6. Un angelo venne a salvarmi

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M'innamorai velocemente. 

E chi dice che non sia possibile? 

L'amore, quando arriva, deve essere lasciato libero. 

Perché la libertà è amore.

«Dov'è il bagno?» chiesi con voce affannata e in preda al panico una mattina di agosto, una volta esser tornata completamente cosciente e sveglia.

«A cosa ti serve il bagno?» domandò mia madre quasi ridendo.

«Devo fare pipì, è urgente» asserii in imbarazzo.

«Falla!» esclamò lei.

Mi arrabbiai. Cosa intendeva dire con "falla"?

«Hai il catetere» aggiunse.

Ecco svelato il mistero.

Eppure non me ne ero resa minimamente conto. Mi sembrava di aver fatto una profonda dormita e di essermi svegliata man a mano a causa di un rumore.

Quello stesso pomeriggio, essendo confusa e non capendo esattamente cosa fosse successo, mi guardai intorno e vidi una stanza asettica di ospedale con dei letti uguali intorno al mio e realizzai, capii cosa fosse accaduto, pur ricordando solo vagamente il passato: ero stata completamente assente per diciassette giorni, dal 18 luglio 2019 al 4 agosto, quando respirai per la prima volta da sola e riuscii ad aprire leggermente le palpebre.

Ero disorientata, il periodo successivo ero frastornata e ogni suono mi arrivava estremamente ovattato.

Ero stordita, non capivo nulla, mille idee mi saltavano per la mente, ma la più plausibile era il fatto che fossi stata operata alla testa, notando la fasciatura: mi ricordavo dell'incidente.

Portavo il pannolone e la cosa mi faceva vergognare.

Non ricordavo nulla dei giorni di coma.

Era un buco bianco in un dipinto a colori, quale era stata la mia vita fino ad allora. Un insieme di pagine vuote o strappate da un libro.

I miei sentimenti erano offuscati, ero felice di rivedere le persone che amavo e che mi volevano bene, anche se mi sorgeva spesso il dubbio che stessero accanto a me per compassione.

Comunque non mi facevano sentire sola e abbandonata, alla deriva di un mare troppo vasto per una donna così piccola.

«Cos' hai visto in coma?» chiedevano spesso incuriositi i miei amici, quelli veri.

«Niente di niente» rispondevo io, «nessuna luce in fondo al tunnel...» asserivo quasi ridendo, sapendo che non fosse proprio questo ciò che desideravano dicessi.

La prima volta che fui realmente cosciente, non vidi solo mia madre seduta accanto a me, ma anche il ragazzo che mi aveva fatta innamorare senza ritorno, James.

Era posizionato su una sedia in legno accanto al letto e teneva il viso poggiato sulla mano sinistra, il cui braccio era puntellato sulla coscia.

Teneva il volto rivolto verso il basso e se non avessi visto poco dopo i suoi occhi, avrei giurato di crederlo piangere.

Mi turbava molto la sua presenza. Non era però venuto per chiedermi di tornare insieme, bensì mosso da rispetto, affetto e amicizia: mi voleva ancora sentitamente, intimamente bene e non avevo dubbi al riguardo.

Io invece ero ancora arrabbiata con lui. La furia nei suoi confronti con il coma non era svanita, anzi, percepivo le emozioni molto più intense, come se con l'incidente i miei sentimenti si fossero intensificati.

In quel momento non ero più solo arrabbiata con lui, lo odiavo.

Tuttavia, in quel caos sentimentale che avevo dentro di me, lo amavo ancora profondamente.

Non avevo idea di cosa provassi in realtà nei suoi confronti, avevo bisogno di tempo.

Per realizzare il tutto, per capirmi, sentirmi e percepirmi come essere umano.

Rivederlo adesso, alla soglia dei trent'anni, in un letto di ospedale, mi fece sprofondare in un limbo depressivo.

James, dopo la separazione, invece aveva ricostruito la sua vita senza una donna accanto ed era un giovane uomo felice e soddisfatto di sé stesso, finalmente era riuscito a iscriversi a un corso di studi che gli piacesse, Musicologia, seguendo il mio consiglio, e aveva trovato lavoro in un negozio di vinili a Lipsia, che organizzava eventi musicali.

L'ultima volta che ci eravamo sentiti lui mi aveva confessato che frequentava una ragazza molto interessante ed era deciso a conquistarla. " Perché lui poteva e io invece no?

Perché non era accaduto a lui l'incidente? Allora non esiste il karma..."

Per tale motivo avevamo preferito chiudere i contatti, in quanto la cosa mi faceva soffrire troppo. 

In quel momento la gelosia e l'invidia mi divoravano.

La sua presenza in ospedale, però, mi rendeva felice.

Mi faceva piacere ricevere le sue attenzioni e che mi pensasse e si occupasse di me.

Nel frattempo in sottofondo sentivo nella mia testa una canzone di Visar Kasa, un mio carissimo amico, Sweet Regrets, e il ritornello suonava così:

I still love you badly

Dolci dispiaceri, Visar Kasa

Ti amo ancora disperatamente

Lo amavo ancora.

A essere sincera fu lui che un anno dopo mi scrisse un messaggio: 

Liby, non riesco, è più forte di me. Sei un peso, non voglio sentirti, né vederti più. Addio.

Risposi, perché ero diventata impulsiva e la rabbia mi accecava. Io un peso?

Scrissi un semplice:

Vaffanculo.

Mi mancava una figura maschile accanto. Avevo perso mio padre a diciannove anni a causa di un infarto lancinante.

Ne avevo sofferto molto, ci misi un bel po' per riprendermi dal lutto.

Una settimana dopo l'operazione ebbi un attacco epilettico, che venne immediatamente interrotto.

Mia madre, che era presente, rimase sconvolta.

Prendevo psicofarmaci e ansiolitici, che mi tranquillizzavano, e antiepilettici che evitavano il ripetersi di crisi.

Avevo continue allucinazioni. Una volta ero convinta che nella notte due infermieri mi avessero fatta uscire dall'ospedale e portata in una stanza completamente bianca, dove c'era una tv e un enorme divano.

Erano presenti anche altre persone che ballavano ovunque, chi sensualmente sul tavolino, chi sul divano ridendo, mi fecero accomodare su una poltrona e vidi un programma di musica acceso di fronte a me, credo fosse Mtv, le immagini scorrevano veloci di una donna che ballava la danza del ventre, gli altri con me presenti facevano per copiarla e si dilettavano a muovere i fianchi velocemente a tempo di musica, era come un festino privato.

Tornata cosciente dopo il coma, ero confusa e i ricordi si confondevano, in parte mi dimenticai anche il nome di alcune persone. In ospedale ero continuamente depressa e quasi drogata.

I giorni mi sembravano tutti uguali, dormivo spesso, più per noia che per vera e propria stanchezza; dopo essermi tolta il tubo nasogastrico da sola, con cui ricevevo nutrimento, iniziai a mangiare autonomamente i soliti cibi liquidi perché non riuscivo ancora a deglutire bene e spesso i bocconi mi andavano di traverso.

Una volta, per esempio, mangiando un'insalata di carote crude quasi mi strozzai, perché non riuscii a deglutire, l'infermiere dovette mettermi le mani in bocca per tirarmi fuori quegli eccessi di cibo: non ero ancora abituata a eguagliare le mie capacità con i fatti. Qualche volta passeggiavo con mia madre nel parco che circondava la clinica, l'aria e il verde mi facevano bene.

Gli odori mi travolgevano e le foglie secche per terra dai colori tenui e caldi mi ipnotizzavano.

Il suono delle foglie secche schiacciate dalle ruote della mia sedia a rotelle mi tranquillizzava come il ticchettio di un orologio.

Si stava avvicinando l'autunno.

C'erano molte panchine e ogni volta ci sedavamo a una diversa, o meglio mia madre lo faceva, io rimanevo sempre in sedia.

Ci mettevamo al sole, che riscaldava la pelle del mio viso e colorava un poco le mie guance fin troppo bianche e malate, mi dava un senso di piacere e lieve leggerezza d'animo.

Stendevo la testa indietro e rimanevo con gli occhi chiusi, mentre i raggi di sole riscaldavano il mio cuore, da troppo tempo gelato. La notte piangevo per via dei dolori alla gamba e al braccio, dovuti agli spasmi.

I pianti erano simili a ululati che svegliavano tutto il reparto e davano sui nervi agli infermieri e ai pazienti, ma non potevo farne a meno, i dolori erano lancinanti e aggressivi e la depressione ormai si era impossessata di me, non ero capricciosa o isterica, semplicemente soffrivo.

Fu il 13 agosto che venni trasferita in una nuova clinica a Lipsia, nel quartiere di R.,dove iniziai a fare fisioterapia e nella quale stavo in stanza con una donna che cercava continuamente di fuggire.

Pensava fossi suo figlio per via dei capelli corti, che prima dell'operazione mi erano stati rasati, mi accarezzava di continuo e mi sussurrava parole dolci e familiari.

Non mi faceva del male, anzi, provavo molta tenerezza nei suoi confronti, ma gli infermieri la allontanavano ugualmente da me.

Per il mio compleanno, a inizio ottobre, mia madre e qualche mio amico organizzarono una festicciola nel parco vicino, accanto a un laghetto.

Furono gonfiati palloncini colorati e mia madre portò una bellissima torta al cioccolato, che aveva preso in una rinomata pasticceria di Lipsia.

Il 7 ottobre venni trasferita di nuovo nel primo ospedale nel quale ero stata operata alla testa con urgenza e venne rimesso il pezzo di cranio che mi era stato tolto in precedenza, ma la quale grandezza, pur essendo il mio stesso osso, sotto temperature molto basse si era ridotta.

Fu così che mi rimase sulla fronte un avvallamento, un simbolo di riconoscimento che avrei portato con me a vita, come Harry Potter e la sua cicatrice.

La sera prima dell'ultima operazione alla testa, chiesi a mia madre i dettagli degli avvenimenti accaduti e la loro cronologia, dal momento che io non sapevo con esattezza cosa fosse accaduto.

È orribile avere un vuoto di memoria, è come se mancasse un pezzo del rullino della propria vita, scombussola, confonde.

L'intervento comunque andò benissimo e il quattordici ottobre tornai nella clinica a R.

«Saresti potuta morire» disse mia madre, per questo oggi sono la madre più felice sulla faccia della terra a saperti viva».

Fa uno strano effetto sapere di essere stata sul punto di andarmene, permette di vedere la vita sotto un altro aspetto.

Non è indistruttibile come si pensa che sia, la si osserva con delicatezza, come una foglia fragile, non si è immortali, non siamo Dèi, siamo umani, fatti di pelle e ossa.

In noi scorre sangue, vita, linfa.

«Quando sei stata trasferita la prima volta, un'infermiera mi disse che te la saresti cavata perché hai una grande forza di volontà»:

Non aveva tutti torti, l'avevo scampata!

Il ventidue ottobre venni portata in un centro di riabilitazione moderno, attrezzato e per struttura interna simile a una base spaziale.

Al centro di essa c'era  una grande scalata a chiocciola in marmo bianco con un corrimano azzurro che portava a ogni piano. In ognuno di queste c'era la stazione di ciascuna terapia (ergoterapia, fisioterapia, psicologia, arti creative, logopedia).

All'angolo con la porta a vetri che portava alla terrazza, si trovavano un divano e due poltrone in pelle rossa e delle piante da interno. in grandi vasi quadrati in metallo.

L'aria era secca e calda per i termosifoni costantemente accesi.

Il reparto degenza in cui avrei dormito era al primo piano e la stanza in cui venni trasferita disponeva di due letti e grandi armadi con tanto di frigoriferi.

Appena arrivata, venni messa subito a letto e venne prelevato il sangue per accertamenti.

Mia madre mi fece compagnia tutto il giorno, "parlammo", o meglio io non riuscivo e quindi comunicavo scrivendo su un blocchetto di carta, era l'unico modo. 

Se solo avessi potuto immaginare chi avrei incontrato là!

Ero senza un uomo.

Com'era possibile che tutte le mie amiche fossero fidanzate, sposate o convivessero?

Era assurdo che di tutti i problemi fisici che avevo, io mi preoccupassi di una cosa così futile: l'amore.

Che cos'ho io di diverso, che non va? Perché non trovo un ragazzo adatto a me? mi ero sempre domandata disperata.

«Tempo al tempo» rispondeva mia nonna, la mia cara e amata nonna.

«Hai aspettative troppo alte» asseriva mia madre, fissandomi con i suoi occhi come un cielo senza nuvole.

«Vedrai, arriverà quando meno te lo aspetti» dicevano le mie amiche italiane.

L'assenza di un uomo si faceva sentire, ma ero una donna forte e determinata e avevo altro a cui pensare: guarire e rimettermi in piedi, dopotutto però un ragazzo avrebbe reso la degenza più facile e spensierata, sentirmi accolta tea le braccia di un principe azzurro era un sogno al quale non potevo rinunciare.

Mia madre, intanto, combatteva contro la decisione dei dottori di farmi una tracheotomia e chiedeva continuamente loro perché, seppure prendessi tanti farmaci, soffrissi ancora di forti dolori alla gamba e al braccio.

Janis Main, il primario donna di neurologia, molto spiritosa e con la battuta sempre pronta e che ricordava per fisionomia e nome Janis Joplin, aveva preso a cuore la mia situazione. Ci aiutò personalmente e trovò una soluzione alle fitte lancinanti che sentivo, dandomi la giusta combinazione di medicinali.

Non saprò mai come ringraziarla e mostrarle la giusta gratitudine, come anche ai terapisti che mi hanno sostenuta e incoraggiata in questo duro percorso, tra i principali Martah, Erika ,Laura, Milena, Tim, Ulrike e Denise.

Fu in quella clinica, tra quelle mura, che lo incontrai.

La persona che avrebbe per sempre cambiato la mia esistenza: un uomo sulla trentina, capelli biondo miele legati sulla testa in uno chignon morbido e barba corta, ciglia così lunghe e folte da poterle quasi stringere in una treccia in miniatura, occhi vitrei azzurro-verde marino che ricordavano il profondo oceano, tanto da perdercisi nel guardarli, di una bellezza inebriante.

Le braccia muscolose e le gambe corte ma ben tornite.

La prima volta che ci vedemmo lui mi guardò profondamente negli occhi, fissandomi, come a confessarmi: "ti ho vista, ti osservo, ti ho notata".

Il mio cuore cominciò a fare bum, bum, bum.

Lui entrò una mattina nella mia stanza, dopo aver bussato con delicatezza alla porta, presentandosi:

«Sono l'infermiere Gabriel e oggi mi occuperò di te», asserì, picchiettando con l'indice sul cartellino attaccato al taschino della divisa sul quale era scritto il suo nome: Gabriel Richter.

Quant'era bello accidenti!

D'altronde Tristan Bernhard scrisse " Il primo bacio non è dato con la bocca ma con gli occhi".

Mi mordicchiai le labbra nervosamente, la sua bellezza m'imbarazzava.

Si presentò dandomi la mano e pensai a quando ero bambina, non mi sarei mai più lavata la mano pur di tenere con me quel piccolo e breve contatto fisico.

Aveva una stretta salda, sicura, anche se guardandomi negli occhi arrossì sul naso e sulle guance, Il colore degli occhi, in contrasto con quello della pelle bordeaux, risultò ancora più forte, come volessero richiamare a tutti i costi la mia attenzione.

Pochi giorni dopo, fu di nuovo il mio infermiere, si dedicava a me con tanta cura e dedizione.

Poi la settimana successiva, dopo esserci visti per due turni lavorativi consecutivi, una sera, un venerdì di fine ottobre durante il solito giro notturno di controllo, ci incontrammo di nuovo.

Ero stesa sul letto con le gambe incrociate e coperte dal lenzuolo, guardavo la tv e mi chiedevo quando sarebbe tornato nella mia stanza per la supervisione.

Desideravo con ardore rivederlo al più presto e ogni volta che scorgevo da sotto la porta un'ombra passare, speravo fosse lui a entrare, scoraggiandomi subito dopo, non sentendolo oltrepassare l'uscio.

Stupide ombre! Lo avevo notato, mi piaceva, aveva qualcosa di diverso dagli altri uomini incontrati e conosciuti fino ad allora, aveva un aura diversa, bella.

Lui era bello.

Mi era piaciuto fin da subito, aveva attirato a sé la mia anima.

Ero sola in camera per via delle misure di sicurezza contro il virus che era in circolazione, Covid-19, lo chiamavano, che avrebbe per sempre cambiato le vite di tutti; mia madre era andata via da qualche ora, ormai.

Lui alla fine, quando meno me lo aspettai, entrò.

C'era imbarazzo, ci eravamo piaciuti fin dal primo istante, o almeno questo è ciò che credevo.

Lo osservai avvicinarsi a me lentamente e il suo intenso profumo di alberi impregnò la stanza e, chiudendo lentamente le palpebre, mi sembrava di essere avvolta dal suo calore, riaprendole, però, mi risvegliai d'un tratto quando mi domandò: «Hai bisogno di qualcosa?» Avevo dolore alla gamba per via dei soliti spasmi fastidiosi.

Gabriel mi fece un massaggio intenso e rilassante; il suo tocco era così piacevole e calmo, che distese ogni muscolo del mio corpo.

Rischiai più volte di addormentarmi. Ma mi sforzavo a tenere gli occhi aperti per restare vigile, volevo guardarlo il più a lungo possibile e imprimermelo nella memoria e nel cuore in maniera più dettagliata possibile, i suoi occhi, le sue spalle, le fossette sulle guance quando rideva...

Avrei potuto trovare 365 ragioni per le quali mi piaceva, una al giorno.

«Com'è?» chiese lui premuroso rivolto al massaggio.

«Erotico» risposi vergognandomene subito dopo e diventando all'istante paonazza, così come anche lui.

«Mi devi due baci, al di là delle mascherine» aggiunsi sfacciata, perché avevo capito che si sentisse attratto da me.

Lui annuì silenziosamente e, sorridendo timido, spostò il lenzuolo e mi sollevò come gli uomini prendono in braccio le proprie mogli dopo il matrimonio, per portarle sulla soglia della nuova casa, ma io ero in pigiama e non ero sicuramente la sua sposa.

Mi fece roteare, poi mi ripose delicatamente sul letto.

Ero emozionata e il cuore mi batteva forte, mi veniva da ridere per la felicità, ma mi sforzai di sorridere semplicemente.

Da mia madre venivo sempre definita come un'intramontabile romantica; e a dirla tutta, lo ero veramente; vedevo la vita in rosa, "Je vois la vie en rose", come cantò Edith Piaf; iniziai a raccontargli dell'ultimo concerto al quale ero stata.

Parlare di musica m'infiammava molto, era la mia più grande passione dopo il ballo swing, quindi mi mostrai entusiasta.

Mi voltai a fissargli quelle sue labbra carnose, i suoi occhi si posarono su di me e mi baciò all'improvviso, come per farmi tacere.

Feci finta di nulla, ero ammutolita, non sapevo bene cosa dire e forse era meglio così perché avrei rovinato la magia del momento. Ripresi a parlare del concerto di un gruppo australiano elettropop, i Parcels, il mio gruppo preferito, che avevo conosciuto grazie al mio ex, raccontai delle luci sul palco, della scenografia, con chi ero andata, di come avessero suonato bene e gli feci vedere qualche foto sul cellulare, poi mi girai per controllare che mi stesse ancora ascoltando e mi baciò nuovamente.

Quando ci staccammo m'immersi nelle sue iridi oltremare, che erano piene di sentimenti indecifrabili.

Lui mi creava una strana sensazione nello stomaco. Le farfalle impazzivano.

I will always love you, cover by Parcels

So I'll go, but I know

I'll think of you, every step of, the way

And I, will always, love you

Will always love you

Quindi me ne vado, ma io so

Ti penserò a ogni passo della strada

E io ti amerò per sempre

Ti amerò sempre

Erano baci innocui, sulle labbra, come per mostrarmi interesse senza però sbilanciarsi troppo.

Le labbra combaciavano alla perfezione, come fossero state create le une per le altre e si abbracciarono.

Avevamo entrambi fatto il test per il virus ed eravamo risultati negativi, quindi non c'era pericolo d'infettarsi. Calò un profondo silenzio, nessuno dei due disse più nulla, la timidezza e l'imbarazzo dominavano il momento. L'aria si fece densa.

Ancora uniti, aprimmo gli occhi e ci guardammo, scoppiammo a ridere.

Le sue labbra erano così morbide e avvolgenti, che avrei potuto posarmici sopra come una farfalla per ore, ad assaporare quel dolce tocco.

Il suo sorriso mi lasciava senza fiato. Risultava sempre radioso e di buon umore.

Il mio cuore sprofondò e saltò un battito, forse addirittura si fermò.
Aveva dei grandi occhi che, quando rideva, si rimpiccolivano un poco creando delle minuscole rughe ai loro lati. Le sue ciglia lunghe davano la sensazione di farmi vento quando batteva le palpebre.

Era un angelo caduto sulla Terra?

Qualunque fosse la verità ai miei occhi appariva come tale.

Deglutii rumorosamente, abbandonandomi sul letto e lasciando scivolare lo sguardo prima sul suo corpo scolpito, poi sul pavimento.

E lui finì per andarsene velocemente forse per imbarazzo o per non farsi scoprire, conoscevo le regole di un ospedale: nessun rapporto sentimentale infermieri-pazienti.

Eppure qualcosa era accaduto nella sua testa per sbilanciarsi tanto, che gli piacessi?

Era troppo presto per darsi una risposta. Tornò al suo lavoro, mi salutò con un grande sorriso per rassicurarmi.

Era uno di quei sorrisi che vorrebbero dire: "tranquilla, ne usciremo fuori insieme, fidati di me".

E mi fidai di lui per mesi.

Nonostante ciò non ero sicura che quel bacio fosse accaduto veramente, probabilmente era stata un'allucinazione, secondo Eileen era frutto della mia fantasia, sogni a occhi aperti, e di sicuro aveva ragione.

Prendevo undici farmaci, undici!

Ma vi sono più verità in una situazione, c'è quella oggettiva, che nessuno conosceva in questo caso, dal momento che alcuna persona esterna era stata presente, la mia e la sua e finché esistevano quelle personali potevo essere felice perché niente sarebbe andato perduto, ciò che vivevo e avevo vissuto seppur nella mia fantasia, era al sicuro, custodito per sempre nel mio cuore.

Poco importava quindi che fosse reale o meno, perché per me lo era e mi aiutava nel processo di riabilitazione.

Gabriel non mi vedeva come una disabile, ma come una donna che aveva scampato la morte.

Più viva, vegeta e determinata che mai.

Mi trattava come una persona "normale".

E questo lo vedevano anche mia madre ed Eileen che erano lucide.

Ma d'altronde cos'è la normalità? Significa essere ordinario e conforme alle regole, ai principi di bellezza.

Ma dopo ciò che avevo passato, potevo fare a meno di essere uguale agli altri, potevo ritenermi fortunata di tornare ad avere un corpo funzionante e mobile. 

Intanto in clinica girava voce che tra noi due, me e Gabriel, si fosse stabilita una strana e sospetta relazione e che fossi "segretamente" innamorata di lui.

Non avevano i torti.

Lo ero.

SPAZIO AUTRICE

Ed ecco che entra in scena il vero protagonista maschile di questa storia, Gabriel, il vero angelo che la salva.

Liberta si innamora a prima vista, è colpo di fulmine. Ci credete nel colpo di fulmine? Vi è mai capitato di innamorarvi con un solo sguardo? A me sì e non è un caso che lo scriva. Quel Gabriel esiste in carne e ossa. Ed è un angelo vero. 

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