a suonare il flauto traverso ma con scarsi risultati, tanto da far ridere un'intera classe. Ma in quel concerto non era richiesto il suono del flauto e quindi aveva risparmiato di fare una pessima figura.

Dopo gli applausi generali da parte dei presenti, il preside iniziò dando un caldo benvenuto a tutti e disse qualcosa a proposito della scuola, della fondazione e di come, da anni, gli allievi che uscivano da lì si erano sempre trovati bene sulla strada del lavoro. Sapeva di poter contare su i suoi alunni per degli ottimi risultati. Aggiunse anche che i docenti che prestavano servizio lì erano i più qualificati d'America. In conclusione dava un in bocca al lupo a tutti gli studenti e invitò i presenti a gradire qualcosa al buffet allestito all'entrata principale.

Quel primo giorno del nuovo anno passò molto rapidamente ed Edith si concesse un momento di chiacchiera con Corine e Tessa. Tony era già rientrato a casa per poter provare a scrivere qualcosa. Si era messo in testa di voler buttare giù un singolo da proporre alla clientela della rosa negra, visto che ormai, un giorno a settimana, di notte, si esibiva in quel locale in cambio di una modesta paga. Lui aveva saputo soltanto il mattino seguente ciò che era successo alle tre, quella sera. Dopo che si era richiuso il sipario aveva fatto un salto nel suo camerino per cambiarsi e non aveva fatto in tempo a trovarle, quando era tornato in sala. Ma, a parte il caos in generale, era stata una bella e divertente serata. A detta di Tessa, da ripetere. Edith aveva declinato gentilmente l'invito e, superato la fontana posta al centro della stradina del cortile universitario, si avviò a tornarsene a casa con la pila di libri stretti tra le braccia e la gonna sbarazzina del suo abito a fiori che voleva a destra e sinistra.

<< Signorina Colvin. >>

Edith si voltò alle sue spalle e vide un giovane correrle incontro. Lo riconobbe solo quando fu a qualche centimetro da lei. << Agente Wright. >>

<< Peter. >> La corresse lui, raggiungendola.

<< Certo. Peter. >> Ripeté, sembrando quasi una stupida. Doveva essere così anche la sua espressione. << A cosa devo il piacere? Non vorrete mica arrestarmi di nuovo, vero?! >> La buttò sullo scherzo, facendo un largo sorriso.

<< No, non preoccupatevi. Passavo di qui e vi ho riconosciuto. Stavate tornando a casa? >>

<< Sì, mia sorella mi aspetta. >>

<< Allora consentitemi di accompagnarvi. E' giorno ma le strade del quartiere, ultimamente, non sono molto sicure. >>

Edith fu un poco titubante inizialmente, ma il fatto che Peter Wright fosse un agente di polizia la rassicurò. Con lui non avrebbe corso alcun rischio. << Va bene. >>

Iniziarono a camminare verso la residenza degli Hamilton, per la scorciatoia che Edith stessa usava ogni mattina per risparmiare della strada in più che non serviva, se non a farle male alle gambe visto che non era abituata ne a correre e ne, tanto meno, a camminare per chilometri e chilometri.

<< Spero che non abbiate avuto alcun problema con la vostra famiglia. >>

<< No, figuratevi. >>

Lei non definiva problemi un sonoro schiaffo da parte di Kara, delle urla sempre da parte di quest'ultima, e l'indifferenza totale di suo padre. Anche se, quando stava salendo le scale, le è parso di scorgere un sorriso destinato a lei. Che comprendesse il suo stato di annegamento nelle rigidi regole della casa?

Peter fece un cenno d'assenso e per tutta la durata del tragitto non parlò molto. Edith le fece qualche domanda sul suo lavoro e lui rispose sempre in modo gentile, non sbilanciandosi mai e rispondendo sempre in modo vago. Con le mani in tasca e quella maglietta a maniche corte sembrava quasi uno studente universitario. Riuscì a scoprire che dopo il liceo aveva finito i suoi studi per dedicarsi alla carriera delle forze dell'ordine, dopo il servizio militare in Inghilterra, nel Galles. Poi era tornato lì a Chicago per stare vicino alla famiglia e aveva iniziato a lavorare nel distretto di polizia più esigente della città. Specialmente nel quartiere della rosa negra, la criminalità era assicurata e ciò significava più lavoro per lui e i suoi colleghi.

Da come ne parlò, Edith capì che era un tipo il quale aveva molto a cuore la legge e soprattutto il fatto che venisse rispettata. Ed ecco che riemergeva il poliziotto che, sempre gentilmente, l'aveva interrogata brevemente quando era stata arrestata per aver infranto non solo il coprifuoco ma anche il fatto che, essendo minorenne, era andata in un locale non adatto a lei. Non parlarono di quell'episodio, entrambi sembravano voler cambiare discorso.

Quando scorse in lontananza la sua casa, Edith si fermò di colpo, costringendo Peter a fare lo stesso. << La mia casa è quella laggiù. E' meglio se non ti fai vedere. >>

<< Famiglia protettiva e ansiosa, he?! Conosco il tipo. >> Azzardò lui, facendo un cenno di sorriso. << Parteciperai alla cena di beneficenza organizzata dalla Cattedrale del Santo Nome? >>

<< Penso di sì. Io sono una delle cuoche. >>

<< Allora vorrà dire che avrò il piacere di assaggiare le tue prelibatezze. Sempre che non tu non voglia avvelenarmi. >>

Edith ridacchiò, un poco nervosa. << Saranno solo piccole cose. Ma posso assicurare che i muffin al cioccolato non mancheranno. >>

<< Adoro i muffin al cioccolato. >> Rispose l'agente, rimanendo con un espressione serena e le labbra leggermente all'insù.

La giovane distese il suo sorriso, tornando poi seria e stringere i libri tra le braccia come a farsi forza. << Grazie per avermi accompagnata, Peter. >>

<< E' stato un piacere. A presto, signorina Colvin. >>

<< Edith. >> Lo corresse lei stavolta, prima che potesse tornare dalla strada dove erano appena venuti. << Chiamami Edith. >> Aggiunse, posando il mento sulla copertina dura di un tomo di duecento ventitré pagine.

<< D'accordo, Edith. A presto. >> La salutò, agitando la mano in aria, prima di darle le spalle per poter tornare indietro.

Edith rispose al suo saluto agitando anch'essa la sua esile e bianca mano in aria, scuotendo le dita. Lo osservò uscire dal suo campo visivo. Ammetteva che quell'incontro l'aveva sorpresa ma era stato di compagnia gradevole, benché l'unico argomento che fosse riuscita a tirar fuori dalla sua bocca fosse solo il suo lavoro. Ma aveva capito qualcosa di fondamentale: Peter Wright era un uomo attaccato perennemente alle regole, un po' come lei. Rientrando in casa si chiese se, per caso, da giovane le avesse infrante per andarsene in giro di notte in qualche locale notturno.

Quando richiuse la porta principale della residenza, ad accoglierla ci fu solo il silenzio totale. Sembrava non ci fosse nessuno. << Sono a casa. >> Annunciò, posando i libri, ancora legati dal nastro, su un mobile vicino allo zerbino dell'entrata. Passando, si girò verso lo specchio appeso lì sopra e mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio. L'unica ciocca che sfuggiva al controllo della sua severa crocchia quotidiana che realizzava ogni mattina prima di andare all'università.

Sentendo che nessuno le rispondeva, provò a vedere se ci fosse qualcuno. Ispezionò la cucina ma non trovò nessuno –era la prima stanza che le capitava davanti- e quando entrò nel piccolo salotto, vide che seduta sul divano vi era Kara con in mano una tazza fumante di tè. Le dava le spalle e forse non l'aveva sentita arrivare.

<< Sono a casa. >> Ripeté con tono più basso, restando per un istante sull'uscio della porta. Kara girò di poco la testa, la sua chioma riccioluta corvina ondeggiò appena, ma poi la riportò alla sua posizione precedente. Sembrava fosse arrabbiata con lei.

Un poco spazientita, Edith entrò nella stanza, raggiungendola. << Non dirmi che sei ancora arrabbiata con me per la storia del coprifuoco. Mi dispiace! Che devo fare per farmi perdonare?! >> Esclamò, visibilmente irritata dal comportamento di sua sorella, decisamente troppo severo. Neanche fosse veramente in un convento.

Kara assorbì lentamente le parole della minore, come una spugna, ed era esattamente quella la sua espressione. E solo quando alzò lo sguardo su di lei, Edith iniziò a credere che Kara non fosse giù di morale per quella storia ormai passata, ma per qualche altra questione. << E' successo qualcosa a nostro padre? >> Chiese, sentendo il suo cuore accelerare di colpo.

<< No. Sono io. >> Rispose subito dopo, sorseggiando il suo tè. << Oggi mi hanno licenziata dalla fabbrica. >> Posando la tazza sul tavolino basso in vetro, Kara affondò la sua testa nel palmo della mano.

Edith non sapeva che dire. Ancora una volta si ritrovava con la bocca spalancata e spiazzata da una rivelazione che suonava come un martello in testa. Sua sorella era stata licenziata dalla fabbrica dove lavorava. Il progresso era arrivato anche lì. Riducendola al licenziamento significava anche che l'economia della famiglia stava vacillando, sempre di più. C'era ancora il lavoro di suo padre, ma quanto si poteva guadagnare continuando a vendere patatine fritte per la strada? I bei tempi erano ormai andati ed era palese ad ogni cittadino di Chicago, che li conosceva, che i Colvin non navigavano nell'oro. Se un tempo avevano avuto una cospicua somma di denaro, se li era portati via Mrs. Colvin nella bara, insieme alle spese per il funerale.

<< Mi dispiace. >> Mormorò, quasi a se stessa più che alla maggiore. Era tentata di chiedere dove fosse suo padre ma aveva paura della risposta, aveva paura di importunare ulteriormente Kara, che aveva già tanti problemi di se. A testa bassa e con lo sguardo triste, abbandonò il piccolo salotto per salire nella sua stanza e chiudersi dentro fino all'ora di cena.

Anche quando, il giorno dopo, ne aveva parlato con le sue amiche, queste, avevano manifestato il loro dispiacere. La notte portava consiglio, dopo tutto, e ad Edith era stato esattamente così.

<< Ho bisogno di trovare un lavoro. >> Annunciò a Corine, Tessa e Tony che erano seduti sotto l'albero del cortile dell'università. Niente di ciò che avrebbero detto, l'avrebbero esortata a cambiare idea. Era sempre stata il di più della famiglia, colei che portava il pesante fardello di pecora nera per la sua condotta e il suo comportamento, a tratti infantile. Ma ora era giunto il momento di maturare e voleva farlo aiutando la sua famiglia. Nonostante tutto era ciò che li rimaneva e voleva loro un gran bene. Anche se gli schiaffi di Kara li sentiva ancora sulla sua pelle e suo padre non si degnava mai di abbracciarla o confortarla. Ognuno aveva i suoi problemi ed era ora che quello di famiglia diventasse anche suo.

<< Ma cosa vorresti fare? >> Le chiese Corine, addentando una mela rossa.

<< Qualunque cosa. Ho bisogno di rendermi utile e non posso lasciare che la mia famiglia cada in miseria. Non siamo poveri ma, di questo passo, non avremo di che vivere. >> Era una chiara richiesta di aiuto.

Tony posò a terra la sua chitarra. << Ho sentito che il cameriere della rosa negra è malato. Ne avrà per un bel po' e nel frattempo cercano un sostituto. Maschio o femmina, credo sia indifferente. >>

Assolutamente no! Pensò all'istante. Aveva giurato su qualsiasi cosa che non avrebbe messo più piede in un posto del genere. Cosa balenava nella mente del suo amico?

<< Devo ricordarti com'è finita l'ultima volta? >>

<< Potresti falsificare i tuoi documenti, modificare la data di nascita, l'anno per l'or più. >>

Non le piaceva. Non le piaceva proprio. Falsificare la sua carta d'identità significava mentire alla legge e più ci pensava e più le risuonavano in mente le parole di Peter Wright.

<< Non penso sia una buona idea. >>

<< Edith, pensaci un secondo. Hai bisogno di soldi, i tuoi genitori potranno anche non saperlo mai, potresti inventare qualche scusa. Tipo una lezione pomeridiana. Così gli aiuteresti. Senza contare che, essendo minorenne, non ti prenderebbero mai in nessun posto a lavorare. >> Si fermò un attimo, poi riprese a parlare. << Se vuoi posso parlare con il proprietario. Ieri sera, dopo lo spettacolo, mi ha invitato a bere del whisky con lui. Non è una persona cattiva e comprenderà la situazione. >>

Poteva realmente funzionare? La sua mente iniziò a ipotizzare sul fatto che poteva provare. Del resto aveva due possibilità: o si faceva coraggio, andava al colloquio e faceva di tutto per farsi accettare, oppure restava senza far niente a vedere la famiglia che cadeva in miseria. Mentalmente piagnucolò sul fatto di non voler tornare lì. Ma era una ragazza cresciuta tra i principi morali, nell'altruismo e nell'essere disposta sempre verso il prossimo, il più bisognoso. E in quel momento la sua famiglia aveva bisogno di lei. Se tutto sarebbe andato bene sarebbe riuscita a guadagnare un po' da permettere alla sua famiglia di mantenersi in equilibrio, almeno fino a quando Kara non avrebbe trovato un lavoro. Più che una lezione pomeridiana, poteva quindi dire una mezza verità: aveva trovato un lavoro come domestica nella casa degli Hamilton. Era sicura che Corine le avrebbe retto il gioco. Doveva farsi perdonare in qualche modo per averla trascinata quella sera alla rosa negra e averla fatta arrestare.

<< Puoi organizzare un incontro, Tony? >>

<< Certo che sì. E per i documenti, lascia fare a me. >> Detto ciò, le fece l'occhiolino.

Edith sorrise, leggermente più sollevata. Ma non era ancora detta l'ultima parola. Quella spettava al proprietario della rosa negra, che avrebbe deciso se assumerla oppure no. Lei doveva fare di tutto per farsi assumere. Non moriva dalla voglia di tornare lì ma, come aveva detto prima, aveva bisogno di soldi per aiutare la sua famiglia e quell'impiego l'avrebbe aiutata parecchio. Restava solo pregare affinché andasse tutto bene e, se avanzava tempo, avrebbe pregato anche per se stessa. Ne sentiva la profonda necessità.




Wolf's note:

Iniziamo ad addentrarci un pò di più nella vita dei personaggi secondari della storia. Apriamo il capitolo 4 con un flashback su un ricordo del passato di Lavdor, personaggio enigmatico e misterioso. Avremo modo di scoprire le mille sfaccettature del suo carattere più avanti, qui ne abbiamo avuto, nel frattempo solo un assaggio.

Alla fine, invece, Edith ha dovuto prendere una decisione importante. Sacrificare la sua promessa di non mettere più piede alla rosa negra per poter aiutare i suoi famigliari dopo il licenziamento di sua sorella dalla fabbrica.

Riuscirà nel suo intento di farsi assumere come cameriera temporanea alla rosa negra? Lo scopriremo nel prossimo capitolo. Vi do appuntamento a Lunedì con il capitolo 5. Essendo impegnata con il contest potrò dedicare poco tempo alla storia durante il week-end e quindi ho deciso di spostare direttamente l'aggiornamento alla settimana prossima. Anche perché non mi pare giusto promettervi una data e poi non mantenere la promessa di aggiornare. 

Comunque, per eventuali info, aggiornamenti o avvisi riguardo le mie storie, vi invito a visitare e mettere "mi piace" alla pagina facebook che trovate nella mia pagina d'autore qui su Wattpad, se interessati. <3

Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate una stellina o un commento. Ne sarò felice di leggere le critiche positive o negative che siano. Risponderò a tutti e ben accettate anche recensioni negative, sicché possano aiutarmi a migliorare. ;)

Appuntamento a Lunedì. Vi abbraccio tutti! 

Wolfqueens Roarlion.

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