2. Incidente

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A cosa mi servono i piedi,

se ho le ali per volare?

Frida Kahlo

A fine giugno, un'amica di mia madre, Mirela, mi aveva regalato una gattina bianca con chiazze grigio topo ed era una meraviglia.

Facendo le fusa, si appisolava sulle gambe come si posa una piuma sul corpo, non a caso la chiamai Plume, piuma in francese. Divenne la mia migliore amica, una sorella con la quale condividevo quel periodo oscuro.

Buffo, lei era bianca come la luce in fondo al tunnel. Quando la tenevo tra le braccia, mi scorrevano davanti le immagini degli anni trascorsi, quando ancora potevo camminare, viaggiare, ballare lo swing e divertirmi alle feste con gli amici.

Ma era il passato quello, purtroppo. Adesso avevo di fronte a me una nuova vita. Né migliore, né peggiore, semplicemente diversa.

Ciò che più di ogni altra cosa m'infastidiva erano gli sguardi degli sconosciuti, che aspettavano solo di vedere la saliva scivolare lungo il mento per poter dire in conclusione:

«Sì, è una disabile a tutti gli effetti».

Ma non era così, ero completamente normale.

Soltanto il mio corpo era in un momentaneo periodo assente, in vacanza.

Ero capace d'intendere e di volere, però la mia voce era fievole, e non riuscivo ancora a camminare. Quindi odiavo dal profondo chi mi considerava un'invalida dalla nascita.

Chiunque mi guardasse con occhi dolci e pietosi, come si guarda una bambina abbandonata, mi disturbava. Avrei voluto urlare: " Smettetela di guardarmi così, non so camminare, ma so cosa state pensando e vi sbagliate di grosso!"

Mentre eravamo al chiosco, cominciò a cadere della pioggia fine e fitta, portata da un leggero vento da ovest, che si era alzato proprio in quel momento.

Dall'incidente la mia vita non era stata più la stessa, molte cose erano cambiate.

Non vivevo più a Lipsia, ma con mia madre a Bolsena, in Italia, ed ero stata lasciata dal ragazzo del quartiere accanto, con il quale avevo avuto una lunga relazione.

Ero ancora iscritta all'università alla facoltà di Pedagogia steineriana, ma non seguivo più le lezioni.

L'incidente aveva trasformato la mia vita, ma più di ogni altra cosa mi aveva resa una donna che non sognava più come una volta e non viveva più sulle nuvole e nelle fantasie.

Ero diventata una combattente aggrappata alla realtà, con i piedi a terra e una grande forza di volontà. Mirela, l'amica di mia madre, diceva spesso: «Hai un'aura diversa, pacifica, posata». Avevo cancellato la negatività, il pessimismo e la paura che avvolgevano la mia esistenza; prima ero sempre insoddisfatta e tendevo a lamentarmi di ciò che possedevo, che stolta.

Dall'incidente il mio atteggiamento verso l'avvenire fu piuttosto positivo. Non avevo più nulla di cui vergognarmi o da nascondere.

Avevo perso la facoltà di camminare, mi muovevo perciò in sedia a rotelle e venivo, per la maggior parte del tempo, spinta, perché farlo con una mano sola mi rendeva troppo lenta.

Mi facevano male la schiena e il collo, perché spesso ricurvi e tesi, andavano spesso in spasmo, che era molto doloroso.

Il braccio sinistro era piegato su se stesso per via della spasticità, non riuscivo a muoverlo, era come un peso morto, non lo percepivo affatto, come non esistesse.

L'impossibilità di dargli impulsi mi faceva soffrire molto. È terribile avere la sensazione di non tenere sotto controllo una parte del corpo.

Il cervello dice alla mano di aprirsi, ma per quanto questo urli, lei non ascolta e non reagisce.

Quel braccio stava proprio lì, lo vedevo ma era come non vivesse con me, come lo facesse in un mondo parallelo.

A un certo punto desideravo non averlo più attaccato al corpo.

Era un arto inutile, "cosa me ne faccio di un braccio e di una mano che non funzionano?", pensavo depressa. Ero arrabbiata con la vita, l'odiavo dal profondo del cuore.

Non riuscivo a capire perché mi fosse accaduto tutto questo, cosa dovevo imparare da tale sventura?

Qual era il fine di questo terribile avvenimento? Lo capii solo in seguito, al termine del tunnel.

«Non sei una disabile! Sei momentaneamente inabile!» diceva spesso Serena, la migliore amica di mia madre.

«Il tuo corpo è momentaneamente assente» rincarava la dose ad alta voce quest'ultima.

L'estate di tredici anni fa, in particolare il 18 luglio 2019, avevo urtato con violenza la testa su un sasso mentre inscenavo la parte del gigante in una favola, durante la prova generale di uno spettacolo teatrale di un seminario di teatro in un parco, poiché secondo il copione, dopo una dura lotta contro il protagonista eroe, dovevo cadere a terra morta senza testa, volevo che la scena fosse il più credibile possibile così mi lasciai cadere di peso, urtando la nuca su una pietra, coperta di muschio, perciò invisibile.

Persi la testa per davvero! Mi alzai in piedi ed ebbi le vertigini. Pensavo di perdere conoscenza, ma rimasi presente tutto il tempo fino all'arrivo in ospedale e a poco prima dell'operazione.

«Da dove proviene il sangue?» gridò Simon, indicando la pietra a terra.

«Dalla testa di Liberta!» risposero in molti, vedendo un taglio tra i capelli.

«Allora sdraiatela a terra, con cautela! E mi raccomando, non muovetela assolutamente!».

Mi stesero con prudenza a terra e Nadia chiamò l'ambulanza. Tutti erano preoccupatissimi, soprattutto l'insegnante, che non sapeva come aiutarmi, d'altronde il pronto soccorso era stato già chiamato, non si poteva fare altro.

Solo attendere l'arrivo dei soccorsi.

Aspettammo l'ambulanza, che sopraggiunse venti minuti dopo.

Nel frattempo mi sentii meglio, a parte il forte mal di testa, ma perdevo ancora qualche goccia di sangue dalla ferita.

Mi portarono via e i colleghi di corso con i quali avevo più legato ci seguirono in macchina fino all'arrivo in ospedale.

Intanto gli infermieri, tutti e tre dei bei ragazzi, mi domandarono cosa fosse successo e io, nonostante fossi nel profondo confusa e preoccupata, cercai di spiegare loro l'incidente, mordendomi con nervosismo il labbro inferiore. All'arrivo degli infermieri, mi stesero su una barella, mi legarono con delle cinghie per non farmi cadere, mi misurarono la pressione, che risultò nella norma, e mi misero nel furgoncino bianco, accesero il girofaro giallo e la sirena di soccorso. Non potevo vedere la strada di fronte a noi, perché gli occhi erano puntati sulla finestrella posteriore sulle porte del mezzo, un infermiere si sedette nel posto anteriore accanto al guidatore, altri due accanto a me, uno mi tenne la mano per tutto il viaggio: ero spaventata.

Poi mi fasciarono la testa. Tutti erano molto gentili, quasi troppo, come fossero le ultime ore della mia vita.

All'arrivo in ospedale, i miei compagni di studio erano già là e, da quel momento in poi, Nadia rimase con me per tutto il tempo, spesso stringendomi la mano per tranquillizzarmi. Al pronto soccorso mi mostrarono su un display l'emorragia, ancora contenuta e non grave, almeno così sembrava.

Appariva come una minuscola briciola in una noce, il mio cervello. Mi bendarono la testa e mi portarono in una camera, dove si trovava un'altra donna, che dormiva già. Andai al bagno e pensai di scrivere a mia madre, ma non lo feci per paura di cosa questo avrebbe comportato.

In seguito mi fecero una flebo. I medici dissero che non c'era bisogno di ricucire il taglio, poiché aveva già smesso di sanguinare, non era molto profondo e si stava già rimarginando.

Poco dopo permisero ai miei colleghi di entrare a vedere come stessi.

Dovemmo fare silenzio e parlare sottovoce per non svegliare la mia vicina di letto. Ero sotto osservazione e sarei dovuta rimanere anche la notte, malvolentieri.

Avevo paura, non sapevo cosa stava succedendo. Era grave la mia situazione? Quanto? Ero fuori pericolo? Rischiavo la morte? La risposta è si.

Ero in buone mani, ma non era ancora chiaro cosa sarebbe successo dopo e cosa questo incidente avrebbe comportato.

I ragazzi risultavano essere tranquilli e questo mi tirava su di morale, mi tranquillizzava, forse il mio timore era eccessivo?

Tenevo gli occhi sgranati, concentrandomi sul mio corpo e sulle più piccole e strane reazioni.

A quel punto si pose il problema di avvertire mia madre e raccontarle precisamente i fatti.

Ero titubante perché immaginavo che si sarebbe preoccupata molto. Sapevo però che era una cosa impossibile da evitare e accettai.

La chiamarono e lei, come previsto, si preoccupò così tanto da prendere il primo volo per Lipsia.

L'emorragia però non aveva smesso di agire, perché qualche ora dopo, al calar del buio, mi venne una gran nausea e cominciai a dare di stomaco.

Non ero fuori pericolo.

Così durante la notte, dopo aver rimesso, venni indotta in coma farmacologico, ancora ricordo il camice da notte aperto sulla schiena e sul sedere, il lettino gelido in metallo, sul quale mi stesero, l'aria fredda nella stanza e la maschera dell'ossigeno che mi posarono sul naso e la bocca, da quel momento in poi il buio.

Mi dissero di contare dal numero venti allo zero e pensai sorridendo "Ora crederete che mi addormenterò in questo squarcio di tempo! Vi farò ricredere!"

Caddi in un sonno profondo indotto.

Durante il volo in elicottero fecero una deviazione per l'ospedale più grande di Lipsia perché ero giovane e dovevo essere operata all'istante, era necessario intervenire il prima possibile per salvarmi.

Ho, tuttora, la strana sensazione di ricordare quel viaggio in volo, il buio e una piccola,'"stanza" nera piena di bottoni, alcuni dei quali accesi, con due sedili posteriori e due anteriori, le voci degli infermieri che mi tenevano d'occhio.

Ma non è possibile, ero in coma! O forse no? Appena arrivata a destinazione subii un intervento alla testa, nella quale mi tolsero una parte del cranio per interrompere i sanguinanti e poi misero un tubicino per far uscire il liquor, il liquido cerebrospinale, in eccesso.

Ciò di cui non era stato tenuto conto era il fatto che qualche giorno prima, giocando a pallavolo, avevo ricevuto un duro colpo al pollice della mano destra, che mi era stata ingessata fino al gomito.

Così tolsero il gesso al braccio e videro un enorme ematoma bluastro tra il pollice e l'indice destro, mi bendarono la mano.

Il non poter attutire la caduta con essa era stata la causa primaria dell'incidente, me ne resi conto soltanto mesi dopo.

Ma non fui mai arrabbiata con quell'arto che non resse la caduta, d'altronde fu l'unico funzionante per molto tempo, mi sentii abbandonata dal mio stesso corpo, mi aveva lasciata, questo sì, ma non provai mai rabbia nei suoi confronti, d'altronde era il mio cervello che aveva avuto un corto circuito! E se dovevo essere arrabbiata con qualcosa, dovevo esserlo con quel sasso che si trovava nel momento e nel posto sbagliato, oppure era solo mia quella dannata sensazione di torto per non essere stata abbastanza attenta.

Ci misi molto tempo per perdonarmi, troppo, anni...

Stetti in uno stato d'incoscienza e per diciassette giorni rimasi in un sonno indotto e ogni mattina Aaron, il mio coinquilino, venne a leggermi un libro.

I miei amici mi venivano a trovare spesso, sperando mi riprendessi da un momento all'altro.

Dovettero attendere più di due settimane, per l'esattezza due settimane e mezzo. Ero attaccata a tubi di vario genere e avevo una sonda nasogastrica con la quale ricevevo nutrimento.

Non voglio immaginare cosa abbia provato mia madre quando mi vide in quelle condizioni.

Rivedendo anni dopo le foto che mi inquadravano mi trasmise uno strano effetto, da un lato non me ne ricordavo affatto e dall'altro non mi riconoscevo, era come se non fossi io quella nell'immagine: avevo un distacco mentale involontario, come un autoproteggersi dal dolore dei ricordi, faceva male fisico e mentale rivedersi in quella condizione, era come non mi volessi più calare in quello stato pietoso. Gradualmente gli infermieri, sotto direttiva dei dottori, cominciarono a diminuire il dosaggio dei farmaci che mi tenevano in coma e pian, piano, di giorno in giorno cominciai prima con l'aprire le palpebre con lentezza, poi ad aprire gli occhi per intero.

Passavo da momenti d'incoscienza ad altri coscienti.

Il mio primo ricordo che ebbi, fu che al mio presunto "risveglio" non ci fosse solo il sorriso di mia madre ad accogliermi, bensì anche gli occhi vispi e rassicuranti del mio ex ragazzo, James, dal quale ero stata lasciata nel maggio precedente e con il quale non avevo avuto più alcun contatto.

Dopo la separazione avevamo completamente chiuso i rapporti e l'amicizia.

SPAZIO AUTRICE

Ci inoltriamo più profondamente nell'anima di Liberta e scopriamo che tipo di incidente ha avuto. Sembra proprio la sfortuna sia andata a farle visita!

Cosa ne pensate? Un braccio non funziona più, si riprenderà? O rimarrà in sedia a rotelle a vita? 

Fatemi sapere le vostre ipotesi.

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